Lavoce.info

Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 48 di 70

Quanti professori senza requisiti minimi

Giusto fissare criteri fondati sulla qualità e quantità delle pubblicazioni per la progressione nella carriera universitaria. Come ha fatto il Cun con l’indicazione dei requisiti minimi per ciascuna fascia di docenza: ricercatore, associato e ordinario. Ma una simulazione sui docenti oggi in ruolo mostra che solo una piccola percentuale soddisfa tutti e tre i requisiti richiesti. Anche perché restano troppo vaghe alcune definizioni e le misure di qualità accettate. Il rischio è quello di lasciare ancora troppo spazio alla discrezionalità.

I test standardizzati presi tra due fuochi

Il ministro dell’Istruzione annuncia il ricorso a test standardizzati per misurare le competenze e i progressi degli studenti. E’ una decisione largamente condivisibile, nonostante le critiche degli insegnanti. Ma non certo per le ragioni indicate dal ministro. I test sono un modo per capire e tentare di risolvere i problemi del sistema scolastico sulla base di evidenza empirica su cosa funziona e cosa non funziona. Non possono invece svolgere altri compiti, come ad esempio migliorare la didattica. Né tanto meno la loro adozione si trasforma automaticamente in crescita dell’economia.

Se il pensionamento è forzoso

Molto ci sarebbe da dire sull’’annunciata riforma dello stato giuridico dei docenti universitari, ma un aspetto che si segnala negativamente è la proposta, ben accetta da maggioranza e opposizione e sostenuta con grande favore da qualche autorevole editorialista, del pensionamento a 65 anni. A meno di non immaginare tentazioni populiste da parte dei suoi sostenitori, è difficile trovare una ratio. In un momento in cui si è capito che, come conseguenza dell’’allungamento delle vite umane, è necessario prolungare il tempo di lavoro, altrimenti i conti economici saltano, e anche il nostro governo si muove in tale (giusta) direzione, che senso può avere quello di andare controcorrente per una specifica categoria di lavoratori? A parte che la attuale struttura demografica del personale universitario indurrà a breve comunque una forte ondata di pensionamenti, perché l’’operazione di “svecchiamento” dovrebbe servire a far entrare in servizio giovani universitari e non giovani magistrati, giovani medici o giovani qualcos’’altro?

COMPORTAMENTI DA FREE RIDER

E’ noto che, considerando l’’economia nel suo insieme, non esiste conferma dell’’idea che l’’anticipo dei pensionamenti favorisca l’’occupazione (Fenge e Pestieau, Social security and early retirement, MIT Press, 2005). Il carico ulteriore sul sistema pensionistico può far aumentare le aliquote contributive e, dato il meccanismo a ripartizione, alzare il costo del lavoro e quindi indurre maggiore disoccupazione. Brugiavini e Weber, proprio su lavoce.info spiegano che l’’abbassamento della pensione danneggerebbe gli stessi giovani, anziani di domani che si vedrebbero ridurre la pensione perché verserebbero meno contributi. Certo, se un solo settore riduce l’’età della pensione mentre gli altri la aumentano, si comporta da free-rider perché trasferisce sul resto della popolazione i costi generati, e può nell’’immediato realizzare l’’obiettivo di assumere nuovi lavoratori al posto degli espulsi. È altrettanto certo, però, che tale comportamento è socialmente inefficiente, e, come negli esempi che facciamo agli studenti, può scatenare una sequenza imitativa per cui anche gli altri settori puntano alla riduzione dell’’età pensionabile, con conseguenze facilmente immaginabili: si sa che ciò che è razionale per un individuo o un gruppo (ammesso che possa esprimere una qualche volontà collettiva), non sempre lo è per la società nel suo complesso.

UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ

Si è detto che il pensionamento anticipato libererebbe l’’università da persone improduttive. Senza negare che queste persone esistano, non si capisce perché l’’età debba essere un criterio per individuarle. Ad Harvard quasi il 10 per cento dei professori “in servizio attivo” ha più di settant’’anni; e di Harvard non si può certo dire che vi abbondino persone improduttive. La via maestra per limitare le difficoltà che abbiamo nell’’incentivare la produttività è quella di concepire un sistema di retribuzione e avanzamento di carriera che premi l’’impegno nella ricerca e nella didattica (binomio inscindibile). Su questo, le proposte di riforma di governo e opposizione tacciono (o sono quantomeno carenti e confuse).
La teoria economica non fornisce dunque appiglio alcuno per giustificare anticipi del pensionamento. (Si consideri anche che i professori anziani svolgono le loro attività di ricerca e di insegnamento a costo quasi zero per lo Stato, essendo il loro stipendio di poco superiore alla loro pensione.) Ma questa non è solo una questione economica, non è solo una questione di teoria. E’ una questione di civiltà, di organizzazione della vita associata, di rispetto e di valorizzazione delle persone, di promozione della cultura e del sapere. È del tutto insensato e, lasciatecelo dire, richiama un sinistro eugenismo, pensare che eliminare da un’’aula di insegnamento o da un laboratorio scientifico chi continui a dimostrare entusiasmo e capacità possa essere una cosa positiva, e non un impoverimento netto per un paese. Quando la durata media della vita era settant’’anni, i professori di università andavano in pensione a settantacinque; oggi che la durata media è ottantacinque anni, si vogliono mandare in pensione a sessantacinque. Oltre che palesemente assurda e incoerente, la proposta Gelmini-Meloni risulta anche incompatibile con una qualsiasi concezione di società veramente aperta, colta e liberale.

Nota degli autori: AB ha 48 anni (molto distante dall’’essere anziano), FR 61 anni (quasi anziano, ma non ancora).

La risposta ai commenti

Ringraziamo i lettori per i numerosi commenti e gli spunti di riflessione.
I commenti si focalizzano su due aspetti:

1) ci possono essere altre forme di contribuzione che rendono meno drammatiche le prospettive pensionistiche di chi ha cominciato la carriera universitaria dal 1995 in poi;
2) la proposta di mandare in pensione gli attuali ultrasessantacinquenni libera risorse subito che possono essere usate per accelerare le carriere di quanti sono già ricercatori o associati o di creare nuovi posti per chi vuole intraprendere la carriera universitaria.

Sul primo punto, vale la pena osservare che in ogni caso c’è una perdita rilevante di pensione per il minor montante contributivo accumulato  (nel caso considerato: di 10-12mila euro lordi l’anno in pensione, a cui si aggiunge una minor liquidazione che non abbiamo incluso nell’esercizio di simulazione). Contributi (ridotti) vengono già versati per i tre anni di dottorato di ricerca, per eventuali assegni, e per ogni altra attività che viene svolta prima o durante la carriera universitaria. Chi ha molti di questi contributi aggiuntivi perde meno in proporzione, ma perde comunque la stessa cifra.  Dover rinunciare ai contributi versati al massimo della carriera retributiva è particolarmente penalizzante per tutti.
Sul secondo punto, è da osservare che in aggregato le pensioni vengono comunque pagate dai contrbuti correnti (o dalle tasse). Se la proposta venisse accolta, le università risparmierebbero in stipendi ma l’Indap spenderebbe di più in pensioni (e incasserebbe meno in contributi). Non è chiaro se e in che misura si creerebbero risparmi per le casse pubbliche da usare per favorire l’ingresso o la progressione di carriera dei giovani. Se le università potessero assumere giovani fino all’ultimo euro di stipendio risparmiato, ci sarebbe un aumento della spesa pubblica per effetto delle pensioni aggiuntive: il governo sarà disponibile a sostenerlo? Se sì, perché non stanzia i nuovi fondi direttamente alle università (più meritevoli)?
E’ chiaro che bisogna dare presto risorse aggiuntive all’Università pubblica in Italia, purché queste risorse vengano spese per premiare il merito. Abbassare l’età pensionabile ci sembra una scorciatoia per raggranellare qualche soldo, che non affronta il nodo cruciale del sistema di incentivi. Ci sembra importante far notare che a fronte di un incerto vantaggio temporaneo, la proposta comporta però una penalizzazione permanente per tutte le generazioni future.

