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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 41 di 70

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Cari Lettori,

Grazie di avere commentato così numerosi il mio articolo sulla scelta della facoltà universitaria. Rispondo brevemente, e in maniera collettiva, per ragioni di tempo e spazio.
Il titolo e il riassunto iniziale —che non ho scelto: è responsabilità degli editori— suggeriscono impropriamente che l’articolo riguardi la crescita dell’Italia. Non era questo il mio intendimento. L’articolo era diretto al singolo individuo e riguardava l’opportunità economica per questo individuo di scegliere una facoltà universitaria piuttosto che un’altra. Gli effetti sociali delle singole scelte non erano il tema di questo articolo. In particolare, non credo che semplicemente cambiando la distribuzione delle facoltà universitarie scelte dalla popolazione si risolverebbe il problema della crescita. Mi dispiace del fraintendimento.
Il paragone con Singapore ha forse contribuito a questo fraintendimento. La mia intenzione non era di suggerire che l’Italia debba diventare tale e quale a Singapore in ogni suo aspetto. Il punto era solo di mostrare che ci sono società avanzate e di successo che hanno una allocazione dei talenti molto diversa da quella italiana. E che, per queste società, il capitale umano è la base del modello economico. Questo mi sembra un punto importante. E’ interessante anche comparare con modelli diversi. Gli Stati Uniti, dal punto di vista di scelta delle materie all’università, assomigliano più all’Italia umanistica che al Singapore tecnico. Di conseguenza gli USA producono pochi cervelli “autoctoni” in materie tecniche, e devono importarne dall’estero.
Alcuni lettori hanno forse interpretato l’articolo come una mancanza di rispetto nei confronti della cultura umanistica. Nulla di più lontano dalle mie intenzioni. Sono un appassionato dell’arte, della musica, ecc. E ritengo che le arti e le scienze umane e sociali siano un patrimonio importantissimo. Soltanto osservo che si può apprezzare la cultura senza farne una professione. Si può anche farne una professione, beninteso, ed è importante che qualcuno lo faccia. La questione è: quanti, in percentuale.
Alcuni lettori rivendicano il patrimonio culturale Italiano “che tutto il mondo ci invidia” a sostegno della tesi che va bene laurearsi in discipline umanistiche. Sono d’accordo che il turismo sia una risorsa importante per l’Italia. Non ne segue necessariamente che laurearsi in discipline umanistiche sia una scelta di carriera vincente (in media).
Un aspetto importante che non ho toccato nell’articolo è la vendibilità all’estero di un profilo professionale. Mi pare che discipline scientifiche ed economiche siano più trasportabili, in media, e quindi offrano un ulteriore vantaggio rispetto a discipline meno trasportabili (legge, per fare un esempio). Un lavoro all’estero, sebbene dal punto di vista dell’Italia sia una perdita (abbiamo speso soldi per istruire una persona che poi non produce in Italia), dal punto di vista individuale è spesso un ottimo lavoro.

Grazie dell’attenzione.

RICETTE PER LA CRESCITA: PIÙ INGEGNERI E MENO FILOSOFI

La mancanza di sbocchi lavorativi per i laureati italiani è un problema serio. Tuttavia, a renderlo ancora più grave contribuiscono le scelte dei giovani, che spesso si orientano verso le facoltà umanistiche tralasciando quelle scientifiche o manageriali. Dovremmo invece seguire l’esempio di Singapore, un paese che non ha risorse naturali, ma che negli ultimi anni è cresciuto più dell’Italia. Perché ha investito nel capitale umano dei suoi giovani e oggi produce, in proporzione, il doppio dei nostri ingegneri e manager, un ottavo dei nostri avvocati e un quarto dei nostri umanisti.

