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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 50 di 72

La risposta ai commenti

Ringraziamo i lettori per i numerosi commenti e gli spunti di riflessione.
I commenti si focalizzano su due aspetti:

1) ci possono essere altre forme di contribuzione che rendono meno drammatiche le prospettive pensionistiche di chi ha cominciato la carriera universitaria dal 1995 in poi;
2) la proposta di mandare in pensione gli attuali ultrasessantacinquenni libera risorse subito che possono essere usate per accelerare le carriere di quanti sono già ricercatori o associati o di creare nuovi posti per chi vuole intraprendere la carriera universitaria.

Sul primo punto, vale la pena osservare che in ogni caso c’è una perdita rilevante di pensione per il minor montante contributivo accumulato  (nel caso considerato: di 10-12mila euro lordi l’anno in pensione, a cui si aggiunge una minor liquidazione che non abbiamo incluso nell’esercizio di simulazione). Contributi (ridotti) vengono già versati per i tre anni di dottorato di ricerca, per eventuali assegni, e per ogni altra attività che viene svolta prima o durante la carriera universitaria. Chi ha molti di questi contributi aggiuntivi perde meno in proporzione, ma perde comunque la stessa cifra.  Dover rinunciare ai contributi versati al massimo della carriera retributiva è particolarmente penalizzante per tutti.
Sul secondo punto, è da osservare che in aggregato le pensioni vengono comunque pagate dai contrbuti correnti (o dalle tasse). Se la proposta venisse accolta, le università risparmierebbero in stipendi ma l’Indap spenderebbe di più in pensioni (e incasserebbe meno in contributi). Non è chiaro se e in che misura si creerebbero risparmi per le casse pubbliche da usare per favorire l’ingresso o la progressione di carriera dei giovani. Se le università potessero assumere giovani fino all’ultimo euro di stipendio risparmiato, ci sarebbe un aumento della spesa pubblica per effetto delle pensioni aggiuntive: il governo sarà disponibile a sostenerlo? Se sì, perché non stanzia i nuovi fondi direttamente alle università (più meritevoli)?
E’ chiaro che bisogna dare presto risorse aggiuntive all’Università pubblica in Italia, purché queste risorse vengano spese per premiare il merito. Abbassare l’età pensionabile ci sembra una scorciatoia per raggranellare qualche soldo, che non affronta il nodo cruciale del sistema di incentivi. Ci sembra importante far notare che a fronte di un incerto vantaggio temporaneo, la proposta comporta però una penalizzazione permanente per tutte le generazioni future.

La proposta Pd cerca un compromesso, facendo salvo il diritto di rimandare la pensione per chi non ha quaranta anni di “anzianità contributiva” (presumibilmente non oltre i 70 anni di età?). In un mondo di pensioni retributive, in cui si raggiunge il massimo della pensione con 40 anni di contributi, questa formulazione garantisce i diritti pensionistici. In un mondo di pensioni contributive, quello che conta è il montante contributivo accumulato e il riferimento ai 40 anni è ambiguo. In particolare, la formulazione della proposta Pd come disponibile in rete non chiarisce se i 40 anni di contributi comprendano o meno eventuali contribuzioni precedenti all’inizio della carriera (per esempio, dottorato o assegni di ricerca), Se sì, allora il giovane ricercatore considerato perderebbe la stessa cifra che abbiamo calcolato noi. Paradossalmente chi avesse riscattato la laurea (a caro prezzo come osserva un commentatore) si troverebbe a perdere gli ultimi anni di contributi: i più importanti. E se no, si avrebbe il paradosso di penalizzare chi ha cominciato la carriera prima dei trenta anni di età rispetto alla normativa attuale (perché sarebbe costretto a interrompere la contribuzione al raggiungimento dei 40 anni). Questo non sembra un modo per premiare il merito.
Apparentemente la clausola di garanzia dei 40 anni proposta dal PD, che non necessariamente sarà accettata dal governo, va nella giusta direzione, ma a regime introduce sperequazioni.

Pensioni dei docenti, piove sul bagnato

La proposta di abbassare l’età pensionabile per i docenti universitari dovrebbe favorire i ricercatori più giovani, ma rischia di sortire l’effetto opposto. Non solo è in controtendenza con tutte le riforme relative al mercato del lavoro, ma soprattutto i giovani ricercatori di oggi verrebbero penalizzati: contribuirebbero per cinque anni in meno ricevendo una pensione nettamente più bassa. Se il fine della proposta è ridurre la gerontocrazia negli atenei si devono percorrere altre strade.

Perché nella ricerca non facciamo gli inglesi?

Dato l’ammontare di risorse destinate al sistema universitario, la produttività italiana in termini di ricerca è in linea con quella degli altri paesi europei. L’eccezione è la Gran Bretagna: un sistema decentrato e meritocratico che riesce a ottenere buoni risultati con risorse limitate. Altri paesi se ne sono resi conto e stanno seguendo l’esempio inglese, l’Italia no. La riforma Gelmini fa qualche timido passo in avanti sulla ripartizione dei fondi, ma taglia le risorse esistenti e aggiunge prescrizioni centralistiche nella gestione delle risorse umane.

La giustizia distributiva non va all’università

La manovra prevede che nel triennio 2011-13 non vi saranno rinnovi contrattuali per tutti i dipendenti pubblici e, per il personale docente (istruzione e università), anche il blocco degli automatismi stipendiali legati all’anzianità di servizio. Quando si fanno tagli lineari su strutture retributive che progrediscono con l’anzianità si determinano effetti regressivi che ricadono sulle classi di stipendio più basse, determinando forti iniquità. Se invece si recuperasse il valore della capacità contributiva si potrebbero ripartire le perdite secondo proporzionalità. Meglio ancora, secondo progressività.

