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Categoria: Pensioni Pagina 23 di 39

IL COMMENTO ALL’ARTICOLO DI BOERI E BRUGIAVINI*

La sentenza dell’Alta Corte di Giustizia della Ue ha contribuito a riaprire il dibattito sulle pensioni, sia pure con l’alibi che all’ordine del giorno sia posta soltanto l’età pensionabile di vecchiaia delle donne. Il Governo ha dichiarato di voler ottemperare alla sentenza, limitatamente al caso delle dipendenti delle pubbliche amministrazioni. E’ sempre più evidente, tuttavia, che il tema della previdenza non potrà essere a lungo sottratto – ne sono convinto – alla ricerca di risorse in cui è impegnato il Governo per fare fronte al finanziamento degli ammortizzatori sociali. E per fare cassa la strada maestra è quella di agire sull’età pensionabile (che è pur sempre il parametro fondamentale di ogni sistema pubblico a ripartizione). Molto utili ed interessanti sono, dunque, le simulazioni di Agar Brugiavini e Tito Boeri riguardanti alcune ipotesi di intervento sull’età di quiescenza, tra cui è ricordata anche una proposta contenuta in un progetto di legge (AC 1299) del quale sono primo firmatario.  Tra gli argomenti affrontati,  il progetto di legge (dove si fa ampio ricorso alle norme di delega) intende promuovere  un incremento graduale – fino a 62 anni – del limite anagrafico delle donne – nel sistema retributivo –  in vista del ripristino, a partire dal 2014 di un pensionamento flessibile e unificato, nel modello contributivo, in un range compreso tra 62 e 67 anni, correlato agli effetti di incentivo/disincentivo derivanti da appropriati coefficienti di trasformazione.  Si tratta, pertanto, di una soluzione modulare che non è sorda alle propensioni e alle esigenze delle persone, garantendo nel medesimo tempo un sostanziale innalzamento dell’età pensionabile. E’ questo il principale cambiamento che il progetto di legge introduce rispetto all’impostazione della legge n.243/2004, riconfermata anche dalla successiva legge n.247 del 2007, che, nel sistema contributivo, prevede percorsi d’uscita estremamente rigidi: a regime, infatti, anche nel sistema contributivo, i lavoratori potranno andare in pensione facendo valere i requisiti della vecchiaia (65/60 anni di età e cinque anni di contribuzione effettiva a condizione di percepire un trattamento pari ad 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale), con 40 anni di versamenti a qualunque età oppure a 61/62 anni se dipendenti e a 62/63 anni se autonomi con 35 anni di anzianità. L’idea del mio progetto è solo la riproposizione aggiornata dell’impostazione di cui alla legge n. 335 del 1995, la quale prefigurava nel sistema contributivo una sola forma di pensionamento a partire da 57 anni per arrivare a 65 (in relazione con i coefficienti di trasformazione). I 57 anni non erano una congettura, ma il punto d’arrivo della riforma del trattamento d’anzianità nella fase di transizione; i 65 il limite massimo della vecchiaia. Immaginare, quindi, un segmento compreso tra 62 e 67 anni corrisponderebbe, alla luce delle normative nel frattempo intervenute, ai medesimi criteri adottati  nel 1995. Nel 2013, infatti, il requisito anagrafico per ottenere la pensione di anzianità sarà, nei fatti, pari a 62 anni. Per portare all’appuntamento, a regime, con questo nuovo limite minimo anche le regole del modello retributivo, rimarrebbe un solo <scalino> da salire: allineare gradualmente a 62 anni l’età di vecchiaia delle donne che andranno in quiescenza col calcolo retributivo. E’ importante, poi, chiarire un passaggio importante. Oggi sarebbe possibile ed equo intervenire sull’età di vecchiaia delle donne proprio perché si è data una sistemazione al problema dell’anzianità. Nel mondo del lavoro privato (subordinato ed autonomo) sono poche le lavoratrici (nel Fpld-Inps, ad esempio, appena il 17%) che riescono a maturare i necessari requisiti contributivi dei 35 anni. Soggetti deboli del mercato del lavoro, le donne “private” sono praticamente costrette ad attendere i 60 anni (quando bastano i 20 anni di versamenti previsti per la vecchiaia) per andare in quiescenza (ogni anno i due terzi delle nuove pensioni di vecchiaia sono erogate a donne). Diverso è il caso dei lavoratori. Le coorti dei pensionati del retributivo hanno una storia lavorativa che consente loro di maturare i canonici 35 anni  all’età anagrafica prevista; tanto che la pensione di anzianità è praticamente una prerogativa maschile. Così, quando si poteva andare in pensione di anzianità a 57/58 anni, sarebbe stato iniquo elevare il requisito anagrafico di vecchiaia delle lavoratrici, perché l’esito sarebbe stato quello di continuare a mandare, nei fatti, le donne in pensione ad un’età più elevata di quella degli uomini. Adesso le cose sono cambiate. Scalone o scalini, il requisito dell’anzianità arriverà a 62 anni nel 2013. Sarebbe, allora, non solo utile ma equo puntare alla soluzione del pensionamento flessibile tra 62 e 67 anni, che (tra le altre cose) consentirebbe risparmi di quasi un miliardo di euro l’anno, per un congruo arco di tempo. 

