Mercato aereo e scelte pubbliche
Molti lettori hanno commentato i miei due recenti articoli sul caso Alitalia (qui e qui). Ripercorro volentieri le principali sollecitazioni ricevute, raggruppate per omogeneità, aggiungendo a ognuna alcune considerazioni.
Per prima cosa: abbiamo proprio bisogno di Alitalia? Se venisse chiusa o venduta a un altro grande vettore europeo, il trasporto aereo non verrebbe garantito egualmente dal mercato? La risposta è senz’altro affermativa. Alitalia era un vettore indispensabile quando trasportava 24 milioni di passeggeri su un mercato che non raggiungeva i 50, ma non lo è ora che ne trasporta 22 milioni su un mercato di 130. Se dovesse chiudere, nell’arco di pochi mesi i suoi 22 milioni di clienti sarebbero presi a bordo da voli aggiuntivi di altre compagnie, come successe all’inizio del decennio scorso con il fallimento di Swissair e Sabena.
Una seconda area di questioni riguarda le scelte pubbliche di settore: se Alitalia nel 2008 fosse stata venduta ad Air France, anziché salvata per inesistenti ragioni di campanile, oggi non avrebbe gli stessi problemi dato che non vi sarebbero stati sei anni di errata gestione Cai, basati su un progetto che intendeva solo restringere la concorrenza. Il nostro paese è pieno di aeroporti minori che erano praticamente vuoti prima dell’arrivo dei vettori low-cost. Poi è arrivata Ryanair e si è fatta pagare per aprire rotte che prima di allora nessuna compagnia si era sognata di considerare. In taluni casi, come Bergamo-Orio al Serio, ha riempito gli scali.
Si tratta di concorrenza sleale? Se i concorrenti non c’erano direi proprio di no. Bergamo è servito da vettori low-cost per il 94 per cento del traffico, Treviso per il 99,7 per cento, Ciampino per il 99 per cento, Trapani per il 97 per cento, Crotone per il 99 per cento. Senza le low-cost il contribuente sarebbe stato chiamato a pagare per conservare in esercizio aeroporti completamente vuoti.
Le tasse dei low-cost
Come si possono definire leali i low-cost quando non pagano in Italia né tasse né contributi sociali e non applicano i contratti di lavoro italiani? Non dimentichiamo che sono entrati nel mercato nazionale inizialmente sui collegamenti infra-comunitari internazionali, non sui voli domestici. In tale caso, non potendosi applicare doppie regole su un medesimo volo, è corretto che prevalgano quelle del paese di residenza del vettore. I voli domestici realizzati in un paese differente sfuggono egualmente alle regole di quel paese in quanto le compagnie, coerentemente col loro approccio low-cost, tendono a non aprirvi stabili organizzazioni. Si può non essere d’accordo, tuttavia perché mai dovrebbero aprire una sede di cui possono fare a meno solo per pagare più tasse?
È utile richiamare in ultimo il circolo vizioso in cui è rimasto intrappolata la nostra ex compagnia di bandiera: 1) Alitalia perde molto per la concorrenza dei low-cost, pertanto viene elaborato un nuovo piano d’impresa che diminuisce aerei e personale (nel 2008, nel 2014 e nuovamente nel 2017); 2) gli spazi di mercato lasciati spontaneamente liberi da Alitalia sono presto occupati dai vettori low-cost che in tal modo accentuano la pressione concorrenziale su di essa, incrementandone le perdite; 3) a questo punto si elabora un nuovo piano d’impresa che ridimensiona ulteriormente Alitalia, lasciando ulteriori spazi ai low-cost, i quali potranno così esercitare ancora maggiore concorrenza…
È evidente che di questo passo, dopo un certo numero di piani d’impresa e di ridimensionamenti, Alitalia sarà arrivata alla chiusura definitiva.
Sicurezza non fa rima con riarmo
Di Raul Caruso
il 14/03/2017
in Commenti e repliche
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