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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 49 di 70

La risposta ai commenti

Non mi sognavo lontanamente di aprire un dibattito sulle nostre radici culturali e sull’opportuntità che in Italia bisogna parlare italiano. Da oltre 10 anni il ministero prevede che i valutatori anonimi dei progetti non siano solo italiani, ma anche stranieri. E’ una decisione che comporta che i progetti siano presentati in una lingua straniera, altrimenti la scelta dei valutatori stranieri sarebbe ristretta ai pochi che conoscono l’italiano. Con beneficio dei valutatori dei paesi anglofoni, la lingua selezionata dal ministero è stata l’inglese. Questa decisione è corretta e la condivido. Il ministero però richiede anche la traduzione italiana del progetto. Perchè non lascia liberi i ricercatori di presentare il progetto solo in inglese o, se preferiscono, sia in inglese sia in italiano?

Per quanto riguarda l’osservazione di Andrea Ichino, il decreto del 19 marzo 2010 assegna al fondo PRIN 106 milioni di euro. Nei cinque anni precedenti  (2004-2008) la media dei fondi assegnati era stata di 108 milioni di euro. A questi venivano aggiunti circa 40 milioni di euro da parte delle università come cofinanziamento, che ora vengono invece contabilizzati tra gli stipendi (spese che l’università sostiene comunue).
La nuova regola contabile riduce quindi l’investimento complessivo in ricerca. Va anche ricordato che il fondo si chiama PRIN 2009 (e non 2010) perché il ministero è in forte ritardo sui tempi: il PRIN 2005 fu pubblicato il 23 febbraio del 2005, il PRIN 2009 il 19 marzo 2010. Poichè in 6 anni sono stati pubblicati solo 5 bandi, si è risparmiata un’intera annualità, un taglio del fondo di circa il 16% per cento

QUANTO CONTA L’ISTRUZIONE *

Il capitale umano ha un ruolo cruciale nel progresso economico. Servono perciò misure accurate e confrontabili a livello internazionale. Ecco dunque una nuova serie di dati, che rafforza i precedenti utilizzando più informazioni e una metodologia migliore. Ci dice che nel 2010 la popolazione mondiale sopra i 15 anni aveva un’istruzione media di 7,8 anni. Se gli anni di scuola aumentano ovunque, non muta però il divario tra paesi ricchi e poveri, che resta di quattro anni. E il tasso di ritorno di un anno in più di scuola varia tra il 5 e il 12 per cento.

NIENTE INGLESE, SIAMO BUROCRATI

In questi giorni migliaia di docenti universitari stanno completando la domanda dei cosiddetti progetti PRIN (progetti di interesse nazionale). Si tratta di un fondo piuttosto esiguo destinato a finanziarie la ricerca di base delle università (spese per contratti con giovani ricercatori, missioni, spese per attrezzature, ecc). In passato il ministero finanziava il 70 per cento del costo dei progetti e le università il residuo 30 per cento. Così un gruppo di ricerca finanziato, ad esempio, con 20.000 euro ne riceveva 14.000 dal ministero e 6.000 dalla propria università. Una nuova regola prevede ora che le università possono finanziare il progetto impegnando lo stipendio dei dipendenti. Sono costi che l’università sostiene comunque, anche se il progetto non è finanziato. Si tratta in sostanza di un taglio del 30 per cento ai già esigui e irregolari finanziamenti per la ricerca di base: invece che 20.000 euro il gruppo di ricerca ne riceverà 14.000.
In questi giorni migliaia di docenti universitari stanno anche traducendo (dall’inglese o dall’italiano), pagina per pagina, i progetti che intendono presentare. Perché questo supplizio? Interpellato, il ministero ha dichiarato che il progetto va presentato in due lingue perché chi valuta il progetto potrebbe non conoscere l’inglese. La burocrazia del ministero (i famigerati modelli A e B noti ai docenti costretti a riempirli) non
consente dunque di presentare un progetto esclusivamente in lingua inglese, con risparmio di tempo da parte dei docenti. Sarebbe una regola di buon senso, ma come si sa il buon senso spesso manca.

