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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 47 di 70

Cala il sipario sul diritto allo studio

Il fondo che finanzia le borse di studio per gli studenti universitari scenderà nel 2011 a 70 milioni di euro dagli attuali 96 milioni, tornando più o meno sui livelli del 1998. In Francia e in Germania la spesa annua per il sostegno agli studenti è di 1 miliardo e 400 milioni. E mentre in altri paesi il pacchetto di aiuti è uniforme su tutto il territorio nazionale, per gli universitari giovani i criteri di ammissione alle borse variano di Regione in Regione e talvolta anche all’interno di una stessa Regione. Perché nessuna voce si leva in difesa del diritto allo studio?

Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienzati

In Italia non ha molto senso parlare di università migliori di altre. Ci sono semmai scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dagli atenei cui appartengono. Distribuiti a macchia di leopardo, cosicché nessuno raggiunge quella massa di eccellenza critica necessaria per competere a livello internazionale. Stesso discorso vale per gli studenti più capaci. Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare solo i professori più bravi.

La risposta ai commenti

Mi sembra che l’’essenza delle articolate argomentazioni del dott . Matteoli siano riconducibili a due punti essenziali:
1) Il privato, avendo obiettivi di profitto, può avere comportamenti opportunistici gravemente lesivi dell’’interesse pubblico.
2) il privato non investirà mai le rilevantissime somme necessarie a risistemare lo stato catastrofico del sevizio idrico italiano.

Una, devastante, obiezione alla prima argomentazione è che un sistema di gare non significa affatto privatizzazione del sistema: se imprese pubbliche offriranno condizioni più favorevoli in termini di costi, tariffe e qualità, vinceranno le gare, come è ovvio, e come è successo moltissime volte ovunque in Europa. Quindi non vi è alcun nesso tra gare e privatizzazione dell’’acqua, come strumentalmente si tende a far credere al fine di difendere ad oltranza uno status quo indifendibile. Non solo: la periodicità obbligatoria delle gare costituisce un incentivo potente all’’efficienza e al rispetto delle condizioni di interesse pubblico espresse nel bando. Comportamenti inadeguati comprometterebbero gravemente la reputazione delle imprese inadempienti, anche nei confronti di gare in contesti diversi da quelli dove avessero inizialmente vinto. E alla reputazione le imprese private tengono molto….
La seconda argomentazione appare ancora meno difendibile: se occorrono moltissimi soldi per investimenti, necessari a “tappare le falle” delle passate gestioni (generalmente pubbliche), questi soldi occorrono comunque, indipendentemente da chi li spenda. Se si decide che li debbano pagare gli utenti, le tariffe dell’’acqua aumenteranno, e di molto. Se si decide che questi costi, per ragioni sociali, dovranno essere pagati dallo stato, cioè dai contribuenti, i gestori dei servizi idrici saranno pesantemente sussidiati, pubblici o privati che siano. Significa che si avranno meno risorse pubbliche per scuole o trasporti pubblici, scelta politica del tutto legittima. Cioè si trasferiranno risorse da servizi sociali politicamente giudicati meno prioritari ai servizi idrici.
Infine, che i privati abbiano obiettivi di profitto, cioè “egoistici”, è assolutamente ovvio, e per questo occorre una seria regolazione pubblica. Che amministrazioni pubbliche corrotte, o dove domina il “voto di scambio” (fattori talmente reali, che sono verificabili attraverso l’’attuale vergognoso dissesto del sistema: meno manutenzione e più assunzioni clientelari, o appalti “agli amici”), esprimano obiettivi meno egoistici dei privati, mi sembra una argomentazione perlomeno ardua.

Ringrazio anche per i molti commenti costruttivi, ricordando che i limiti di spazio della Voce costringono a forti sintesi (tipo “bianco-nero”), il che ha anche dei vantaggi. Le argomentazioni rivolte a Matteoli rispondono alla maggiorparte di voi. Rimarco comunque che in molti commenti domina un tragico equivoco: gare=privatizzazione. Se imprese pubbliche saranno più efficienti, vinceranno le gare, magari al secondo giro. E’ successo in Svezia, in USA e in Germania per i trasporti pubblici, perché non dovrebbe succedere per l’acqua?