LETTERA DALL’UNIVERSITÀ DELL’INSUBRIA

Troviamo giusto che i mezzi di informazione si occupino delle vicende dell’Università, anche quando queste non sono le più esaltanti. Niente da dire, quindi, a proposito dell’attenzione che alcuni giornali,siti ecc. hanno recentemente dedicato a un concorso svoltosi presso la Facoltà di Economia dell’Università dell’Insubria (dove lavoriamo in qualità di ricercatori e professori) se non un generale apprezzamento per il ruolo positivo che spesso l’informazione svolge appunto nel portare alla luce situazioni davvero imbarazzanti.
Formalmente – veniamo adesso al concorso in questione e al commento che gli ha dedicato Fausto Panunzi – la Facoltà non c’entra con gli esiti della valutazione : c’è una commissione che valuta e c’è un rettore che sancisce  la legittimità della procedura. La Facoltà non può che prenderne atto. Tuttavia c’è un obiettivo di trasparenza e di massima correttezza che la Facoltà di Economia dell’Insubria vuole perseguire.

Crediamo che vada letta in tal senso   la sua probabile decisione di non chiedere (in questo caso) l’anticipazione della presa di servizio del vincitore della valutazione comparativa in oggetto, in modo da lasciare il tempo adeguato perché ogni ombra sia dissipata. Se così sarà, avremmo da parte della Facoltà un modo per schierarsi concretamente , e non solo a parole (più o meno facili), a favore di quegli obiettivi di trasparenza e correttezza  che prima richiamavamo.


Gianluca Colombo
Patrizia Gazzola
Angelo Guerraggio

QUANDO LE PROCEDURE CANCELLANO IL MERITO

La selezione dei ricercatori e degli scienziati più capaci ed eccellenti rappresenta uno dei meccanismi più importanti per far progredire la ricerca scientifica. In Italia i concorsi universitari sono stati frequentemente oggetto di forti critiche sia per le modalità di selezione delle commissioni che per non aver scelto candidati eccellenti con  criteri di merito condivisi dalla comunità scientifica.
Esiste a nostro avviso un altro aspetto, sconosciuto a gran parte del pubblico, ma estremamente rilevante nel determinare se un concorso va a buon fine o meno: il  funzionamento delle “procedure concorsuali”.

UN AUMENTO EQUO DELLE TASSE UNIVERSITARIE

Ringrazio Andrea Ichino e Daniele Terlizzese per la loro risposta puntuale al commento critico all’articolo di Daniele Checchi e Marco Leonardi. Nella possibile riforma strutturale che andrò a proporre terrò in considerazione, sottolineando punto per punto, gli elementi portati alla luce da Ichino-Terlizzese.
Questa mia ipotetica proposta di riforma del sistema universitario italiano si basa sull’idea che, allo stato attuale dei fatti, ulteriori modifiche marginali alla vigente struttura avrebbero costi (sia di implementazione che di accettazione sociale) molto superiori agli eventuali benefici. D’altro canto i benefici derivanti dal ridisegnare ex-novo l’intero sistema avrebbero verosimilmente luogo solo dopo diverso tempo. Da qui l’idea di una possibile ristrutturazione del solo sistema di tassazione che faccia da base a nuove migliorie come, ad esempio, quelle illustrate dai due autori sopracitati che ben si integrerebbero con il mio modello teorico.

VECCHI GLI ATENEI, VECCHI GLI STUDENTI

Per decidere in quale modo riformare l’attuale sistema di rette universitarie  bisogna concentrarsi su quelle che sono le principali inefficienze dell’attuale sistema. Una criticità da cui partire è, a mio avviso, l’elevatissimo numero di studenti fuori corso. Parlando dei soli corsi di studio triennali nel 2010 il 40% degli studenti era iscritto fuori corso e il 60% si era laureato oltre i tre anni canonici. Non bastassero questi dati, di per sé preoccupanti, va detto che solo il 13% degli iscritti risulta avere un’età inferiore ai 22 anni, mentre il 34% ha più di 27 anni. Il dato che però desta maggiore perplessità è che il 27% delle facoltà in Italia non abbia nel 2010 alcuno studente laureatosi con meno di 22 anni: ciò significa che più di un corso di laurea su quattro produce solo studenti “vecchi”. Non c’è da stupirsi dunque se si parli dell’università italiana come di un vero e proprio parcheggio.

LA PROPOSTA

Personalmente credo che un buon sistema di incentivi potrebbe ridurre queste inefficienze. Quello che propongo qui è infatti un modello che riduca parallelamente il numero di studenti fuori corso,  concentrando gli abbandoni solo dopo i primissimi anni dall’immatricolazione.
Una possibile soluzione sarebbe quella di alzare le “rette relative”, ovvero la quota di retta a carico dello studente che attualmente è di circa il 20% a fronte del 80% finanziato dallo stato. Ad esempio, queste quote potrebbero invertirsi:  il che equivarrebbe, secondo le ultime stime di Federconsumatori a far pagare circa 5000 euro ad ogni studenti e i restanti 1000 allo stato. Con i soldi così risparmiati sarebbe possibile istituire nuove borse di studio sia per chi non ha la possibilità di affrontare le spese universitarie sia per gli studenti meritevoli.
Il sistema di incentivi potrebbe essere strutturato in modo che, dopo aver sostenuto un test d’ammissione per l’immatricolazione, alla fine di ogni anno accademico la retta venga parzialmente rimborsata in funzione della media dei voti ottenuta dallo studente. Una media del 30 e lode su tutti gli esami dell’anno equivarrebbe a una completa esenzione dalla tassa. Di fatto questo comporterebbe per gli studenti bravi la necessità di ottenere un prestito solo per il primo anno, andando a pagare in media meno di quanto non paghino nel sistema attuale. Questo invece non varrebbe per gli studenti meno bravi, che dovrebbero confrontare la nuova spesa universitaria, superiore a quella del sistema vigente, con i rendimenti attesi dell’istruzione terziaria. L’incentivo economico, inoltre, concentrerebbe gli abbandoni solo nei primi anni ed eviterebbe non solo le situazioni estreme (anche se attualmente piuttosto ordinarie) di studenti che si ritirano dopo 6-7 anni passati fuori corso ma anche lo stesso numero complessivo di studenti fuori corso. Ovviamente continuano a valere le considerazioni sull’avversione al rischio già ben illustrate da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese nella loro risposta che menzionavo prima.
Nella retta così strutturata sarebbero compresi infine tutti i servizi offerti tipicamente dall’università, quali lezioni, accesso alle strutture ecc…, ma un solo tentativo di esame. Dal secondo tentativo lo studente dovrà pagare un supplemento per ogni volta che lo sosterrà. I supplementi in questione potrebbero essere strutturati in diversi modi: potrebbero essere delle tasse fisse per ripagare i costi di gestione oppure potrebbero essere anch’essi funzione della media ottenuta in precedenza e/o del numero di volte che si tenta il medesimo esame. Questi però sarebbero solamente un inasprimento aggiuntivo del sistema di incentivi, in quanto è verificabile che il solo rimborsare la retta universitaria anno per anno in funzione della media ottenuta, aumentandone però l’entità, sarebbe di per sé sufficiente ad ottenere sensibili miglioramenti per le problematiche qui trattate.
Una trattazione più analitica sia dei dati sopraesposti che del modello in questione è disponibile nel file allegato.

IN AMERICA NON SAREBBE SUCCESSO? FORSE SÌ

Hanno destato giustamente scandalo, nella comunità scientifica italiana, e non solo, due recenti concorsi per ricercatore di economia all’università del Piemonte Orientale e all’università dell’Insubria, in cui a vincere sono stati i candidati con i contributi scientifici obiettivamente più scarsi. Lavoce.info ne ha riferito, facendo eco a iniziative partite da altri gruppi e siti web. (1)
In questi giorni si è spesso sostenuto che in altri paesi, e specialmente in Nord America, cose del genere non sarebbero mai successe. Vogliamo qui lanciare invece una provocazione, sostenendo che anche in università nordamericane, candidati simili avrebbero potuto risultare come i migliori, nonostante il loro magro o inesistente curriculum scientifico. Il motivo risiede nel funzionamento del mercato accademico e nell’organizzazione del sistema universitario in Nord America, che fanno sì che criteri diversi possano essere usati per assumere candidati in diverse università, per garantire maggior efficienza e responsabilità.
Prima di sviluppare il nostro ragionamento, tuttavia, è importante precisare che, date le regole che governano i concorsi in Italia e i criteri di svolgimento e selezione che le commissioni sono tenute a seguire, le nostre osservazioni non sono attualmente applicabili al contesto italiano. E proprio per questo, esiti come quelli dell’università del Piemonte Orientale e dell’università dell’Insubria vanno segnalati e combattuti.