La ricerca nella nebbia

Le vicende del bando Futuro in ricerca per i giovani ricercatori rappresentano l’ennesimo esempio di un sistema che si affida a meccanismi lenti e opachi e dai finanziamenti incerti. Lo scopo di sostenere le eccellenze scientifiche era certamente nobile. Tanto che i progetti presentati sono stati molti. Ma la storia del suo svolgimento sembra suggerire che senza una gestione chiara e trasparente del processo di valutazione e di assegnazione delle risorse, il richiamo ai principi di meritocrazia è solo uno slogan.

Tagli al sistema scolastico

Per quanto riguarda la scuola, la manovra prevede tre interventi:

1) il blocco degli automatismi stipendiali, attraverso una sospensione della maturazione della anzianità necessaria alla posizione economica superiore (maturabile in sei anni). Viene stimato che questo intervento possa produrre un risparmio di circa 320 milioni di euro annui, a decrescere nell’’arco dei prossimi decenni.

Istruzione, previdenza e abc della finanza

Il confronto internazionale suggerisce che l’alfabetizzazione finanziaria di un paese dipende dall’investimento in istruzione e dalla struttura dei mercati finanziari. L’Italia si trova in fondo alla graduatoria internazionale in materia perché investe poco in istruzione, perché il sistema previdenziale pubblico è molto esteso e perché non ha approfittato delle riforme delle pensioni degli anni Novanta per ampliare le conoscenze economiche e finanziarie dei lavoratori.

La risposta ai commenti

Non mi sognavo lontanamente di aprire un dibattito sulle nostre radici culturali e sull’opportuntità che in Italia bisogna parlare italiano. Da oltre 10 anni il ministero prevede che i valutatori anonimi dei progetti non siano solo italiani, ma anche stranieri. E’ una decisione che comporta che i progetti siano presentati in una lingua straniera, altrimenti la scelta dei valutatori stranieri sarebbe ristretta ai pochi che conoscono l’italiano. Con beneficio dei valutatori dei paesi anglofoni, la lingua selezionata dal ministero è stata l’inglese. Questa decisione è corretta e la condivido. Il ministero però richiede anche la traduzione italiana del progetto. Perchè non lascia liberi i ricercatori di presentare il progetto solo in inglese o, se preferiscono, sia in inglese sia in italiano?

Per quanto riguarda l’osservazione di Andrea Ichino, il decreto del 19 marzo 2010 assegna al fondo PRIN 106 milioni di euro. Nei cinque anni precedenti  (2004-2008) la media dei fondi assegnati era stata di 108 milioni di euro. A questi venivano aggiunti circa 40 milioni di euro da parte delle università come cofinanziamento, che ora vengono invece contabilizzati tra gli stipendi (spese che l’università sostiene comunue).
La nuova regola contabile riduce quindi l’investimento complessivo in ricerca. Va anche ricordato che il fondo si chiama PRIN 2009 (e non 2010) perché il ministero è in forte ritardo sui tempi: il PRIN 2005 fu pubblicato il 23 febbraio del 2005, il PRIN 2009 il 19 marzo 2010. Poichè in 6 anni sono stati pubblicati solo 5 bandi, si è risparmiata un’intera annualità, un taglio del fondo di circa il 16% per cento

QUANTO CONTA L’ISTRUZIONE *

Il capitale umano ha un ruolo cruciale nel progresso economico. Servono perciò misure accurate e confrontabili a livello internazionale. Ecco dunque una nuova serie di dati, che rafforza i precedenti utilizzando più informazioni e una metodologia migliore. Ci dice che nel 2010 la popolazione mondiale sopra i 15 anni aveva un’istruzione media di 7,8 anni. Se gli anni di scuola aumentano ovunque, non muta però il divario tra paesi ricchi e poveri, che resta di quattro anni. E il tasso di ritorno di un anno in più di scuola varia tra il 5 e il 12 per cento.

NIENTE INGLESE, SIAMO BUROCRATI

In questi giorni migliaia di docenti universitari stanno completando la domanda dei cosiddetti progetti PRIN (progetti di interesse nazionale). Si tratta di un fondo piuttosto esiguo destinato a finanziarie la ricerca di base delle università (spese per contratti con giovani ricercatori, missioni, spese per attrezzature, ecc). In passato il ministero finanziava il 70 per cento del costo dei progetti e le università il residuo 30 per cento. Così un gruppo di ricerca finanziato, ad esempio, con 20.000 euro ne riceveva 14.000 dal ministero e 6.000 dalla propria università. Una nuova regola prevede ora che le università possono finanziare il progetto impegnando lo stipendio dei dipendenti. Sono costi che l’università sostiene comunque, anche se il progetto non è finanziato. Si tratta in sostanza di un taglio del 30 per cento ai già esigui e irregolari finanziamenti per la ricerca di base: invece che 20.000 euro il gruppo di ricerca ne riceverà 14.000.
In questi giorni migliaia di docenti universitari stanno anche traducendo (dall’inglese o dall’italiano), pagina per pagina, i progetti che intendono presentare. Perché questo supplizio? Interpellato, il ministero ha dichiarato che il progetto va presentato in due lingue perché chi valuta il progetto potrebbe non conoscere l’inglese. La burocrazia del ministero (i famigerati modelli A e B noti ai docenti costretti a riempirli) non
consente dunque di presentare un progetto esclusivamente in lingua inglese, con risparmio di tempo da parte dei docenti. Sarebbe una regola di buon senso, ma come si sa il buon senso spesso manca.

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