Un’onda anomale minaccia l’università

La Camera inizia l’esame del disegno di legge sull’università, norme di reclutamento comprese. Veniamo da un lungo blocco dei concorsi e da norme restrittive sull’adeguamento dell’organico. Ma un blocco di assunzioni e carriere seguito da una riforma radicale spesso comporta la successiva assunzione di una massa di ricercatori qualitativamente eterogenea. E lascia un segno indelebile sulla produttività scientifica media. In Italia è già accaduto dopo le riforme del 1980 e del 1998. Nel Ddl 1905 ci sono tutte le premesse per una futura nuova onda anomala di assunzioni.

A medicina va curata la distribuzione degli studenti

Ogni anno il ministero determina a livello nazionale il numero di immatricolazioni al corso di laurea in Medicina e la ripartizione dei posti tra le singole sedi. Il sistema quindi garantisce la sopravvivenza delle piccole facoltà e insieme le progressioni di carriera dei docenti dei grandi policlinici. Il ministero dovrebbe limitarsi a fissare un numero programmato su base nazionale ed espletare un concorso unico per le ammissioni, garantendo poi maggiore autonomia alle singole sedi per decidere il numero di studenti ammessi.

Scienziati italiani in classifica

Recentemente stilata dalla Via-academy, la classifica dei migliori scienziati del nostro paese permette di dare uno sguardo d’insieme all’impatto scientifico degli italiani nel mondo. Con qualche sorpresa. Intanto, non tutte le discipline esportano lo stesso numero di cervelli. I rettori non sono in genere i primi della classe. E in più, il nuovo sistema mette in discussione consolidate classifiche dei professori più bravi ottenute con altri metodi.

Università: dal test d’ingresso alla prova unica

Perché molte università ricorrono ai test di ingresso? Perché il voto dell’esame di Stato non viene percepito come un valido indicatore. Ma i test non sono uno strumento di selezione efficiente ed efficace. Ignorano totalmente il percorso scolastico dei candidati, non considerano la capacità di organizzare lo studio nelle materie specifiche e devono essere disegnati dalle singole università. Si potrebbe invece introdurre una prova unica nazionale che testi capacità logiche, conoscenze culturali e capacità di apprendimento di ciascun studente.

Se la scuola cade a pezzi

Il Ministro Gelmini è stata molto presente nel dibattito pubblico estivo, intervenendo ad esempio sui contrasti tra il Premier Berlusconi e il Presidente della Camera Fini, sui licenziamenti della Fiat o semplicemente parlando della sua vita privata.
Non ha neanche trascurato i suoi doveri di Ministro dell’Istruzione, rassicurando le scuole paritarie che i fondi a loro destinati non sarebbero stati toccati. Ma nulla ha detto e, soprattutto, fatto per l’edilizia scolastica.

Un commento sui criteri per la carriera universitaria*

Il lavoro di Marcuzzo e Zacchia, e il dibattito conseguente, aiutano a verificare la “tenuta” dei criteri adottati e a individuare possibili linee di affinamento.

UN CONTRIBUTO AL “CONTORNO”

La definizione dei criteri per ciascuna delle 14 aree CUN è del dicembre 2008, in risposta ad una richiesta della Ministro.
La linea seguita dal Comitato Area 13 è stata quella di una soluzione di “equilibrio dinamico” fra:

– la specificità dei contenuti e metodi dell’’Area, la quale è la più differenziata fra le 14 Aree CUN, si pensi alla distanza fra econometria, statistica e matematica e l’’economia, l’’economia aziendale, la storia economica, la storia del pensiero economico, l’’organizzazione, la merceologia;
– l’’articolazione delle proposte provenienti dalle altre Aree CUN per il necessario coordinamento “di sistema”;
– e il clima di “urgenza istituzionale” all’’epoca incalzante perché si percepiva alto il rischio che altri soggetti-enti avrebbero potuto essere invitati a provvedere; ad es., a gennaio 2009, il Parlamento ha redatto e approvato “in diretta” l’’art. 4 della Legge n.1 in cui si dice che chi non ha pubblicazioni scientifiche non accede agli incrementi salariali, poi peraltro rimossi dalla manovra Tremonti, e non accede a Commissario di prove concorsuali.