LA SELEZIONE DEI DOCENTI IN USA

Il mercato accademico in Nord America (e sempre più anche in altri contesti) è del tutto decentralizzato (qui il precedente intervento). Ogni università comunica l’apertura di posizioni di ricercatore o professore; la posizione può essere specifica o idiosincratica alla particolare università o dipartimento. Per rimanere al caso di economia col quale abbiamo più familiarità, un dipartimento può aver bisogno di un economista industriale o del lavoro, o di un macroeconomista. Di conseguenza, i criteri per assumere un candidato non sono sempre gli stessi. Se un dipartimento cerca un ricercatore che insegni e si occupi di economia del lavoro, potrebbe non offrire la posizione al candidato col maggior numero e qualità di pubblicazioni, se queste non sono pertinenti alla materia di interesse, o, più in generale al candidato, pur bravissimo, che non risulti un buon “fit” (anche, perché no, in termini di personalità) per quel particolare gruppo di colleghi.
Altrettanto importante è il fatto che non tutte le università sono uguali, sullo stesso livello e interessate agli stessi parametri qualitativi e quantitativi. Ci sono università orientate alla ricerca: qui si darà importanza ai risultati e al potenziale scientifico di un candidato. Ci sono poi le università in cui l’attività di ricerca è limitata o inesistente. Rientrano in questa categoria i “Liberal Arts colleges”, così come i community colleges, ovvero istituzioni locali che offrono programmi post-secondari specifici. In queste scuole, si cercano docenti con capacità e interessi diversi: non sempre, ad esempio, il miglior scienziato è anche il miglior insegnante. Inoltre, esiste anche una differenziazione “verticale”: in entrambi i gruppi ci sono università di migliore e peggiore qualità. Ad esempio, alcuni Liberal Arts colleges, dove l’attività di ricerca è minima, sono tuttavia molto prestigiosi e hanno educato importanti leaders. Per esempio, il segretario di Stato Hillary Clinton ha studiato a Wellesley, un Liberal Arts college, imparando da professori con un curriculum scientifico limitato, ma di certo ottimi insegnanti e formatori.
Le università locali e i community colleges godono di uno status inferiore. Questo non le rende meno importanti, ma semplicemente diverse e non paragonabili alle research universities o ai Liberal Arts colleges. (2)
Le differenziazioni hanno conseguenze importanti in termini di finanziamento e riconoscimento. Non tutte le scuole sono finanziate con gli stessi criteri e in egual misura (sia quelle pubbliche, sia quelle private) e anche i salari dei professori sono differenziati. Per le università orientate alla ricerca, produrre risultati scientifici di eccellenza è essenziale per ottenere fondi, e anche per attirare un certo tipo di studenti. Per le università dedicate principalmente all’insegnamento, i criteri di finanziamento sono diversi, improntati, appunto, alle attività didattiche.
L’annuncio di un posto vacante in un determinato dipartimento specifica le caratteristiche richieste dalla posizione, ma i criteri di scelta di ciascun dipartimento non sono di solito resi pubblici. Al contrario, ciascun dipartimento sceglie tra i vari candidati in piena autonomia. Tuttavia, il dipartimento stesso sopporta i costi dell’eventuale assunzione di un candidato mediocre o inadatto alla posizione: il suo prestigio cala, e con esso calano i finanziamenti e la disponibilità a pagare degli studenti. Dunque, ha tutti gli incentivi per fare la scelta migliore. I dipartimenti godono anche di piena autonomia nello stabilire il carico di insegnamento e il salario dei singoli ricercatori e professori. Quindi, candidati con diverse preferenze, predisposizioni e livelli qualitativi vengono “abbinati” alle diverse scuole dai meccanismi di mercato.

