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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 60 di 71

IL CLUB DEGLI ECCELLENTI

Sulla stampa è recentemente apparsa la notizia dell’iniziativa dei rettori di dodici atenei, tra cui Bologna, Padova e il Politecnico di Milano, di costituire un’associazione per la qualità delle università. Il progetto è criticabile sia nel metodo che nel merito: contrariamente alle intenzioni, tende di fatto a creare un club con accesso preferenziale ai fondi ministeriali, piuttosto che indirizzare e incentivare la qualità della ricerca e della didattica.

SCUOLA

PROVVEDIMENTI

Il ministro Fioroni (a differenza del ministro Mussi) si è caratterizzato per una politica di apparente continuità con i provvedimenti del precedente governo, mentre in realtà ha adottato una politica graduale (il famoso “cacciavite”) per modificare i contenuti più invisi alla nuova maggioranza. Tra i provvedimenti adottati:
1) innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni, e parziale disapplicazione della alternanza scuola-lavoro prevista dalla precedente riforma Moratti (in particolare mancata sottoscrizione di accordi di sperimentazione regionale).
2) commissariamento della agenzia nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (Invalsi), ma incompleta realizzazione di un sistema di valutazione nazionale. Il Ministro ha espresso pareri contradditori sulla necessità di una valutazione “campionaria” contrapposta ad una valutazione “censuaria” delle scuole.
3) riscrittura dei programmi scolastici, definendo dal centro traguardi terminali e linee di indirizzo e non prescrizione di contenuti specifici, ma nel contempo preoccupandosi di un recupero contenutistico nella attuale scuola dell’obbligo, a seguito del ridimensionamento degli stessi introdotto dalla riforma Moratti.
4) ripristino della serietà delle verifiche (in particolare reintroducendo i commissari esterni per l’esame di maturità, ma anche con la reintroduzione dell’esame di riparazione in sostituzione del meccanismo del recupero crediti)
5) accettazione della riduzione degli organici previsto in finanziaria 2007 (in particolare con l’imposizione di un tetto massimo agli insegnanti di sostegno) in cambio di una progressiva immissione in ruolo dei precari, con la conseguente chiusura delle graduatorie ed il passaggio ad un nuovo meccanismo di ingresso nella professione insegnante basato sulle scuole di specializzazione (SIS).
6) sperimentazione di nuove forme di gestione a livello locale delle risorse docenti disponibili (proposta avanzata nel quaderno bianco sulla scuola, recepita in finanziaria 2007 ed attualmente in corso di definizione nelle linee di indirizzo del Ministero della Pubblica Istruzione).

QUANDO SI VEDRANNO GLI EFFETTI

Gli effetti attesi dovrebbero essere quelli di innalzamento della scolarità giovanile (intervento 1) e di miglioramento della qualità degli apprendimenti (interventi 3 e 4). Incerti gli effetti degli interventi sugli organici (interventi 5 e 6), sia sul piano del bilancio che su quello della formazione impartita.

OCCASIONI MANCATE

Due sembrano i nodi non ancora affrontati:
1) il riassetto del sistema formativo, alla luce della preoccupante performance negli apprendimenti emersa dalle indagini internazionali. Molti indicatori di inefficienza puntano i riflettori sulla scuola secondaria di primo grado, che in seguito all’innalzamento dell’obbligo avrebbe potuto essere ridisegnata legandola in modo più organico alla scuola secondaria di secondo grado. È curioso che un provvedimento di rilevante portata (quale l’età dell’obbligo) sia finito in Finanziaria, e non invece inserito in una legge appropriata. È stata correttamente arrestata la licealizzazione della formazione tecnica sponsorizzata dal governo precedente, senza però sciogliere il nodo di quale fosse l’assetto desiderato.
2) non si può avere maggior autonomia gestionale a livello decentrato senza la costruzione di un adeguato sistema di valutazione censuario. Come già in passato, non si è avuto il coraggio di andare in una direzione attuativa dell’autonomia scolastica (trasferendo risorse e responsabilità a livello della dirigenza delle singole scuole) costruendone la precondizione di verifica a posteriore dei risultati.

IL DECLINO DEL DIPLOMATO AMERICANO*

Secondo le statistiche ufficiali le scuole degli Stati Uniti diplomano oggi circa l’88 per cento degli studenti e negli ultimi quaranta anni il tasso di diplomati fra i neri ha registrato una tendenza a convergere verso quello dei bianchi. Dati che però sono ribaltati da studi più approfonditi: le percentuali di chi completa gli studi superiori sono in calo, soprattutto per le minoranze. Un fenomeno che ha ripercussioni sul livello di qualificazione della forza lavoro. E che rischia di ridurre la produttività e di favorire la disuguaglianza nell’America di domani.

UNIVERSITA’

PROVVEDIMENTI

Sono pochi quelli significativi.
La Legge 270 sugli ordinamenti didattici ha aumentato i cosiddetti requisiti minimi di docenza e ridotto il numero di esami necessari per conseguire una laurea triennale o magistrale.
La Legge finanziaria 2008 ha disposto l’abolizione a partire dal 1 gennaio 2010 del periodo di fuori ruolo per i docenti universitari attraverso un meccanismo di graduale riduzione, per cui dal 1° gennaio 2008 il periodo è ridotto a due anni, dal 1° gennaio 2009 a un anno e, infine, dal 1° gennaio 2010 è definitivamente abolito. Le intenzioni del provvedimento sono quelle di alleggerire i bilanci delle università mettendo a carico della previdenza sociale (piuttosto che degli atenei) il costo dei docenti anziani. Va nello stesso senso un provvedimento previsto dalla medesima Legge Finanziaria, che stabilisce che a partire dal 2008 gli incrementi degli stipendi del personale delle università saranno a carico del ministero e non delle singole università.
È stata istituita l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Tuttavia, l’Agenzia non è stata attivata e non ha quindi iniziato ad operare.
Sono state emanate le nuove regole per i concorsi dei ricercatori. Tuttavia, nel 2008 i concorsi avranno ancora luogo con le vecchie regole. Sono stati sbloccati per un anno i concorsi per professori ordinari e associati mantenendo le vecchie regole con una sola idoneità.

QUANDO SI VEDRANNO GLI EFFETTI

La riforma degli ordinamenti didattici è già in vigore e gli atenei stanno completando la riforma dei corsi di laurea. Il nuovo regime avrà inizio con il prossimo anno accademico e occorrerà attendere alcuni anni prima di vederne gli effetti sui nuovi laureati.
I provvedimenti della Legge Finanziaria relativi ai docenti fuori ruolo sono già in vigore. Per quanto riguarda invece lo sblocco dei concorsi di associato e ordinario occorre attendere la conversione in legge del cosiddetto decreto "mille proroghe", prevista per fine febbraio.
La nuova agenzia di valutazione (Anvur) potrà iniziare a lavorare solo quando saranno nominati i suoi componenti.

OCCASIONI MANCATE

Sono molte. Anche se in pochi mesi non si arresta il declino drammatico dell’università, alcuni provvedimenti avrebbero potuto dare almeno il segnale di un’inversione di tendenza. Gli esempi non mancano. Già nel 2007 una quota consistente del fondo di finanziamento ordinario e dei posti di ricercatore, dottorati di ricerca e assegni di ricerca si sarebbe potuta attribuire sulla base del punteggio CIVR. Lo stesso CIVR avrebbe dovuto essere prontamente rifinanziato. Si è lasciato invece giacere in un limbo per oltre un anno: il nuovo bando CIVR per la valutazione della ricerca (già pronto da ottobre) non è stato ancora firmato. Nel frattempo le graduatorie esistenti invecchiano, e avrà facile argomento chi sostiene che non sono più utilizzabili.
Si sarebbe potuto uniformare l’età di pensionamento dei docenti universitari a quella degli altri paesi europei (tipicamente 65 anni, con facoltà di estensione fino a 68 anni per i docenti attivi nella ricerca che ne fanno richiesta) istituendo allo stesso tempo incentivi per i giovani, riformare le regole di governance delle università, istituire regole di incompatibilità per limitare il nepotismo, abolire il valore legale della laurea, riformare i criteri di ripartizione delle matricole tra le facoltà di medicina, eliminare le quote riservate a docenti con più di 15 anni di anzianità nei prossimi concorsi a professore ordinario e associato. Sono provvedimenti che non costano; però incidono sul potere delle lobby accademiche. Non rappresentano un progetto di riforma organico; se attuate, avrebbero però dato almeno una speranza che la distribuzione delle risorse future premierà il merito. Sono mancati invece il coraggio di superare gli ostacoli posti dai conservatori dello status quo e la visione di un’università moderna.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Lorenzini dice che non è vero che gli insegnanti in Italia siano tanti una volta che si tenga conto di alcune caratteristiche fisiche del nostro paese – la frammentazione del territorio e la necessità di offrire il servizio anche in zone "periferiche" – e di alcune scelte di civiltà – il sostegno, superando la ghettizzazione di una volta, agli alunni portatori di handicap. Sul piano dei numeri questa affermazione è però forzata: un semplice esame econometrico descrittivo (cfr. G.Barbieri, P. Cipollone e P. Sestito, Il mercato del lavoro degli insegnati in Italia, maggio 2007) evidenzia come caratteristiche del Comune e incidenza degli alunni portatori di handicap spiegano solo in piccola parte le differenze tra scuole nel numero degli insegnanti (in rapporto agli alunni). Soprattutto, il quesito rilevante è se la modalità di determinazione del fabbisogno di insegnanti impiegata in Italia sia o meno efficiente, non solo in generale (e qui sappiamo che i risultati della scuola italiana sono in media poco lusinghieri e spaventosamente variabili tra scuole) ma anche per il raggiungimento di quegli obiettivi specifici che Lorenzini cita. In altri termini, riusciamo ad integrare gli alunni portatori di handicap meglio di quanto non facciano altri paesi? Ricorrere a figure di sostegno con uno status di insegnante a tutti gli effetti – in Italia spesso si tratta di precari ai loro primi passi nella carriera di insegnante e che usano questa come una strada di accesso alla professione tout court – è meglio o peggio di avere scuole con figure di sostegno in posizione di staff e non riferite alle singole classi? Purtroppo non vi sono, a mia conoscenza, valutazioni precise dei risultati della via italiana al sostegno ed all’integrazione degli alunni con handicap (l’unico studio che conosco, che non può peraltro considerarsi una valutazione vera e propria ma solo un’azione di monitoraggio sul rispetto delle norme di legge, è un documento Invalsi del 2007, a 15 anni di distanza dalla legge 104/1992!). La poca evidenza aneddotica che conosco suggerisce che i risultati italiani non sono così soddisfacenti. Spesso, le scuole finiscono per sollecitare le famiglie a richiedere un insegnante di sostegno proprio perché prive di modalità alternative di attenzione al disagio. Questo, non affrontato da un sistema organizzativamente centrato sulla classe e sull’insegnate e non sulla scuola, viene così trasformato in handicap: nella scuola italiana (elementare e media inferiore) così gli alunni portatori di handicap crescono (come incidenza sul totale) con l’età, laddove le statistiche sulla popolazione complessiva prodotte dall’Istat farebbero predire l’esatto contrario.
Caruselli descrive, in maniera ben più nitida di quanto non possa aver fatto io sulla base di numeri e statistiche, la giostra degli insegnanti. Concordo con lui che quanto accade non è "colpa" di chi alla giostra prende parte. Il punto che però rileva, nel valutare l’efficacia del sistema, è se le regole che sottendono a questa giostra stimolano l’impegno degli insegnanti o meno. La mia tesi è che accade esattamente il contrario. Lo stare in una giostra riduce la motivazione e l’impegno nel delineare e portare avanti un progetto educativo in una data scuola e con un dato gruppo di alunni (questa e quelli saranno presto abbandonati). La mancanza di vaglio da parte della scuola a cui si viene assegnati impedisce a questa di essere parte attiva di quel processo di matching tra lavoratori e posti di lavoro che tanta parte ha, nel resto dell’economia, al fine di migliorare la qualità del servizio lavorativo prestato. Laddove in altre attività (del mercato del lavoro privato) il precario è magari poco motivato – perché pensa al prossimo lavoro più che a quello corrente, con un orizzonte limitato – ma anche costretto a darsi da fare perché si sente sempre a rischio di essere ritenuto non all’altezza – una sensazione umanamente spiacevole ma di forte stimolo all’efficienza – nella scuola si rischia di avere il peggio della precarietà (l’orizzonte troppo breve) ed il peggio della inamovibilità (la sicumera di chi si sente al riparo dai giudizi del datore di lavoro). Ciò che semmai deve stupire è che con simili regole di ingaggio e senza quasi sostegno da parte delle scuole e del sistema nel suo complesso vi siano tantissimi insegnanti che si danno da fare con impegno e dedizione!

SE LO SPINELLO FA MALE ALLA SCUOLA*

I ragazzi che consumano cannabis hanno risultati scolastici peggiori e abbandonano la scuola presto, soprattutto se iniziano prima dei quindici anni. Tutto ciò ha conseguenze sui loro futuri guadagni e sul tipo di lavoro che andranno a svolgere. Ma si riflette anche sull’intera società, che ne paga i costi in termini di potenziale di crescita e di tassi di occupazione. Un problema da affrontare con urgenza vista la sua diffusione tra gli studenti delle scuole superiori europee e americane. Attraverso campagne di informazione, ma anche un innalzamento dei prezzi.

Imparare a ragionare. A Nord come a Sud

Il divario di competenze fra Nord e Sud si può riassumere più o meno in questi termini: problemi che al Nord sanno risolvere la metà dei ragazzi, al Sud vengono risolti da uno su cinque. (1) Secondo Bratti-Checchi-Filippin (2007), il 70 per cento del divario è dovuto al contesto (famiglia, legalità, servizi pubblici, infrastrutture) e il 30 per cento a problemi interni al governo della scuola. (2) Dunque, il divario è profondo, e solo in parte dovuto a carenze interne del sistema scolastico. D’altra parte, l’impegno politico sul problema è serio: nei programmi 2007-2013 di politica regionale per lo sviluppo ci sono 4,2 miliardi di euro destinati ad interventi sull’istruzione, a fronte di 1 miliardo nel 2000-2006 (www.dps.tesoro.it/qsn/qsn.asp).

Dal sapere al saper fare

Il governo sembra aver fatto proprio l’obiettivo del passaggio "dal sapere al saper fare" che è oggi il punto di riferimento degli standard internazionali di misurazione della qualità dei sistemi scolastici: è necessario sapere la regola di risoluzione di un’equazione algebrica, ma è importante capire quando un problema non algebrico si risolve con quell’equazione. Perché a questo "imparare a ragionare" si riferisce, da un lato, il ministero della Pubblica istruzione quando pone l’accento sull’importanza della matematica e dell’italiano; e dall’altro, il ministero dello Sviluppo economico, quando inserisce nel Programma sull’istruzione 2007-2013 obiettivi "vincolanti" definiti in termini di variabili misurabili, in particolare la frazione di studenti che acquisisce competenze superiori al primo livello Pisa.
Sull’aspetto fondamentale della realizzazione dei programmi del governo, il Quaderno bianco sulla scuola propone alcuni passi da attuare già nella attuale fase di avvio. In particolare:
(1) Costruire quanto prima una base ampia di informazioni sulle competenze degli studenti, sfruttando possibilmente i risultati di Pisa 2006 che arrivano a dicembre, oltre che sul contesto, al fine di orientare gli interventi in funzione delle necessità reali del territorio.
(2) Stabilire nei singoli istituti scolastici un collegamento diretto con l’Invalsi, che fornisca supporto nell’analisi della situazione e nella ricerca delle direzioni di miglioramento. A tal proposito, di grande utilità sarebbe a nostro avviso una "banca test" gestita dall’Invalsi contenente esercizi, problemi e test disciplinari che le scuole possano utilizzare quotidianamente.
(3) Sperimentare forme di incentivi agli istituti e ai docenti basati sui risultati ottenuti in termini di competenze, utilizzando i fondi addizionali 2007-2013.
Aggiungeremo qui un paio di considerazioni che assumono particolare rilevanza nella realtà del Mezzogiorno in cui bisogna produrre una discontinuità. Ma va premesso che il ministero ha senza dubbio individuato le criticità principali del sistema: infrastrutture, autonomia scolastica, contenuti dell’apprendimento, valutazione dei risultati, centralizzazione (almeno parziale) degli esami, tempo pieno, infanzia.

Autonomia, misurabilità, incentivi

È largamente confermata da ricerche empiriche, citate anche nel Quaderno, l’idea che la qualità della scuola dipende in larga misura dal lavoro degliinsegnanti, ai quali va garantita autonomia di gestione in un contesto di misurabilità dei risultati ottenuti (nel caso italiano, con funzioni manageriali dei dirigenti scolastici e di supporto dell’Invalsi). Il discorso è chiaro: la decentralizzazione delle scelte operative permette di sfruttare meglio l’informazione in possesso degli agenti locali, ma perché il sistema nel suo complesso si attesti su livelli accettabili occorre poter misurare i risultati raggiunti nei diversi centri di decisione. Altrettanto chiaro è però che la misurabilità dei risultati induce comportamenti volti a massimizzarli soltanto se questi vengono adeguatamente premiati. Nel Quaderno, la necessità della presenza di forti incentivi agli insegnanti non sembra essere sottolineata, forse per motivi "politici", con sufficiente fermezza. (3)

Infanzia e tempo pieno

Su entrambi i fronti il governo sta già intervenendo, il problema riguarda l’ordine dipriorità.
A nostro avviso, queste non sono due fra le mille cose che devono essere fatte: sono le più importanti. Perché se il divario di competenze è dovuto per il 70 per cento al contesto, una buona parte delle risorse dovrebbe servire a far vivere i bambini e i ragazzi svantaggiati in ambienti migliori di quelli familiari e sociali di provenienza. Si noti che per quanto riguarda l’infanzia, importanti ricerche indicano che una parte significativa del differenziale di capacità cognitiva fra figli di genitori con diverso grado di istruzione si determina prima dei cinque anni. (4)
Il tempo pieno, poi, è essenziale e uno sguardo alla figura 1.19 del Quaderno dà un’idea dei termini del problema nelle scuole primarie. Tuttavia, resta da chiarire cosa si va a fare a scuola di pomeriggio. L’obiettivo di "favorire l’ampliamento dell’offerta formativa e un pieno utilizzo degli ambienti e delle attrezzature scolastiche" (5) è ambiguo, laddove è fondamentale sfruttare il servizio addizionale precisamente per quel passaggio dal sapere al saper fare che permea tutto il programma. In altre parole, di pomeriggio si dovrebbero fare esercizi. Con il tutoraggio di insegnanti bravi che in tal modo potrebbero essere adeguatamente ricompensati.

Governo e opposizione

I processi di cui stiamo discutendo hanno orizzonti temporali lunghi, non si può pensare che il paese possa fare passi avanti se ogni governo disfa quello che il precedente ha realizzato. Quello attuale, in materia di istruzione, non sembra avere un atteggiamento disfattista verso chi l’ha preceduto, ma ha la responsabilità di non aver ancora aperto un confronto approfondito sulla questione. Per esempio, al centro del quadro tracciato nel Quaderno bianco si trova un Invalsi trasformato in un alto centro di competenza e ricerca, punto di riferimento di tutto il sistema: un soggetto di questo tipo o è di tutti o dura poco. E se dura poco è un guaio grosso.

(1) Vedi i dati dell’indagine Pisa, Programme for International Student Assessment, che nel 2003 si è incentrata sulle competenze in matematica.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February). Per il divario Nord-Centro, le quote sono rispettivamente 25 e 75 per cento.
(3) Per inciso, se alcuni insegnanti vanno pagati più di altri, dove si prendono i soldi quando finiscono i fondi addizionali? Una risposta possibile è: dalle paghe dei docenti universitari. Considerando lo sviluppo del nostro sistema universitario, che sarà sempre più marcatamente suddiviso in due livelli – uno inferiore delle lauree brevi, uno superiore che produce conoscenza –, viene subito da chiedersi perché un bravo insegnante di scuola debba guadagnare la metà di un docente universitario che ha prodotto ricerca mediocre e che da un certo punto in poi fa solo didattica elementare.
(4) Vedi Heckman, J.J., "The New Economics of Child Quality", 2007. E "Millennium Cohort Study", Center of Longitudinal Studies, www.cls.ioe.ac.uk
(5) Comunicato stampa del ministero dell’Istruzione del 31 agosto 2007.

Il Quaderno promuove la valutazione. Con qualche riserva

Il Quaderno bianco sulla scuola attribuisce una notevole rilevanza alla valutazione, sia nella prima parte di analisi, sia nella seconda, dedicata alle proposte di intervento e alle condizioni per la loro realizzazione. Si tiene conto di diverse prospettive teoriche e delle evidenze empiriche disponibili, delle esperienze realizzate a livello internazionale e nazionale, delle principali posizioni emerse nel dibattito su queste prospettive e su queste esperienze. Dalla lettura del testo e dal confronto tra le due parti emergono alcuni nodi critici, che richiedono ulteriori approfondimenti e specificazioni.

Ricerca valutativa ed educativa e attività di valutazione

Il Quaderno sottolinea l’esigenza e l’importanza di una distinzione tra ricerca valutativa e attività di valutazione, sostenendo l’opportunità di rilanciare la prima "in luoghi autonomi da quelli della sua finalizzazione esecutiva" (p. X). Si tratta di un punto qualificante della analisi e della proposta, perché riguarda una delle cause più importanti della scarsa diffusione di una cultura valutativa nel nostro paese, da cui deriva anche una certa dipendenza dalle indagini internazionali, soprattutto per quanto riguarda i modelli di riferimento e le metodologie adottate.
Nella parte dedicata agli interventi da realizzare nel breve e nel medio-lungo periodo, però, questa raccomandazione viene soltanto in parte sviluppata e rimane sullo sfondo. Vengono individuati in modo articolato gli ambiti in cui sviluppare la ricerca, ma poche sono le indicazioni relative ai "luoghi" all’interno dei quali collocarla. Ne vengono esplicitamente menzionati alcuni (Cnr, università e altri enti pubblici e privati), ma non vengono formulate proposte concrete. Probabilmente questo è in parte dovuto alle caratteristiche del Quaderno, ma la mancanza di indicazioni e la non individuazione delle possibili risorse su cui far leva e dei passaggi da compiere, rischia di privilegiare di fatto,, –le attività di "servizio" a scapito della ricerca.
Va detto che non è comunque facile formulare proposte in questo senso in un paese come il nostro, in cui la ricerca in campo educativo (accademica e non) è in forte ritardo rispetto a quanto avviene altrove, anche per responsabilità del mondo dell’educazione, ancora largamente ancorato a una concezione della riflessione educativa di tipo filosofico, parzialmente di tipo storico, ma sostanzialmente poco attenta alla ricerca empirica e sperimentale.

Il ruolo dell’Invalsi

La scelta che il Quaderno sembra suggerire per la realizzazione delle attività valutative è quella della loro concentrazione in un unico istituto, l’Invalsi, per il quale vengono indicati nuovi compiti, un nuovo status giuridico, una nuova articolazione organizzativa. All’istituto vengono assegnate molteplici responsabilità: la valutazione degli apprendimenti degli studenti, la valutazione delle scuole, la valutazione dei dirigenti scolastici, la realizzazione delle indagini internazionali di tipo valutativo. Oltre a una funzione di sostegno al ministero e alle scuole per le attività di miglioramento.
I problemi che sembrano delinearsi sono più di uno. Il primo riguarda l’opportunità di affidare a un unico soggetto questa molteplicità di funzioni. Altri paesi in cui la ricerca e le attività valutative hanno una tradizione molto più consolidata hanno operato scelte in direzione contraria.
Un secondo problema riguarda la opportunità/possibilità di individuare sempre nell’Invalsi la "casa" (per usare la terminologia del Quaderno) delle attività di sostegno e supporto alle scuole, a seguito degli esiti delle attività valutative. Il Quaderno stesso sostiene la necessità di garantire una forte separazione tra le due linee di attività. (1) È un punto che richiede una attenta riflessione e una approfondita discussione. Anche perché coinvolge le scelte da compiere nei confronti di ciò che ancora rimane del servizio ispettivo, rispetto al quale a più riprese nel Quaderno si ricorda la raccomandazione di potenziamento formulata in sede Ocse.
Un terzo problema è in che misura i compiti di ricerca e attività valutative tornano a essere compresenti all’interno dello stesso "luogo": al futuro Invalsi si riconosce esplicitamente anche una funzione di ricerca valutativa negli ambiti "statistici, econometrici, docimologici, e di valutazione delle pratiche pedagogiche" (p. 150). Evidentemente la questione richiede ulteriori approfondimenti e la necessità di sciogliere nodi ancora abbastanza aggrovigliati.

La costruzione dei "team di supporto" alle scuole

Nel Quaderno si fa costante riferimento all’intreccio tra valutazione e miglioramento delle scuole, tra valutazione e autovalutazione, in una prospettiva di integrazione e di reciproca complementarietà. Viene anche ipotizzata una struttura di supporto alle scuole e vengono indicati tempi e modalità per la costruzione dei "team" che dovrebbero svolgere questa attività. Al problema della loro collocazione istituzionale si è già fatto cenno. Quanto al processo di costruzione e alla loro composizione, sono forse da mettere in conto, al di là della qualità e della quantità delle risorse che vi si vorranno investire, tempi meno brevi per realizzare quanto il Quaderno propone. Le competenze e le figure richieste per un’attività di questo tipo sono molto articolate e complesse, così come lo sono quelle necessarie per la loro formazione. Non è chiaro dove queste competenze possano essere effettivamente costruite e sviluppate nei tempi relativamente brevi che vengono prospettati.

Lo status e la direzione dell’Istituto nazionale di valutazione

Nel Quaderno viene sottolineata la necessità di una maggiore autonomia dell’Invalsi, per il quale si propone la trasformazione in "Autorità, che riferisce del suo operato direttamente al Parlamento" (p. 150). Si indicano anche alcuni "requisiti" che dovrebbero contraddistinguere i componenti del comitato direttivo, per i quali si prospetta un impegno a tempo pieno: "qualificazione scientifica assai elevata, evidente prestigio internazionale, forte personalità e capacità di indirizzo, conoscenza riconosciuta dei sistemi di istruzione e valutazione in Italia e all’estero" (p. 151). Si tratta di indicazioni di cruciale importanza visti i compiti che attendono questo organismo, soprattutto in una prima fase di costruzione.
Allo stesso tempo, però, il loro numero e la distribuzione di compiti e responsabilità prospettati sembrano riflettere l’attuale situazione di commissariamento dell’istituto e non risulta chiaro come possano conciliarsi con l’organizzazione interna che in prospettiva lo dovrà caratterizzare.

(1) Nella forma di due diverse direzioni «separate da una appropriata "muraglia cinese"», p. 145.

Classifiche dettate dal contesto

Il Quaderno bianco sulla Scuola, pubblicato a cura del ministero della Pubblica istruzione e del ministero dell’Economia e delle Finanze, avanza una serie di proposte per il miglioramento della qualità della scuola italiana, definita come “il settore che farà la differenza fra ripresa o stagnazione della mobilità sociale e della produttività” nel nostro paese.

Alla scuola di qualità non bastano le risorse

Le variabili solitamente utilizzate nella letteratura economica per approssimare le risorse investite nella scuola sono la spesa per studente, il rapporto studenti/insegnanti e la numerosità delle classi. Il loro ruolo nell’influenzare il rendimento degli studenti è oggetto di aspre controversie fin dal 1966, quando negli Usa è stato elaborato il rapporto Coleman per spiegare i peggiori rendimenti scolastici che caratterizzavano alcune minoranze. Da allora, si sono susseguiti centinaia di contributi che, basandosi su metodologie non sperimentali, sono arrivati a conclusioni molto diverse tra loro. Per questo motivo, alcuni autori hanno scritto rassegne che avevano l’obiettivo di sintetizzare l’imponente mole di lavori disponibili. Tuttavia, anche le rassegne hanno raggiunto conclusioni opposte, in base al modo utilizzato per sintetizzare i contributi esistenti. Tutto ciò la dice lunga su quanto controverso sia il ruolo delle risorse.

Risorse e risultati

Ci sono anche ragioni teoriche che possono spiegare il fatto che non si trovi una relazione robusta tra risorse e risultati. Prendiamo la numerosità delle classi, ad esempio: una relazione negativa tra dimensioni delle classi e performance degli studenti potrebbe essere mascherata dal fatto che l’allocazione degli studenti in classi grandi o piccole non è casuale. Se gli studenti "peggiori" risultano concentrati con maggiore probabilità in classi di dimensioni ridotte, quelle più numerose possono anche risultare migliori. Recentemente, alcuni studi hanno fornito evidenza sperimentale sull’argomento e sembra esistere un effetto positivo, sebbene debole. Nel Tennessee l’esperimento Star ha assegnato in modo casuale una coorte di studenti, e i relativi insegnanti, a classi di diverse dimensioni: i risultati in test standardizzati sono migliorati di circa il 4 per cento durante il primo anno in cui gli studenti sono inseriti in classi più piccole, e dell’1 per cento in ciascun anno successivo. (1)
Pur in presenza di voci a volte molto discordanti, il dibattito in letteratura avviene in un ambito delimitato da alcuni punti fermi:
1) Un meccanismo automatico che leghi maggiori risorse investite nella scuola a migliori rendimenti degli studenti è tutt’altro che ovvio.
2) Anche gli autori che si mostrano più scettici sul ruolo delle risorse scolastiche non si spingono ad affermare che investire nella scuola sia inutile.

Il caso Italia

Il primo punto trova in Italia una immediata conferma. Come ben documentato nel Quaderno bianco sulla scuola (parte I, par. 4.2), l’Italia spende per l’istruzione più della media dei paesi Ocse. Particolarmente elevata risulta la spesa per il personale, in virtù dell’alto rapporto insegnanti/studenti. Ciò è dovuto, da un lato, al maggior impegno orario degli studenti, particolarmente nella scuola primaria e in misura minore nella scuola secondaria inferiore. Dall’altro, alla maggiore incidenza di alcune tipologie di insegnanti: di sostegno, di religione, e fuori ruolo. Anche al netto di queste figure, tuttavia, il rapporto è di 9,1 insegnanti per 100 studenti in Italia, contro una media di 7,5 nei paesi Ocse. Eppure, i risultati che emergono da indagini standardizzate internazionali, come ad esempio Pisa, pongono le competenze degli studenti italiani sistematicamente sotto la media. Anche all’interno del nostro paese non emerge una correlazione tra quantità di risorse investite, distribuite abbastanza uniformemente a livello territoriale, e risultati degli studenti, che mostrano un forte svantaggio delle regioni centro-meridionali. Inoltre, se la quota di spesa in conto capitale risulta correlata positivamente con le competenze degli studenti, non lo è altrettanto la spesa per insegnanti, mentre quella per altro personale e consumi intermedi mostra addirittura una correlazione negativa. (2)
L’assenza di sistematiche correlazioni positive tra quantità di risorse investite e risultati non esclude che esistano altri effetti sulle competenze degli studenti che le variabili elencate sopra non consentono di cogliere. E qui veniamo al secondo punto. Le differenze tra scuole potrebbero essere in parte spiegate da determinanti di tipo istituzionale anziché dall’ammontare delle risorse investite. O da altri fattori che influenzano la qualità della scuola, come il livello di preparazione e di motivazione degli insegnanti. La letteratura evidenzia fra questi la centralizzazione degli esami, il livello di autonomia scolastica, il livello di autonomia didattica degli insegnanti, l’esistenza di valutazioni da parte degli studenti e il livello di concorrenza da parte di scuole private.
In parole povere, la questione non è solo quanto spendere per la scuola, ma soprattutto come. E visto che in Italia la quantità di risorse investite non è inferiore a quella degli altri paesi sviluppati mentre sono inferiori i risultati ottenuti, è obbligatorio ripensare al modo in cui le risorse sono spese.
A proposito del decentramento delle responsabilità e delle competenze nel governo della scuola intrapreso in Italia dagli anni Novanta, sempre nel Quaderno Bianco (pag. 32) si legge che:
"È mancata l’assegnazione alla scuola di autonomia economico-finanziaria, ma anche la strumentazione per monitorarla; e, ancora, l’attribuzione alle scuole di poteri effettivi che consentano a ognuna di esse di attuare gli interventi necessari al miglioramento dei propri risultati".
Si tratta di una descrizione coincisa ed efficace di come una qualunque riforma sia destinata a rimanere incompiuta, finché al decentramento non si affianchi l’attribuzione di poteri effettivi e responsabilità in capo a chi è chiamato a gestire la fornitura del servizio. Se a questo aggiungiamo la già dimostrata avversione dei principali attori del sistema scolastico, ovvero gli insegnanti, alla loro valutazione e incentivazione su base meritocratica, risulta abbastanza facile prevedere che eventuali risorse addizionali da destinare alla scuola non sortiranno effetti di rilievo sulle competenze degli studenti.

(1) Krueger, A.B. (1999). "Experimental Estimates of Education Production Functions" Quarterly Journal of Economics 114(2): 497-532.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February) – Bonn: IZA.

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