Il Comitato ha quindi:

– lavorato in modo coordinato assieme a 14 Accademie e Società scientifiche dell’’Area 13 con molteplici incontri su documenti scritti;
– inserito i criteri entro logiche differenziate di reclutamento dei ricercatori e di promozione ad associato e ordinario puntando, in una logica di supporto, ad “alzare l’’asticella” complessiva lasciando spazio alle autonomie disciplinari o di sede;
– per questa via ha proposto un framework  ragionato cercando di evitare nei criteri estremismi di automatismo e/o di approssimazione e mettendo a disposizione uno strumento per le policy locali.

DUE DETTAGLI DA SOTTOLINEARE

In primo luogo, il dibattito sui criteri per i ricercatori ci ha visti spesso isolati entro il CUN. In molte altre aree CUN per i ricercatori si prevede un numero elevato di pubblicazioni, con implicita correlazione “molte pubblicazioni = alta anzianità”. Noi abbiano sostenuto logiche di policy di reclutamento concorrenziali sul piano internazionale lasciando spazio al giudizio sul potenziale dei candidati, da reclutare da giovani (da ciò il requisito su una sola pubblicazione), e sollecitando un risveglio istituzionale sull’’efficace utilizzo dell’’istituto della “conferma in ruolo”.
Questa linea è stata condivisa con le Accademie e Società scientifiche dell’’Area e con la Conferenza dei Presidi di Economia e di Scienze Statistiche, anche se poi i risultati dei giudizi di conferma in ruolo 2008-09 per i ricercatori nei 19 SSD dell’’Area hanno mostrato risultati assai differenziati per SSD e, in particolare, in solo due SSD (SECS-P/01 e SECS-P/07) si è riscontrato un tasso di rinvio ad una seconda scadenza di circa il 10%.
Il secondo punto da sottolineare riguarda il ruolo delle Accademie e Società scientifiche come “interlocutori esperti” fra il quadro di riferimento disponibile e le soluzioni analitiche da adottare nel tempo (anche a seconda degli stadi evolutivi delle discipline). Questa soluzione organizzativa ha rappresentato anche la chiave operativa adottata dal CUN per la precisazione dei criteri identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni nella costituenda “anagrafe nazionale dei docenti”, premessa tecnica necessaria per implementare l’’art. 4 della L. n.1/2009 (si vedano i pareri nel sito CUN). In futuro, in sostanza, le Accademie e Società scientifiche saranno chiamate a farsi carico di contribuire ai processi di valutazione con liste di riviste scientifiche nazionali e internazionali (in proposito un esempio interessante per lo stadio avanzato della discussione al suo interno è quello dell’’AIDEA) e con liste di editori accreditabili.

UN PERCORSO A OSTACOLI

E’’ un percorso particolarmente faticoso quello in cui versa la valutazione della ricerca in Italia, sempre sospeso tra “fiammate comunicative” di principio e di richiamo e prassi di implementazione lente, spesso contraddittorie e non sempre trasparenti, specie quando il processo decisionale si avvicina ai livelli della Politica. Qualche esempio: i criteri 2008 sono ancora una base di “moral suasion” e non un Decreto attuativo, pur citato nella L. n.1/2009; il Bando VQR 2004-08 del CIVR (che poteva consolidare il “discorso evolutivo” dei criteri) è fermo da mesi (forse in attesa del Consiglio Direttivo dell’’ANVUR che però avrà bisogno di molti, troppi, mesi per essere operativo); il PRIN langue: i fondi 2008 sono arrivati solo recentemente e i Garanti 2009 ad oggi devono ancora essere scelti nell’’ambito delle terne fornite da CUN, CRUI e CEPR ad aprile; il Decreto di distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario 2010, col “Fondo premiale” che recupera i criteri sulla ricerca, a fine agosto 2010 non è ancora disponibile e così via.
Il CUN, organo istituzionale, cerca, anche col contributo dell’’Area 13, di tenere una linea di “responsabilità consapevole”, ma spesso mancano interlocutori davvero interessati a farsi carico con sistematicità e continuità dei problemi del Sistema Universitario.