DUE ANNI DI GOVERNO: SCUOLA E UNIVERSITÀ

L’azione governativa si è mossa seguendo l’unica direttrice, dettata dal ministro dell’Economia nel dicembre 2008, del ripianamento del debito pubblico. Questa linea si è articolata diversamente nei settori della scuola e dell’università.
La scuola. Qui, data l’elevata incidenza del costo del personale sul totale della spesa, l’unica strada per produrre un risparmio di spesa era quella del ridisegno dei percorsi scolastici, e a questo ci si è attenuti: la reintroduzione del maestro prevalente nella scuola primaria, la riduzione dell’orario d’insegnamento nella scuola secondaria (sia di primo che di secondo grado), la riduzione degli indirizzi nella scuola secondaria di secondo grado. L’azione del ministro è però stata selettiva nelle riduzioni di spesa, non avendo ridotto il finanziamento alle scuole private “paritarie” e non avendo affrontato il nodo degli insegnanti di sostegno, uno dei canali maggiormente sfruttati dalle direzioni scolastiche regionali per gonfiare gli organici. Ma ha prodotto nel contempo un aggravio finanziario per le famiglie, attraverso le aumentate richieste di compartecipazione alla spesa (che ha già dato luogo a contenziosi amministrativi). Tuttavia questa strategia non sembra perseguire obiettivi specifici coerenti con la soluzione di uno dei problemi principali del sistema scolastico italiano, ovvero quello del divario dell’apprendimento tra Nord e Sud del paese: non risulta in letteratura che riducendo le ore erogate di lezione o il numero degli insegnanti, l’apprendimento tenda a migliorare. A meno che non si voglia (maliziosamente) interpretare la norma del Collegato-lavoro alla Finanziaria 2010 sulla ammissione dei quindicenni all’apprendistato per l’assolvimento dell’obbligo scolastico come risposta alla minor performance: basta che chi è inadatto alla scuola vada a lavorare.
Il ministro aveva anche promesso che un terzo dei risparmi di spesa sarebbe stato reimpiegato per promuovere la professionalità e il merito tra gli insegnanti, ma nulla di questo è stato realizzato.
Infine il tema della valutazione, precondizione per una reale politica meritocratica, è rimasto sulla carta, essendo mancato un finanziamento adeguato del piano di valutazione nazionale proposto dall’Invalsi.
università. Nel rispetto dell’autonomia degli atenei, la linea di governo si è attuata semplicemente come riduzione del fondo di finanziamento ordinario, in via di progressiva ulteriore riduzione nel triennio 2010-12. È pur vero che una parte del finanziamento 2009 (il 7 per cento) è stato distribuito con criteri collegati alla efficacia della didattica, ma questo è avvenuto senza incidere in misura apprezzabile sull’entità del finanziamento complessivo percepito dagli atenei. È attualmente in discussione un progetto ambizioso di ridisegno della governance universitaria, delle carriere dei docenti e della organizzazione interna degli atenei, tuttavia molto centrato su deleghe al governo: fatto questo che da un lato rende difficile la previsione dell’esito finale, dall’altro sicuramente allunga i tempi di attuazione. Di nuovo, il tema della valutazione è un tasto dolente: il ministro aveva la possibilità di avviare immediatamente l’Anvur, in quanto già previsto da una legge dello Stato. A due anni e mezzo ancora non è stato fatto quasi nulla, se non emanare il decreto di avvio del prossimo Civr. Nel frattempo, le università hanno fatto ricorso alle poche risorse rimaste, ma i fondi interni per la ricerca sono pressoché azzerati ovunque, senza che la riduzione della didattica erogata, auspicata dal ministro, abbia prodotto alcun margine di manovra.
Complessivamente, nel corso dei due anni trascorsi il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è riuscito a diffondere a tutti i livelli un clima di disorientamento istituzionale, di smarrimento nel corpo docente e di precarietà finanziaria che induce alla smobilitazione e al "si salvi chi può" individuale, distruggendo uno dei presupposti identitari principali (la professionalità del corpo docente) che permettono il buon funzionamento di ogni istituzione educativa, a qualunque livello. Forse era questo l’intento principe del ministro.

LA CORTE COSTITUZIONALE, UN MODELLO PER L’UNIVERSITÀ

Come ridefinire l’assetto di governance degli atenei, evitando l’autoreferenzialità, ma garantendone l’autonomia? Un modello possibile è quello della Corte costituzionale. La nomina dei membri del consiglio di amministrazione sarebbe così affidata a soggetti diversi, ciascuno dei quali non sceglierebbe più di un terzo dei componenti. Ricordando che la gestione quotidiana dell’ateneo è affidata al rettore, mentre il ruolo del Cda è quello di fornire una guida strategica e una supervisione indipendente dell’operato degli altri organi di governo interni.

GELMINI DESTRUENS

Finora abbiamo visto solo la parte destruens. Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha sapientemente riorganizzato la scuola primaria e secondaria in modo tale da permettere le riduzioni d’organico che le erano state richieste dal Ministero dell’Economia. I mancati rimpiazzi di insegnanti andati in pensione hanno aumentato l’età media del corpo docente, per altro già elevata per via dell’anomalo andamento delle immissioni in ruolo in periodi passati. Come accaduto lo scorso anno per la scuola primaria, la cosiddetta riforma della scuola secondaria recentemente varata dal governo, riducendo le sperimentazioni, riduce nel contempo il tempo trascorso a scuola da parte dei ragazzi. Analogamente, l’apertura della possibilità dell’apprendistato come assolvimento dell’obbligo scolastico varata dalla Commissione Lavoro della Camera permette di ridurre le risorse destinate al recupero della dispersione scolastica. Tutto ciò che razionalizza e usa in modo più efficiente le risorse date non può che essere benvenuto. Ma non basta. Manca la parte construens. Nel settembre 2008 il Ministro dell’Istruzione aveva promesso che un terzo dei risparmi di bilancio sarebbero stati restituiti al settore sotto forma di meccanismi premianti per i docenti più meritevoli. Era stato promesso un piano per l’edilizia scolastica che recuperasse le situazioni di maggior degrado. Di tutto questo fino ad oggi non c’è traccia nell’operato governativo. Per ottenere comportamenti virtuosi non basta ripetere il mantra del merito. Occorre disegnare meccanismi che orientino i comportamenti verso obiettivi socialmente desiderabili. Pensando all’attuale divario di apprendimento che caratterizza le scuole meridionali a tutti i livelli, nulla è stato messo in campo per spingere insegnanti e giovani meridionali a recuperare rispetto ai loro coetanei del nord Europa. Pensando agli elevati tassi di mancato conseguimento dei titoli secondari nelle regioni nord-orientali, ci domandiamo quali interventi siano stati intrapresi per rovesciare questo andamento. Pensando agli elevati tassi di turn-over dei docenti sulle cattedre, non notiamo alcuna inversione di tendenza. Pensando al reclutamento dei nuovi insegnanti, siamo ancora in attesa di un segnale ai nuovi aspiranti. Last but not least, la valutazione degli apprendimenti in modo universale è ancora di là da venire. Nonostante i miracoli fatti dall’Invalsi, solo il 6.8% degli studenti è stato valutato nell’ultimo test sulla scuola primaria. Ci domandiamo come si pensi di costruire un nuovo modo di fare scuola, quando si rinuncia a misurare, non si premiano i comportamenti virtuosi e si distribuiscono soltanto tagli a pioggia.

PERCHÉ LA CRISI RIMANE FUORI DALLE AULE DI ECONOMIA

Non si parla della crisi nelle facoltà di economia italiane. Rimane una sostanziale impermeabilità dei contenuti dei corsi di microeconomia e macroeconomia. Perché? Contano certo le resistenze di studenti e docenti e il perpetuarsi degli steccati corporativi all’interno della disciplina. Ma la verità è che una buona didattica non è in alcun modo incentivata dal nostro sistema universitario e non lo sarà nemmeno dopo la riforma Gelmini.

ISTRUZIONI PER L’USO DELLA BIBLIOMETRIA

Valutare la ricerca è indispensabile. E per farlo la comunità accademica giudica la qualità delle pubblicazioni scientifiche attraverso due metodi: la recensione dei pari e gli indicatori bibliometrici basati sulle citazioni. I secondi hanno il vantaggio di essere più democratici ed economici dei primi, ma anche due gravi limiti. Non esistono infatti dati di buon livello per tutte le discipline e manca un metodo bibliometrico standard. Meglio allora affidarsi a una saggia cooperazione tra revisione dei pari e bibliometria.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori per i loro commenti. La vicenda di cui dò conto nell’articolo si inserisce purtroppo in una storia pluriennale (Cigolini) in cui ai proclami circa l’importanza della scuola, non solo per ragioni di sviluppo civile e di ben-essere, si è associato nei fatti un progressivo disinteresse dei governi e del parlamento ma anche della stessa società civile, tra cui gli stessi genitori. Ciò nonostante quello che l’istruzione può significare per il futuro dei figli e per la crescita dell’economia (per una valutazione al riguardo rinvio a un recente lavoro di Banca d’Italia). La partecipazione molto limitata dei genitori alla vita scolastica (come rileva sconsolato Grasso) indebolisce il formarsi di un movimento d’opinione in grado di contrastare provvedimenti rivolti solo a far cassa. Ciò sia riducendo i finanziamenti statali alle scuole pubbliche, con prevedibili conseguenze sulla qualità dei servizi di base (insegnamento, attrezzature, pulizia e manutenzione dei locali) che lo Stato si mostra in grado di fornire a cittadini in erba, sia attingendo in modo surrettizio alle tasche delle famiglie (anche nelle modalità non “volontarie” indicate da A. Marotta).
Relativamente alla posizione dissonante di Stucchi, concordo con Celenza che sarebbe opportuno dedicare tempo e attenzione per esprimere valutazioni informate sulla situazione attuale della scuola. Quanto alla domanda di Paola credo che sia difficile dare una risposta. Una nota ministeriale che doveva essere il principale elemento informativo per definire i bilancio del 2010, giunta oltre il tempo massimo, contravvenendo nella tempistica e nei contenuti alle normativa in vigore e alle buone pratiche nei rapporti contrattuali con imprese private, la dice lunga circa la considerazione in cui sono tenuti la buona amministrazione e un rapporto trasparente con le famiglie. Il rifiuto da parte di singoli genitori a contribuire “volontariamente” può creare in queste condizioni una conflittualità tra famiglie e con gli interlocutori diretti – insegnanti e dirigenti scolastici – che potrebbe finire per peggiorare nell’immediato le già precarie condizioni ambientali in cui i nostri figli studiano. E’ mia opinione che solo una partecipazione più diffusa e istruita (anche la lettura dei bilanci delle scuole è una forma di educazione finanziaria; Grasso) delle famiglie possa incidere sulla politica per la scuola, con ciò cercando di assolvere ai doveri che i genitori hanno di aiutare fattivamente a creare un futuro migliore per i loro figli.

SE LA SCUOLA VA AVANTI CON I SOLDI DEI GENITORI

Il contributo volontario versato dai genitori è da anni prassi comune nelle scuole. Serve a finanziare l’ampliamento dell’offerta formativa che ciascun istituto decide autonomamente. Ma è anche una voce di bilancio certa e prevedibile nei tempi di incasso. Tanto che il ministero consente ora di ricorrervi per colmare la carenza dei finanziamenti statali per le spese ordinarie necessarie all’erogazione del servizio scolastico base. Equivale all’imposizione di una nuova tassa, regressiva perché di ammontare fisso indipendentemente dal reddito.

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