L’articolo “Epatite C: se il farmaco costa troppo per essere utilizzato” lamenta il costo esagerato dei nuovi farmaci anti Hcv, ma alcune affermazioni vanno discusse (Per una più ampia disamina dell’argomento e riferimenti bibliografici si vedano: http://bit.ly/1TVvdxM; http://bit.ly/1VMhRse; http://bit.ly/1Uf4j7C; http://bit.ly/1Xagogr).
1) Il costo impedisce di somministrare i nuovi farmaci al milione di malati?
I malati di epatite da Hcv o complicanze, cioè pazienti con sintomi che stanno compromettendo salute e qualità di vita, in Italia non sono un milione. Quelli citati da una ricerca di EpaC sono 160-180mila.
Altro è parlare di infettati da Hcv: sul sito di EpaC se ne stimano due milioni e qualcuno dice circa il 3 per cento degli italiani. Ma la maggior parte di loro ignora di essere infettata da Hcv e molti vivranno normalmente e moriranno di vecchiaia senza mai saperlo.
Una ricerca di coorte con lungo follow-up mostra che pazienti con cirrosi compensata che hanno ottenuto risposta virologica sostenuta/Svr con regimi a base di interferone (per i quali anche studi clinici randomizzati hanno già dimostrato efficacia su esiti finali di salute) hanno speranza di vita sovrapponibile alla popolazione generale. Questi pazienti hanno già oggi accesso ai nuovi farmaci (Aifa: criterio 1), come pure chi non ha cirrosi ma epatite cronica e fibrosi F3: per questi l’accesso ai nuovi farmaci non è in discussione.
Si considerano già eleggibili anche sottogruppi di pazienti F2 a maggior rischio personale o di trasmissione, e si valutano prossimi ampliamenti.
2) Si negano farmaci salvavita?
No, sia
- per quanto richiamato al punto 1): a oggi non sembra che pazienti con F3 o anche cirrosi compensata che ottengono un’Svr abbiano aspettativa di vita ridotta;
- perché non vi è ancora prova che, per soggetti stabili e asintomatici, 8-12 settimane di farmaci innovativi comportino vantaggi netti a lungo termine. La prova manca a maggior ragione per asintomatici che scoprirebbero l’infezione solo a seguito di screening.
Simili scoperte possono dare contraccolpi psicologici, oltre a stigma/discriminazione, in parte anche per l’equivoco che l’infettato sia infettante. Per fortuna non è così, a meno che non scambi strumenti taglienti/sangue; o, nel 2-8 per cento dei casi, da madre a figlio in gravidanza (più spesso in coinfezioni con Hiv).
La trasmissione sessuale tra partner eterosessuali che si dichiarano monogami è rarissima (su 500 coppie con media di 15 anni/cadauno di rapporti sessuali, solo tre casi certi di trasmissione: 1 su 190mila rapporti sessuali). La trasmissione è maggiore in rapporti omosessuali tra maschi (benché assai minore rispetto ad altre infezioni a trasmissione sessuale), ma in questo caso il 25 per cento di maschi Hiv+ con Svr da Hcv si reinfetta con Hcv entro 2 anni se continuano i comportamenti a rischio: ciò richiede di trattarli anche per evitare circolazione dell’Hcv, e insieme forti investimenti educativi per l’adozione di pratiche sessuali sicure.
Anche sulla sicurezza a lungo termine delle nuove terapie va espressa cautela. Per farmaci antivirali preoccupa una ricerca in Hong Kong su 45.300 pazienti con epatite B cronica. Rispetto ai non trattati pesati con propensity score, nei trattati con lamivudina ed entecavir, per alcuni tenofovir, l’insieme di tutti i cancri non si è ridotto (aHR 1,01). In particolare il cancro al fegato ha teso a diminuire, l’insieme degli altri ha teso ad aumentare (aHR 1,17), e i cancri colorettali (aHR 2,17) e cervicali (aHR 4,41) sono aumentati in modo significativo. Preoccupa ancor più che la mortalità totale sia stata 5,1 per cento tra i trattati e 3,3 per cento tra i non trattati, con un RR di 1,55, altamente significativo, e un morto in eccesso ogni 55 trattati. Certo, i virus B sono diversi, le probabilità di eradicare l’Hcv dal sangue con terapie di 12 settimane (presto di 8) sono molto buone, non così per l’Hbv. Ma i rischi dei trattamenti (compresi rischi a lungo termine, spesso ignoti) sono meno giustificati se estesi a pazienti in condizioni via via meno serie, in cui il bilancio rischi-benefici attesi e costi-opportunità va ponderato con molta attenzione.
3) Uniche alternative attendere un peggioramento o pagare in proprio?
È un messaggio sbagliato, disinformazione da contrastare. Fa l’interesse degli oligopoli farmaceutici e ne rafforza il potere contrattuale, creando fortissime pressioni sui decisori per distorcere valutazioni più razionali di costo-opportunità. E crea una massa di persone allarmate o disperate (non stiamo parlando di F3 o F4, ma di tanti con epatopatie lievi o semplici infettati in condizione non evolutiva), polarizzate su uno solo degli strumenti disponibili, che scaricano la frustrazione con grave disaffezione verso il sistema sanitario nazionale, a favore di sbocchi assicurativi, presentati come (illusorie) soluzioni.