Francesco Favotto, Alessandra Petrucci, Ezio Ritrovato

* Gli autori sono membri del Comitato Area 13 del CUN

La risposta ai commenti

Ringraziamo i lettori per gli utili commenti, che ci consentono di precisare alcuni aspetti del nostro pensiero che per motivi di spazio erano rimasti fra i tasti.
Anche se abbiamo affrontato una questione specifica, relativa a una categoria di lavoratori, e anche se il nostro punto di vista dà particolare attenzione alle professioni intellettuali e liberali, c’è alla base un problema generale di grande importanza, civile ed economico: l’età del pensionamento. Pochi ormai hanno dubbi che tale età debba essere aumentata e resa più flessibile. Il rischio di “gerontocrazia” c’è solo se prendiamo l’accezione generico-populistica del termine. Se intendiamo il fatto (empirico e non ideologico) che la percentuale di “anziani” in servizio è molto alta, in sé questo non è né un bene né un male. L’esempio (solo un esempio, non un confronto sistematico) che abbiamo fatto menzionando Harvard intendeva sottolineare che una università di assoluta eccellenza non sembra aver timore di avere docenti anziani: una volta tanto potrebbe essere bello seguire un esempio di questo genere (non pensiamo valga la pena imitare università di basso livello, abbiano o non abbiano molti anziani nei loro ranghi). Se però si desidera riequilibrare l’età media dei professori, il rimedio efficiente ed equo è assumerne di nuovi, giovani e bravi, procedura che sia nei fatti che nella logica è del tutto indipendente da quella di eliminare i vecchi. Sembra invece che alcuni non abbiano il timore, che a noi sembra molto fondato, che si possa decidere di mandare in pensione gli ultrasessacinquenni e non assumere nessuno al loro posto. Il timore è forte, perché, come notano anche Brugiavini e Weber nella loro risposta ai commenti ricevuti, il costo dei professori pensionati continuerà ad essere sostenuto dai contribuenti: le pensioni sono pagate dall’Inpdap, gli stipendi dall’Università, ma si tratta sempre del bilancio dello Stato e le due somme, in virtù della natura retributiva del sistema pensionistico, sono più o meno dello stesso importo (come si sa, non esiste un pasto gratis). Né potrà essere d’aiuto la parte della proposta PD, cui si accenna nei commenti, dove si menziona la possibilità che ai pensionati forzati vengano conferiti (perché poi dal CdA?) contratti per la didattica; in questo modo, oltretutto, i soggetti in questione verrebbero pagati due volte, dall’Inpdap e dall’Università (come, assurdamente, avviene già in parte anche oggi), e ci sarebbero meno spazio e meno risorse per i giovani!
Infine, sembra anche poco noto all’opinione pubblica che il ricambio generazionale è comunque imminente nei fatti. Il CUN stima una fuoriuscita di circa 1500 docenti l’anno, con conseguente pensionamento, entro il 2018, del 50% degli ordinari e del 25% degli associati attuali. Il pensionamento a sessantacinque anni indurrebbe invece un deflusso di circa 3000 persone l’anno, aprendo una voragine non solo a livello scientifico-culturale ma anche sul piano didattico-organizzativo. Noi ci spereremmo tanto, ma qualcuno crede veramente che sia possibile assumere 3000 nuovi docenti l’anno per i prossimi anni? Se ce la facessimo ad averne almeno 1500, scelti con criteri seri, noi saremmo contenti.

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