* Giuliano Cazzola è vice presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A GIULIANO CAZZOLA

Ringraziamo Giuliano Cazzola per i suoi commenti e per le spiegazioni circa i termini e le giustificazione della sua proposta, che abbiamo valutato assieme alle altre.  Trattandosi di proposta piuttosto complessa le avvertenze circa le nostre stime sono particolarmente importanti in questo caso. In ogni caso secondo le nostre simulazioni la proposta Cazzola (BBC) ha un profilo temporale simile a quello della proposta Boeri-Brugiavini con spostamente graduale delle età (BB2) e porta da qui al 2020 a risparmi leggermente inferiori (per circa 500 milioni) a quest’ultima.

 

Risparmi cumulati, anno 2020
   
Riforma Risparmio cumulato
(milioni di euro)
BB1 10.274
BB2 11.731
D 1.467
Q 8.979
BBC 11.150

PENSIONI: SE I RISPARMI RICHIEDONO FLESSIBILITA’

Sono in molti ad auspicare un nuovo intervento sul sistema previdenziale pubblico italiano. Ma nessuno ha calcolato finora l’entità dei risparmi prodotti dalle diverse proposte. Ecco i risultati di nostre simulazioni sotto quattro ipotesi diverse. Dall’equiparazione dell’età di pensionamento tra uomini e donne si ricava ben poco. I maggiori risparmi cumulati derivano da riduzioni attuariali di tutte le pensioni maturate dal 2010 in poi per chi lascia il lavoro prima dei 65 anni. E’ anche la riforma più flessibile ed equa sotto il profilo intergenerazionale.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Quello che mi sorprende, nel dibattito sulle politiche anti-povertà che si sta svolgendo (non solo su questo sito), è il "nonsipuotismo". In Italia, questa la tesi, non si può fare il Minimo Vitale perché c’è l’evasione fiscale e fineremmo per darlo, in parte, a dei falsi poveri. La mia reazione è molto semplice: perché non si ragiona nello stesso modo anche per altri problemi di azzardo morale? Per esempio, perché non aboliamo il trasporto pubblico, visto che alcuni utenti non pagano il biglietto? O la scuola pubblica perché alcuni studenti (i cosidetti bulli) la frequentano senza profitto? Più in generale, se l’evasione giustifica la mancata adozione di politiche di contrasto della povertà, perché non estendere il ragionamento al prelievo fiscale in quanto tale? Mi spiego meglio: quando i giornali scrivono dell’evasione e dicono che X miliardi di euro "mancano all’appello", dicono una mezza verità. In un paese in cui il prelievo è circa metà del PIL le tasse evase non mancano mai all’appello. Piuttosto, le fanno pagare a qualcun altro. Qual è la giustificazione morale di questa prassi consolidata? Perché, in altre parole, i contribuenti onesti devono finanziare l’evasione fiscale? Da un punto di vista etico, non dovremmo forse sospendere il prelievo sui contribuenti onesti fino a quando non avremo sconfitto l’evasione? Per ovvie ragioni di utilità pubblica, simili proposte, intenzionalmente paradossali, devono essere respinte. Ma allora per coerenza si deve anche respingere l’argomento che dice che il Minimo Vitale non si può fare a causa dell’evasione. Piuttosto, in un paese serio, si dovrebbe ricavare da questo dibattito una ferma determinazione a quantificare i costi dell’evasione fiscale, paragonandoli a quelli del Minimo Vitale. Fra i costi dell’evasione fiscale, oltre alle somme "mancanti all’appello", metterei le distorsioni provocate dal sovraccarico fiscale per i contribuenti onesti. Quanti punti di PIL perdiamo per gli effetti di disincentivo delle aliquote, che sono alte solo per chi le tasse le paga davvero? Inoltre, ammettendo per ipotesi che in Italia non c’è il Minimo Vitale perché c’è l’evasione fiscale, conterei fra i costi di quest’ultima anche gli effetti sui più poveri. Di questi si sa molto poco. Per esempio, il 20 gennaio 2009 su "La Repubblica" si poteva leggere che in Italia, in media, muoiono ogni anno 600 (seicento) persone per il freddo. Novanta solo in Lombardia, nell’inverno 2008-2009.

IL COMPROMESSO VIRTUOSO

Una politica economica efficace dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi, in termini di ammortizzatori sociali e riduzioni di imposte, controbilanciato da risparmi strutturali nel medio periodo. Risultato che si può ottenere aumentando gradualmente l’età pensionabile già dal 2009 e riducendo i privilegi di cui godono ancora troppe categorie. Ma esistono le condizioni politiche per un simile compromesso? Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future.

L’UNIVERSITA’ DELLE CATTEDRE GRIGIE

I professori universitari italiani sono i più vecchi d’Europa e godono del privilegio di andare in pensione più tardi dei colleghi europei senza dover produrre risultati scientifici. Il decreto legge 180/08 del ministro Gelmini fissa le quote d’immissione dei giovani ricercatori nel sistema universitario, ma non affronta il nodo dell’età pensionabile dei docenti ordinari. All’università serve una riforma che diminuisca rapidamente il numero degli ordinari, preservando al contempo la trasmissione del sapere fra le generazioni.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Tutti i commenti confermano l’opportunità di affrontare congiuntamente, nella discussione ma soprattutto nelle politiche, la questione dell’età alla pensione e quella del modo in cui va trattato il lavoro di cura (e i bisogni cui corrisponde). Ci sono tuttavia alcuni malintesi che occorre chiarire. Io non sostengo affatto che l’attribuzione alle donne del lavoro di cura (e ancor più di quello domestico) sia qualche cosa di inevitabilmente naturale. Ciò che è inevitabile, naturale, anche in epoca di fecondazione assistita, è che sono le donne a portare letteralmente al mondo i nuovi esseri umani e ciò non è senza conseguenze, non solo sul loro corpo, ma anche sul tipo di legame che si instaura tra madre e bambino durante la gravidanza e nei primi mesi di vita. Ma da questo non discende che solo le donne abbiano capacità e responsabilità di cura, che si presentano ben oltre quei primi mesi e anche non solo verso i bambini piccolissimi. Ciò che sostengo è che sia il bisogno di cura che il lavoro effettuato per rispondervi va riconosciuto per chi lo fa (donne e uomini): non con un salario per il lavoro domestico (incluso quello che si fa per il proprio marito o figli grandi), ma con congedi adeguatamente remunerati e di durata ragionevole (molte ricerche segnalano in un anno il punto di equilibrio che consente tempo per la cura ma non disincentiva dal ritorno nel mercato del lavoro) e contributi figurativi per lo meno con gli stessi criteri che si adottano per il servizio militare. Il lavoro di cura va anche in parte sostituito tramite una offerta di servizi di qualità e a prezzo accessibile. L’investimento in servizi, tra l’altro, oltre a incoraggiare le donne (ma auspicabilmente anche gli uomini) con responsabilità di cura a rimanere nel mercato del lavoro, avrebbe anche due altri effetti positivi: creerebbe domanda di lavoro e offrirebbe ai bambini quegli spazi educativi in età pre-scolare che molti studi segnalano essere necessari per contrastare lo sviluppo di disuguaglianze cognitive dovute alle disuguaglianze nell’ambiente famigliare.

Quanto alla mia affermazione che le donne che hanno carichi famigliari e sono anche occupate hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga, se misurata in ore lavorate,  di quella degli uomini, non è una mia invenzione, ma sta nei dati empirici, italiani e non. Basta sommare – sia per gli uomini che per le donne in analoghe condizioni famigliari – l’orario di lavoro remunerato e quello del lavoro non remunerato famigliare, di cura e domestico. Questa differenza c’è in tutti i paesi, ma in Italia è tra le più alte, stante la più squilibrata divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne e stante la più esigua disponibilità di servizi.

LA PENSIONE? A 65 ANNI PER TUTTI

Gli italiani sono uno dei popoli più longevi del vecchio continente. Paradossalmente, però, siamo anche un paese con un’età di pensionamento tra le più basse. E che meno incentiva la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Esistono dunque ottimi motivi per portare l’età pensionabile, per tutti e subito, a 65 anni, agganciandola poi davvero all’evoluzione dell’aspettativa di vita. La riduzione di spesa ottenuta consentirebbe di alleviare la pressione fiscale e di finanziare nuovi strumenti di protezione sociale. Esigenze ancor più importanti in periodo di crisi.

DOV’È LA VERA PARITÀ TRA DONNE E UOMINI?

Un’età della pensione più bassa penalizza le donne, ha sentenziato la Corte Europea. Ma eliminare questa disparità non basta. Bisognerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini e pagano prezzi economici elevati. Su questo occorre intervenire.

L’ETA’ DELLA PENSIONE

La proposta del ministro Brunetta di elevare a sessantacinque anni l’età pensionabile femminile è corretta, ma parziale. Occorre un riordino generale dei requisiti di accesso alla pensione che rimuova gli errori del protocollo del 23 luglio 2007, tanto gravi quanto quelli in precedenza commessi dal governo Berlusconi. Il modello Ndc italiano è oggi l’unico in Europa a non fare esclusivo riferimento a una fascia d’età pensionabile indifferenziata per genere. Ne risulta offeso il principio di flessibilità, attributo fondamentale del sistema contributivo.

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