IL CONFRONTO CON L’ITALIA

Le differenze con la situazione italiana sono notevoli. In Italia, i dipartimenti godono di autonomia nella selezione dei vari candidati, ma non pagano le conseguenze di scelte sbagliate, perché i finanziamenti sono in larghissima misura slegati dalla performance dei docenti (di ricerca o di insegnamento). È per questo motivo che casi come quello dell’università del Piemonte Orientale o dell’università dell’Insubria fanno tanto clamore: l’autonomia slegata dalla responsabilità si trasforma in puro arbitrio, e quindi in ingiustizie e inefficienze.
Date le regole attuali, una maggiore trasparenza nei criteri di selezione, accompagnata da maggiore attenzione da parte della comunità accademica, possono essere efficaci nell’individuare e prevenire casi come quelli del Piemonte Orientale o dell’Insubria in cui viene scelto il candidato obiettivamente peggiore. (3)
Crediamo però che il sistema andrebbe riformato in modo da garantire che i talenti vengano assegnati alle posizioni in cui sono maggiormente produttivi. Perché ciò accada, occorre però accettare che spesso il candidato migliore per una certa posizione non è quello con i titoli migliori sulla carta. I dipartimenti devono avere autonomia nello scegliere ricercatori e professori, ma devono anche essere responsabilizzati e pagare le conseguenze di scelte sbagliate. Se l’università del Piemonte Orientale o quella dell’Insubria vogliono assumere il candidato con zero pubblicazioni facciano pure, a patto che ne sopportino le conseguenze. Se vogliono caratterizzarsi come università votate alla ricerca, assumendo i peggiori candidati dovranno pagare le conseguenze in termini di minori finanziamenti e attrattività verso i futuri ricercatori – e anche in termini di prestigio dei selezionatori stessi. Se invece vogliono caratterizzarsi come università locali, di livello inferiore, oppure votate prevalentemente all’insegnamento, allora magari i candidati che scelgono sono dei buoni insegnanti. La competizione per i finanziamenti dovrà essere separata da quella delle università votate alla ricerca. In particolare, sarà in gran parte dovuta alle rette degli studenti, che saranno disposti a pagare in proporzione alla qualità dell’insegnamento. I docenti, con ogni probabilità, verranno pagati meno di coloro che svolgono anche attività di ricerca. L’allocazione dei talenti sarebbe così più efficiente. Maggiore competizione, su livelli multipli (qualità, vocazione dell’ateneo), toglierebbe potere contrattuale ai “baroni” e consentirebbe, ad esempio, ai migliori giovani ricercatori di competere “ad armi pari” e di avere maggior accesso a posizioni di ricerca.
Quanto descritto qui non può avvenire in Italia a “regime vigente”, ma solo riconoscendo che le università non sono necessariamente tutte uguali – e l’abolizione del valore legale del titolo di studio sarebbe un primo passo – rendendo più diretto il legame tra qualità e finanziamenti e mettendo in moto meccanismi per cui i vari atenei siano stimolate ad eccellere, anche in virtù di una sana concorrenza, e a differenziarsi.

 

(1)  http://petizionesecsp01.wordpress.com/2011/12/09/33/ e http://petizionesecsp01.wordpress.com/2012/02/18/
(2) Queste differenze di tipo e di qualità sono formalizzate da una serie di programmi di accreditamento e da graduatorie stilate da varie organizzazioni. Ad esempio, la Carnegie Foundation classifica le università in diversi livelli qualitativi (in generale e in relazione al tipo o focus della scuola); la rivista Us News pubblica periodicamente classifiche di università e programmi post-laurea, generali e in base a specifiche sottocategorie. Per quanto riguarda specifiche facoltà, esistono programmi di accreditamento come quello offerto da AACSB International, Association to Advance Collegiate Schools of Business, nel caso di facoltà economico-aziendali.
(3) Nei due casi le tabelle comparative non hanno bisogno di ulteriori commenti. Vedi: http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2011/12/concorso-alessandria-322.pdf; http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2012/02/concorso-insubria.pdf

ZERO TITOLI PER UN POSTO A VITA

I concorsi universitari di questi mesi sono gli ultimi con le vecchie regole. Soprattutto per i ricercatori sono gli ultimi che garantiscono il posto fisso. Ed ecco che prima all’università del Piemonte Orientale poi in quella dell’Insubria, vincono gli unici due candidati che non hanno alcuna pubblicazione vagliata da valutazione esterna. La buona notizia è che alcuni commissari non hanno votato per i vincitori. Ma non è accettabile che i ricercatori che hanno pubblicazioni sottoposte a giudizi rigorosi debbano sottostare a verdetti come quelli di Alessandria e Varese.

PESARE IL VALORE DELLA LAUREA

La laurea è necessaria per affrontare l’esame di Stato per le professioni superiori e per accedere a numerosi concorsi nel settore pubblico. Non è necessaria nell’impresa e nella gran parte dei lavori autonomi, dove vale solo come presunta attestazione di capacità che deve però trovare conferma nei fatti; e dove comunque la presunzione di capacità è già ora legata alla fama dell’ateneo che ha rilasciato il titolo. Il problema di abolire il valore legale della laurea (come si dice impropriamente, per significare che non sarebbe più requisito necessario) si pone quindi in un ambito occupazionale ristretto e tuttavia importante.

UNA LAUREA PER LA CARRIERA

Nelle professioni domina l’asimmetria informativa: il cliente tipico non sa nulla, e sarebbe socialmente costoso fargli fare prove ripetute sulla sua pelle per individuare il professionista competente. La laurea lo rassicura sulla preparazione di base del professionista , salvo poi cercare il più bravo. Ma non basta per questo l’esame di Stato? Attualmente, no. È configurato come complemento alla laurea e si concentra sulle applicazioni professionali. Se dovesse accertare anche la formazione di base, dovrebbe diventare molto più lungo, articolato, costoso. Non so se qualcuno abbia approfondito, a livello di congettura, il confronto tra il doppio filtro attuale e un ipotetico unico filtro rappresentato da un più corposo esame di Stato. Sono istintivamente per il doppio filtro, come forma di cautela. Perché, come esistono università e quindi lauree di diversa qualità, esistono anche esami di Stato di diversa qualità. Lo sa bene l’ex ministro Mariastella Gelmini, diventata avvocato in Calabria e non in Lombardia.
Attenzione anche per il settore pubblico, nei cui confronti è quasi unanime il coro abolizionista. Francesco Giavazzi l’ha detta brutalmente: basta con le schiere di impiegati pubblici che cercano la laurea facile, talora con lo sconto in forza di convenzioni, solo per fare un passo avanti nella carriera. Non è un quadro esaltante, d’accordo. Ma siamo sicuri che ci possiamo concedere il lusso di togliere qualsiasi riferimento esterno – una laurea facile implica pur sempre uno sforzo e un merito, oggettivamente accertati – per fare largo a promozioni per solo merito interno? Nell’impresa privata, è la disciplina del profitto che assicura, in termini ragionevoli, il premio al merito: il capoufficio che promuove sa che anche lui è soggetto a giudizio e sa che il suo lavoro e il suo compenso dipendono dagli utili dell’azienda. Ma l’esaminatore pubblico è spesso non premiabile e non punibile. Logico che sia tentato allora di usare la sua discrezionalità per premiare il candidato più amico o più raccomandato o più generoso, anziché il più bravo. Ricordiamoci sempre il problema del controllo sui controllori, perché l’Italia è messa male nella graduatoria internazionale dell’efficienza della pubblica amministrazione, ma è messa ancora peggio in quella della corruzione.