La proposta Pd cerca un compromesso, facendo salvo il diritto di rimandare la pensione per chi non ha quaranta anni di “anzianità contributiva” (presumibilmente non oltre i 70 anni di età?). In un mondo di pensioni retributive, in cui si raggiunge il massimo della pensione con 40 anni di contributi, questa formulazione garantisce i diritti pensionistici. In un mondo di pensioni contributive, quello che conta è il montante contributivo accumulato e il riferimento ai 40 anni è ambiguo. In particolare, la formulazione della proposta Pd come disponibile in rete non chiarisce se i 40 anni di contributi comprendano o meno eventuali contribuzioni precedenti all’inizio della carriera (per esempio, dottorato o assegni di ricerca), Se sì, allora il giovane ricercatore considerato perderebbe la stessa cifra che abbiamo calcolato noi. Paradossalmente chi avesse riscattato la laurea (a caro prezzo come osserva un commentatore) si troverebbe a perdere gli ultimi anni di contributi: i più importanti. E se no, si avrebbe il paradosso di penalizzare chi ha cominciato la carriera prima dei trenta anni di età rispetto alla normativa attuale (perché sarebbe costretto a interrompere la contribuzione al raggiungimento dei 40 anni). Questo non sembra un modo per premiare il merito.
Apparentemente la clausola di garanzia dei 40 anni proposta dal PD, che non necessariamente sarà accettata dal governo, va nella giusta direzione, ma a regime introduce sperequazioni.

Pensioni dei docenti, piove sul bagnato

La proposta di abbassare l’età pensionabile per i docenti universitari dovrebbe favorire i ricercatori più giovani, ma rischia di sortire l’effetto opposto. Non solo è in controtendenza con tutte le riforme relative al mercato del lavoro, ma soprattutto i giovani ricercatori di oggi verrebbero penalizzati: contribuirebbero per cinque anni in meno ricevendo una pensione nettamente più bassa. Se il fine della proposta è ridurre la gerontocrazia negli atenei si devono percorrere altre strade.

Perché nella ricerca non facciamo gli inglesi?

Dato l’ammontare di risorse destinate al sistema universitario, la produttività italiana in termini di ricerca è in linea con quella degli altri paesi europei. L’eccezione è la Gran Bretagna: un sistema decentrato e meritocratico che riesce a ottenere buoni risultati con risorse limitate. Altri paesi se ne sono resi conto e stanno seguendo l’esempio inglese, l’Italia no. La riforma Gelmini fa qualche timido passo in avanti sulla ripartizione dei fondi, ma taglia le risorse esistenti e aggiunge prescrizioni centralistiche nella gestione delle risorse umane.

La giustizia distributiva non va all’università

La manovra prevede che nel triennio 2011-13 non vi saranno rinnovi contrattuali per tutti i dipendenti pubblici e, per il personale docente (istruzione e università), anche il blocco degli automatismi stipendiali legati all’anzianità di servizio. Quando si fanno tagli lineari su strutture retributive che progrediscono con l’anzianità si determinano effetti regressivi che ricadono sulle classi di stipendio più basse, determinando forti iniquità. Se invece si recuperasse il valore della capacità contributiva si potrebbero ripartire le perdite secondo proporzionalità. Meglio ancora, secondo progressività.

La ricerca nella nebbia

Le vicende del bando Futuro in ricerca per i giovani ricercatori rappresentano l’ennesimo esempio di un sistema che si affida a meccanismi lenti e opachi e dai finanziamenti incerti. Lo scopo di sostenere le eccellenze scientifiche era certamente nobile. Tanto che i progetti presentati sono stati molti. Ma la storia del suo svolgimento sembra suggerire che senza una gestione chiara e trasparente del processo di valutazione e di assegnazione delle risorse, il richiamo ai principi di meritocrazia è solo uno slogan.

Tagli al sistema scolastico

Per quanto riguarda la scuola, la manovra prevede tre interventi:

1) il blocco degli automatismi stipendiali, attraverso una sospensione della maturazione della anzianità necessaria alla posizione economica superiore (maturabile in sei anni). Viene stimato che questo intervento possa produrre un risparmio di circa 320 milioni di euro annui, a decrescere nell’’arco dei prossimi decenni.

Istruzione, previdenza e abc della finanza

Il confronto internazionale suggerisce che l’alfabetizzazione finanziaria di un paese dipende dall’investimento in istruzione e dalla struttura dei mercati finanziari. L’Italia si trova in fondo alla graduatoria internazionale in materia perché investe poco in istruzione, perché il sistema previdenziale pubblico è molto esteso e perché non ha approfittato delle riforme delle pensioni degli anni Novanta per ampliare le conoscenze economiche e finanziarie dei lavoratori.

Pagina 48 di 70

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén