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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 61 di 71

Il Quaderno promuove la valutazione. Con qualche riserva

Il Quaderno bianco sulla scuola attribuisce una notevole rilevanza alla valutazione, sia nella prima parte di analisi, sia nella seconda, dedicata alle proposte di intervento e alle condizioni per la loro realizzazione. Si tiene conto di diverse prospettive teoriche e delle evidenze empiriche disponibili, delle esperienze realizzate a livello internazionale e nazionale, delle principali posizioni emerse nel dibattito su queste prospettive e su queste esperienze. Dalla lettura del testo e dal confronto tra le due parti emergono alcuni nodi critici, che richiedono ulteriori approfondimenti e specificazioni.

Ricerca valutativa ed educativa e attività di valutazione

Il Quaderno sottolinea l’esigenza e l’importanza di una distinzione tra ricerca valutativa e attività di valutazione, sostenendo l’opportunità di rilanciare la prima "in luoghi autonomi da quelli della sua finalizzazione esecutiva" (p. X). Si tratta di un punto qualificante della analisi e della proposta, perché riguarda una delle cause più importanti della scarsa diffusione di una cultura valutativa nel nostro paese, da cui deriva anche una certa dipendenza dalle indagini internazionali, soprattutto per quanto riguarda i modelli di riferimento e le metodologie adottate.
Nella parte dedicata agli interventi da realizzare nel breve e nel medio-lungo periodo, però, questa raccomandazione viene soltanto in parte sviluppata e rimane sullo sfondo. Vengono individuati in modo articolato gli ambiti in cui sviluppare la ricerca, ma poche sono le indicazioni relative ai "luoghi" all’interno dei quali collocarla. Ne vengono esplicitamente menzionati alcuni (Cnr, università e altri enti pubblici e privati), ma non vengono formulate proposte concrete. Probabilmente questo è in parte dovuto alle caratteristiche del Quaderno, ma la mancanza di indicazioni e la non individuazione delle possibili risorse su cui far leva e dei passaggi da compiere, rischia di privilegiare di fatto,, –le attività di "servizio" a scapito della ricerca.
Va detto che non è comunque facile formulare proposte in questo senso in un paese come il nostro, in cui la ricerca in campo educativo (accademica e non) è in forte ritardo rispetto a quanto avviene altrove, anche per responsabilità del mondo dell’educazione, ancora largamente ancorato a una concezione della riflessione educativa di tipo filosofico, parzialmente di tipo storico, ma sostanzialmente poco attenta alla ricerca empirica e sperimentale.

Il ruolo dell’Invalsi

La scelta che il Quaderno sembra suggerire per la realizzazione delle attività valutative è quella della loro concentrazione in un unico istituto, l’Invalsi, per il quale vengono indicati nuovi compiti, un nuovo status giuridico, una nuova articolazione organizzativa. All’istituto vengono assegnate molteplici responsabilità: la valutazione degli apprendimenti degli studenti, la valutazione delle scuole, la valutazione dei dirigenti scolastici, la realizzazione delle indagini internazionali di tipo valutativo. Oltre a una funzione di sostegno al ministero e alle scuole per le attività di miglioramento.
I problemi che sembrano delinearsi sono più di uno. Il primo riguarda l’opportunità di affidare a un unico soggetto questa molteplicità di funzioni. Altri paesi in cui la ricerca e le attività valutative hanno una tradizione molto più consolidata hanno operato scelte in direzione contraria.
Un secondo problema riguarda la opportunità/possibilità di individuare sempre nell’Invalsi la "casa" (per usare la terminologia del Quaderno) delle attività di sostegno e supporto alle scuole, a seguito degli esiti delle attività valutative. Il Quaderno stesso sostiene la necessità di garantire una forte separazione tra le due linee di attività. (1) È un punto che richiede una attenta riflessione e una approfondita discussione. Anche perché coinvolge le scelte da compiere nei confronti di ciò che ancora rimane del servizio ispettivo, rispetto al quale a più riprese nel Quaderno si ricorda la raccomandazione di potenziamento formulata in sede Ocse.
Un terzo problema è in che misura i compiti di ricerca e attività valutative tornano a essere compresenti all’interno dello stesso "luogo": al futuro Invalsi si riconosce esplicitamente anche una funzione di ricerca valutativa negli ambiti "statistici, econometrici, docimologici, e di valutazione delle pratiche pedagogiche" (p. 150). Evidentemente la questione richiede ulteriori approfondimenti e la necessità di sciogliere nodi ancora abbastanza aggrovigliati.

La costruzione dei "team di supporto" alle scuole

Nel Quaderno si fa costante riferimento all’intreccio tra valutazione e miglioramento delle scuole, tra valutazione e autovalutazione, in una prospettiva di integrazione e di reciproca complementarietà. Viene anche ipotizzata una struttura di supporto alle scuole e vengono indicati tempi e modalità per la costruzione dei "team" che dovrebbero svolgere questa attività. Al problema della loro collocazione istituzionale si è già fatto cenno. Quanto al processo di costruzione e alla loro composizione, sono forse da mettere in conto, al di là della qualità e della quantità delle risorse che vi si vorranno investire, tempi meno brevi per realizzare quanto il Quaderno propone. Le competenze e le figure richieste per un’attività di questo tipo sono molto articolate e complesse, così come lo sono quelle necessarie per la loro formazione. Non è chiaro dove queste competenze possano essere effettivamente costruite e sviluppate nei tempi relativamente brevi che vengono prospettati.

Lo status e la direzione dell’Istituto nazionale di valutazione

Nel Quaderno viene sottolineata la necessità di una maggiore autonomia dell’Invalsi, per il quale si propone la trasformazione in "Autorità, che riferisce del suo operato direttamente al Parlamento" (p. 150). Si indicano anche alcuni "requisiti" che dovrebbero contraddistinguere i componenti del comitato direttivo, per i quali si prospetta un impegno a tempo pieno: "qualificazione scientifica assai elevata, evidente prestigio internazionale, forte personalità e capacità di indirizzo, conoscenza riconosciuta dei sistemi di istruzione e valutazione in Italia e all’estero" (p. 151). Si tratta di indicazioni di cruciale importanza visti i compiti che attendono questo organismo, soprattutto in una prima fase di costruzione.
Allo stesso tempo, però, il loro numero e la distribuzione di compiti e responsabilità prospettati sembrano riflettere l’attuale situazione di commissariamento dell’istituto e non risulta chiaro come possano conciliarsi con l’organizzazione interna che in prospettiva lo dovrà caratterizzare.

(1) Nella forma di due diverse direzioni «separate da una appropriata "muraglia cinese"», p. 145.

Classifiche dettate dal contesto

Il Quaderno bianco sulla Scuola, pubblicato a cura del ministero della Pubblica istruzione e del ministero dell’Economia e delle Finanze, avanza una serie di proposte per il miglioramento della qualità della scuola italiana, definita come “il settore che farà la differenza fra ripresa o stagnazione della mobilità sociale e della produttività” nel nostro paese.

Alla scuola di qualità non bastano le risorse

Le variabili solitamente utilizzate nella letteratura economica per approssimare le risorse investite nella scuola sono la spesa per studente, il rapporto studenti/insegnanti e la numerosità delle classi. Il loro ruolo nell’influenzare il rendimento degli studenti è oggetto di aspre controversie fin dal 1966, quando negli Usa è stato elaborato il rapporto Coleman per spiegare i peggiori rendimenti scolastici che caratterizzavano alcune minoranze. Da allora, si sono susseguiti centinaia di contributi che, basandosi su metodologie non sperimentali, sono arrivati a conclusioni molto diverse tra loro. Per questo motivo, alcuni autori hanno scritto rassegne che avevano l’obiettivo di sintetizzare l’imponente mole di lavori disponibili. Tuttavia, anche le rassegne hanno raggiunto conclusioni opposte, in base al modo utilizzato per sintetizzare i contributi esistenti. Tutto ciò la dice lunga su quanto controverso sia il ruolo delle risorse.