IL PESO DEL TITOLO

Ma la finzione di lauree di ugual valore quando sono in realtà ben diverse, non è un insulto alla correttezza e al merito e non è un danno per il paese? Certamente sì; e quindi bisogna cambiare. Ma nell’unico modo ragionevole,ossia: mantenere il valore legale e però pesare il titolo e la votazione di laurea in relazione all’ateneo di provenienza (meglio, in relazione alla qualità, comparata in ambito nazionale, del corso di laurea di provenienza, dato che essa non è uniforme per tutti i corsi del medesimo ateneo).
Il problema è: chi dà il peso? Valutazioni di mercato (Censis-Repubblica, Sole-24Ore, eccetera) già esistono, ma sono spesso divergenti. E le valutazioni pubbliche sulla didattica elaborate nel recente passato dal Cnvsu, Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, sono state accusate da più parti di penalizzare il rigore. Non convince neppure chi sostiene che non è necessaria una valutazione esterna, con i tempi e costi e sospetti che comporta, bastando sfruttare il fatto che l’ateneo facile è più generoso nei voti: basta pertanto correlare il peso del voto di laurea allo scarto che tale voto presenta rispetto alla media dei voti di laurea nel corso di studio di provenienza del candidato. Proposta interessante, in mancanza di meglio; ma anch’essa resa debole in prospettiva dalle reazioni opportunistiche dell’ateneo facile, che tenderà ad adottare la stessa distribuzione dei voti dell’ateneo difficile, abbassando però sistematicamente il livello quanti-qualitativo degli esami e quindi largheggiando in promozioni. (1)
In conclusione, appare inevitabile una nuova valutazione pubblica ufficiale e largamente condivisa. Non può che provenire dalla neonata Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, che va messa in grado di operare presto e bene. D’accordo, quindi, sulla direzione di marcia, ma attenzione a non sbagliare per impazienza; anche perché l’equità impone che il sistema di pesi, oltre a non essere retroattivo, aspetti l’attuazione di un vasto programma di borse di studio potenziate ed erogate a livello nazionale, capace di consentire ai meritevoli di scegliere davvero l’ateneo preferito.

(1) Modello grossolano, giusto per chiarire: un insieme di studenti, disposti in ordine crescente di bravura, che si suddivide tra due atenei; la metà superiore va nell’ateneo difficile; la metà inferiore, che sarebbe bocciata nel primo, va nel secondo ateneo, dove passa con la stessa distribuzione di voti ravvisabile nel primo. Il metodo proposto non sarebbe in grado di premiare e punire.

UNA SOLUZIONE INUTILE PER UN PROBLEMA VERO

Il dibattito sul valore legale della laurea si focalizza su un falso problema: in tutti i paesi vi sono forme di garanzia della qualità dei titoli di studio. Il vero nodo da affrontare è quello della differenziazione istituzionale, seguendo esempi del mondo anglosassone e dell’Europa continentale. Si potrebbe consentire a un gruppo ristretto di università, valutate in modo trasparente di alta qualità, di poter scegliere gli studenti. Una strategia che richiede finanziamenti per garantire ai bisognosi ma meritevoli la possibilità di iscriversi ai corsi di laurea selettivi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

I commenti critici alla mia proposta di abolizione del valore legale si concentrano su tre argomenti principali. Pesare le Università comporterebbe: 1) privilegiare la qualificazione universitaria rispetto alla qualità delle persone; b) creare (costose) università di élite; 3) pregiudicare gli studenti che per ragioni economiche possono permettersi solo università di ‘serie B’, ma ‘vicino a casa’.
Tutte queste critiche pongono problemi importanti a cui è necessario cercare di dare una risposta.

La qualificazione dell’Università viene privilegiata rispetto alla qualità delle persone

Diversi lettori hanno rilevato che tener conto, nei concorsi pubblici, del ranking delle università di provenienza comporta, in sostanza, valutare più le qualifiche dell’Università frequentata che la qualità reale dei candidati. Credo anch’io che questo sia un rischio che occorra scongiurare, ma non mi pare che, col metodo proposto, esso sia reale. Infatti, come affermato nell’articolo, il peso dell’Università di provenienza è solo uno dei parametri da prendere in considerazione e la prova concorsuale/attitudinale deve essere mantenuta e, se possibile, valorizzata. Ad esempio una valutazione concorsuale potrebbe essere articolata in questo modo: 10-20% del punteggio derivante dal ranking dell’università; 10% derivante dal voto di laurea; 10% da altri titoli/esperienze; 60-70% derivante dalla prova di ammissione. In tal modo, l’80-90% dell’esito deriverebbe da una valutazione diretta delle qualità del candidato e solo 10-20 % discenderebbe indirettamente dal ranking dell’Università da questi frequentata.
Per altro verso, sussistono controindicazioni importanti alla tesi che solo la prova concorsuale/attitudinale debba contare. In tal modo, come già rilevato nell’articolo, l’esito può essere condizionato da elementi fortuiti, colposi o addirittura dolosi. Nel caso in cui il concorso pubblico fosse vinto dal medico laureato con 90 all’Università di Vattelapesca piuttosto che da quello laureato con lode all’Università di Harvard, non avreste il dubbio che la prova concorsuale/attitudinale sia stata, diciamo così, ‘calibrata’ sul vincitore? Non sarebbe stato bene, in tale situazione, far pesare anche il ranking dell’Università di provenienza?