Risorse e risultati

Ci sono anche ragioni teoriche che possono spiegare il fatto che non si trovi una relazione robusta tra risorse e risultati. Prendiamo la numerosità delle classi, ad esempio: una relazione negativa tra dimensioni delle classi e performance degli studenti potrebbe essere mascherata dal fatto che l’allocazione degli studenti in classi grandi o piccole non è casuale. Se gli studenti "peggiori" risultano concentrati con maggiore probabilità in classi di dimensioni ridotte, quelle più numerose possono anche risultare migliori. Recentemente, alcuni studi hanno fornito evidenza sperimentale sull’argomento e sembra esistere un effetto positivo, sebbene debole. Nel Tennessee l’esperimento Star ha assegnato in modo casuale una coorte di studenti, e i relativi insegnanti, a classi di diverse dimensioni: i risultati in test standardizzati sono migliorati di circa il 4 per cento durante il primo anno in cui gli studenti sono inseriti in classi più piccole, e dell’1 per cento in ciascun anno successivo. (1)
Pur in presenza di voci a volte molto discordanti, il dibattito in letteratura avviene in un ambito delimitato da alcuni punti fermi:
1) Un meccanismo automatico che leghi maggiori risorse investite nella scuola a migliori rendimenti degli studenti è tutt’altro che ovvio.
2) Anche gli autori che si mostrano più scettici sul ruolo delle risorse scolastiche non si spingono ad affermare che investire nella scuola sia inutile.

Il caso Italia

Il primo punto trova in Italia una immediata conferma. Come ben documentato nel Quaderno bianco sulla scuola (parte I, par. 4.2), l’Italia spende per l’istruzione più della media dei paesi Ocse. Particolarmente elevata risulta la spesa per il personale, in virtù dell’alto rapporto insegnanti/studenti. Ciò è dovuto, da un lato, al maggior impegno orario degli studenti, particolarmente nella scuola primaria e in misura minore nella scuola secondaria inferiore. Dall’altro, alla maggiore incidenza di alcune tipologie di insegnanti: di sostegno, di religione, e fuori ruolo. Anche al netto di queste figure, tuttavia, il rapporto è di 9,1 insegnanti per 100 studenti in Italia, contro una media di 7,5 nei paesi Ocse. Eppure, i risultati che emergono da indagini standardizzate internazionali, come ad esempio Pisa, pongono le competenze degli studenti italiani sistematicamente sotto la media. Anche all’interno del nostro paese non emerge una correlazione tra quantità di risorse investite, distribuite abbastanza uniformemente a livello territoriale, e risultati degli studenti, che mostrano un forte svantaggio delle regioni centro-meridionali. Inoltre, se la quota di spesa in conto capitale risulta correlata positivamente con le competenze degli studenti, non lo è altrettanto la spesa per insegnanti, mentre quella per altro personale e consumi intermedi mostra addirittura una correlazione negativa. (2)
L’assenza di sistematiche correlazioni positive tra quantità di risorse investite e risultati non esclude che esistano altri effetti sulle competenze degli studenti che le variabili elencate sopra non consentono di cogliere. E qui veniamo al secondo punto. Le differenze tra scuole potrebbero essere in parte spiegate da determinanti di tipo istituzionale anziché dall’ammontare delle risorse investite. O da altri fattori che influenzano la qualità della scuola, come il livello di preparazione e di motivazione degli insegnanti. La letteratura evidenzia fra questi la centralizzazione degli esami, il livello di autonomia scolastica, il livello di autonomia didattica degli insegnanti, l’esistenza di valutazioni da parte degli studenti e il livello di concorrenza da parte di scuole private.
In parole povere, la questione non è solo quanto spendere per la scuola, ma soprattutto come. E visto che in Italia la quantità di risorse investite non è inferiore a quella degli altri paesi sviluppati mentre sono inferiori i risultati ottenuti, è obbligatorio ripensare al modo in cui le risorse sono spese.
A proposito del decentramento delle responsabilità e delle competenze nel governo della scuola intrapreso in Italia dagli anni Novanta, sempre nel Quaderno Bianco (pag. 32) si legge che:
"È mancata l’assegnazione alla scuola di autonomia economico-finanziaria, ma anche la strumentazione per monitorarla; e, ancora, l’attribuzione alle scuole di poteri effettivi che consentano a ognuna di esse di attuare gli interventi necessari al miglioramento dei propri risultati".
Si tratta di una descrizione coincisa ed efficace di come una qualunque riforma sia destinata a rimanere incompiuta, finché al decentramento non si affianchi l’attribuzione di poteri effettivi e responsabilità in capo a chi è chiamato a gestire la fornitura del servizio. Se a questo aggiungiamo la già dimostrata avversione dei principali attori del sistema scolastico, ovvero gli insegnanti, alla loro valutazione e incentivazione su base meritocratica, risulta abbastanza facile prevedere che eventuali risorse addizionali da destinare alla scuola non sortiranno effetti di rilievo sulle competenze degli studenti.

(1) Krueger, A.B. (1999). "Experimental Estimates of Education Production Functions" Quarterly Journal of Economics 114(2): 497-532.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February) – Bonn: IZA.

Scuole, voti e competenze

Indicatori affidabili delle competenze degli studenti servono a orientare le decisioni pubbliche in materia di istruzione e quelle delle imprese sul mercato del lavoro. La misura più vantaggiosa sono i voti scolastici. Non in Italia, dove gli insegnanti sembrano replicare un criterio di votazione “relativa” all’interno delle classi più che confrontarsi con un metro nazionale. E dove di fatto non sono ancora stati definiti standard di apprendimento. Ora ci sono le premesse per un cambiamento. Che deve partire dalla costruzione di un sistema di valutazione nazionale.

Il buon maestro è severo

Insegnanti più esigenti ottengono dai propri studenti risultati mediamente migliori. Lo confermano anche analisi empiriche: gli apprendimenti medi nelle classi dove vengono applicati criteri più rigidi superano anche del 20 per cento i valori registrati laddove gli standard di valutazione sono piuttosto generosi. E basta guardare alla poco confortante dinamica della produttività del lavoro per convincersi dell’urgenza di reintrodurre, a scuola come nel mercato del lavoro, processi di valutazione fondati sul merito e sull’effettiva competenza.

Il mercato non va all’università

La proposta del ministro Mussi sul reclutamento dei ricercatori universitari ha alcuni elementi di indubbia novità che si richiamano al sistema anglosassone. Ma è un errore adottare solo alcune caratteristiche di altri modelli, senza coglierne lo spirito complessivo. Più in generale, la riforma tradisce una profonda diffidenza verso un meccanismo genuinamente di mercato, la sua capacità di autoregolarsi e correggersi, e il nesso inscindibile tra autonomia, potere e responsabilità.

Quel test è uno specchio della scuola italiana

Il test di ingresso alla facoltà di Medicina è una prova nazionale e molto selettiva. Le differenze fra le sedi nei punteggi mediani degli ammessi sono ampie. E potrebbero essere legate al diverso livello di preparazione fornito dalle scuole superiori italiane. Il Nord-Est ottiene i migliori risultati, con tre università fra le prime quattro. All’opposto, delle ultime otto, sette sono meridionali. Con alcune importanti eccezioni, come Bari e Palermo dove il punteggio medio è superiore alla media nazionale. Discutibile la creazione di una graduatoria per ogni sede.

Senza valutazione non c’è accademia

Intervista a Walter Tocci, deputato dell’Unione e membro della commissione Cultura della Camera, per tracciare un bilancio dell’attività del primo anno di governo Prodi in materia di università e ricerca. Si discute di Anvur e Civr, di finanziamenti e di incentivi alla produzione scientifica, di concorsi e delle troppe norme che regolano l’attività degli atenei. Ma l’appuntamento cruciale è la prossima Finanziaria. Se non ci sarà un congruo aumento di fondi per la ricerca e l’università legato alla valutazione, allora il guasto diventerà irrimediabile.

I fondi pubblici per l’università

Sul principio che sia opportuno finanziare l’università con risorse pubbliche non sembrano esserci dubbi. Ma due ragioni rendono preferibile anche una fornitura pubblica del servizio: l’intervento pubblico dovrebbe comunque sussidiare la ricerca di base, e l’informazione sulla qualità dell’istruzione è molto difficile da misurare e percepire, specialmente durante una transizione a un nuovo regime. Incentivi, concorrenza e liberalizzazioni delle carriere del personale possono essere introdotti utilizzando i molti strumenti di cui già si dispone.

Uguali perché mobili

L’istruzione media degli italiani è significativamente cresciuta, in particolare dopo la riforma della scuola dell’obbligo nel 1962. Nel conseguimento della laurea permane però un differenziale di probabilità legato al diverso background familiare. Per le differenze di reddito e perché per i figli di non laureati l’università è un investimento più rischioso ed è maggiore il costo opportunità. Ma anche per effetto dei modelli di ruolo. Frequentare un ateneo lontano dalla città di residenza della famiglia potrebbe attenuarne l’impatto.

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