Il rischio di creazione di università di élite e lievitazione delle rette universitarie  

In particolare Lorenzo Zamponi, in un articolo su ‘il Corsaro’, afferma che eliminare il valore legale del titolo di studio comporta necessariamente un processo di creazione di università di élite, le quali, per coprire l’inevitabile aumento dei costi, dovranno beneficiare di una liberalizzazione delle rette universitarie.
Sulla creazione di una élite di Università mi pare che valgano due osservazioni. In primo luogo, già esistono in Italia università di serie A e università di serie B e, mentre si vedono bene i difetti della loro artificiosa parificazione, non si comprende qual è l’utilità di far finta del contrario. In secondo luogo, l’alternativa realistica alla creazione di un gruppo ristretto di università di serie A non è il generale incremento del livello qualitativo di tutte le università italiane, bensì il generale affossamento di tutte quante verso la serie B. Questo livellamento verso il basso è anzi in gran parte già avvenuto. Il risultato è, e sarà sempre più, che l’Italia non possiederà alcuna università competitiva a livello internazionale e gli studenti italiani, per ottenere qualificazioni spendibili sui mercati mondiali, dovranno necessariamente iscriversi all’estero.
Quanto all’incremento delle rette, la proposta di pesare le Università non implica affatto un tale incremento, proprio per non pregiudicare gli studenti meno abbienti. Le Università di serie A potrebbero affrontare i maggiori costi sia beneficiando delle risorse derivanti dall’incremento delle iscrizioni, sia ottenendo la percentuale di FFO che la legge già riserva agli atenei migliori, sia infine della partecipazione ai programmi nazionali e internazionali di ricerca.

Pregiudizio economico degli studenti che, per frequentare una università di serie A, devono allontanarsi da casa

Da molti commenti emerge il timore che, per frequentare una Università di serie A, occorrerà l’allontanamento dalla propria città, con il conseguente lievitare dei costi dell’istruzione.
Il rilievo merita attenzione perché comporta una riflessione sul senso della formazione universitaria.
Il timore evidenziato segnala che l’istruzione universitaria è intesa sostanzialmente come un mezzo per conseguire un titolo mediante il quale ottenere un lavoro, a prescindere dalla formazione raggiunta. Non è importante che l’università sia formativa, l’importante è che sia ‘vicino a casa’, poco costosa e rilasci un ‘pezzo di carta’ di valore legale. Si tratta di una visione comprensibile, ma di stampo privatistico e elusiva dell’interesse pubblico. Diversamente, la formazione universitaria dovrebbe perseguire principalmente l’obiettivo di fornire una preparazione adeguata alle diverse professioni, in modo che la collettività intera benefici di questa formazione e la ripaghi della spesa pubblica sostenuta a tale fine. Quando ci si reca in un ospedale, l’interesse comune è che il medico che ci visita abbia ricevuto la migliore istruzione possibile, non che abbia frequentato una università ‘vicino a casa’, spendendo poco (questo è il suo interesse privato).
Certo, il problema del garantire l’accesso alla formazione universitaria agli studenti capaci e meritevoli ma privi dei mezzi economici necessari non va eluso. Tuttavia esso va risolto, non mediante l’attribuzione artificiosa di un valore alla laurea dell’università ‘vicino a casa’, bensì mediante il sostegno economico dello Stato a tali studenti. Proprio come recita la nostra Costituzione.

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