Per la drammatica ma non frequente complicanza del cancro epatico, è grave errore pensare che “poiché il 60 per cento dei morti per tumori al fegato è Hcv-associato, l’Hcv causa ogni anno più di 6mila cancri al fegato in Italia”.
Frazione di cancri epatici attribuibile a livello di popolazione a diversi fattori di rischio
Ecco le associazioni riscontrate in letteratura, molte riferite alla ricerca prospettica Epic, su circa 500mila europei, che include coorti italiane:
– Fumo di sigaretta: 25 per cento
– Diabete e obesità: 19-23 per cento. Per la sua diffusione, negli Usa il diabete sarebbe ormai la prima causa in assoluto di cancro epatico. Una revisione sistematica e metanalisi segnala anche il probabile rischio da insulina e protezione da metformina
– Alcol: 33 per cento negli uomini, 18 per cento nelle donne
– Carico totale di zuccheri: circa 33 per cento
– Alto consumo di latte e formaggi: circa 25 per cento (forse per aflatossine, o per effetti sull’IGF-I)
– Alto consumo di carne rossa: circa 10 per cento (aumento non significativo, ma indirettamente legato a fattori di rischio per cancro epatico come aumento di peso e diabete: revisione delle metanalisi pubblicate).
Potremmo proseguire, ma ci fermiamo perché la somma è già sopra al 130 per cento, senza aver ancora computato il contributo di Hbv e Hcv. Certo anche l’Hcv ha un ruolo importante, ma non indipendente da altri fattori di rischio, né per fortuna da importanti fattori protettivi. Di questi e dello screening diremo in un altro articolo.
* L’articolo è firmato anche da Alberto Aronica, Franco Berrino, Antonio Bonaldi, Vittorio Caimi, Gianfranco Domenighetti, Giuseppe Fattori, Paolo Longoni, Giulio Mariani, Luca Mascitelli, Ernesto Mola, Alessandro Nobili, Alberto Nova, Gianfranco Porcile, Luisa Ronchi.
Epatite C: perché no a screening di massa*
Di Alberto Donzelli
il 17/06/2016
in Commenti e repliche
Prevenire il cancro epatico
In un precedente commento si è parlato di fattori di rischio per Hcv e progressione delle complicanze, poco noti alla popolazione e trascurati dai sanitari. Completiamo l’informazione su fattori protettivi e screening.
Frazione di cancro epatico prevenibile nella popolazione associata a fattori protettivi
– Caffè: circa -34 per cento, se tutti ne bevessero come il gruppo che gli studi classificano come maggior bevitore (e l’effetto-dose è stato stimato a circa -25 per cento per tazza). La protezione vale anche per altre epatopatie in vari stadi di gravità, secondo una revisione sistematica e metanalisi
– Fibra alimentare: -31 per cento se tutti ne consumassero come il quarto di popolazione che ne consuma di più, con -30 per cento di rischio per ogni 10 grammi di fibra al dì consumati
– Pesce: -24 per cento se tutti ne consumassero come il quarto di popolazione che ne consuma di più. Ogni 20 g/die in più di pesce si associano a -20 per cento del rischio di cancro epatico; un -14 per cento si osserva anche con la sostituzione di 20 g di pesce a 20 g di carne al dì. I risultati sono simili anche negli infetti con Hbv o Hcv
– Attività fisica: -19/-27 per cento (revisione).
Anche in questo caso potremmo proseguire a lungo, ma ci fermiamo, perché la somma già supera il 100 per cento. Ciò ovviamente non significa che l’adozione di questi comportamenti protettivi e l’evitare quelli a rischio azzeri le possibilità evolutive in tutti gli infetti da Hcv, ma certo queste si riducono in maniera sostanziale.
Purché la sanità investa per informarne la popolazione e dare il necessario supporto per applicare queste misure, a partire da malati e infetti.
Screening dei soggetti asintomatici?
La proposta è corollario della “offerta dei nuovi farmaci a tutti gli infetti” con “obiettivo eradicazione”. Restiamo ai fatti per l’Italia:
– con le risorse attuali il Ssn ha assicurato le cure a 49mila pazienti, cioè circa 40mila pazienti/anno, e potrebbe in circa 4 anni trattare tutti i 160-180mila casi stimati da EpaC (tra cui si concentrano i casi gravi);
– uno screening di popolazione potrebbe far emergere la parte sommersa dell’iceberg, secondo EpaC circa 10 volte più numerosa, di soggetti in prevalenza asintomatici, molti destinati però a restare tali nel resto della vita;
– una volta consapevoli di essere portatori di Hcv e allarmati da informazioni non bilanciate sulla storia naturale dell’infezione e sul peso relativo di comportamenti protettivi o dannosi, molti pretenderebbero l’accesso ai “nuovi farmaci”, aggiungendo la loro pressione a quella dei pazienti noti, e non è chiaro come il Ssn potrebbe oggi farvi fronte. Se lo facesse nei confronti di questi nuovi casi (ai prezzi attuali dei farmaci) stornerebbe ingenti risorse finanziarie da altri programmi, di verosimile maggior rendimento in salute. Se non lo facesse, crescerebbero tensioni e disaffezione per un sistema sanitario nazionale che a parole tutti dicono di voler difendere…
C’è anche la possibilità teorica di imporre ai produttori prezzi di rimborso molto inferiori; ma ammesso che i governi siano in grado di farlo, l’ordine logico dovrebbe essere: prima si ottengono prezzi sostenibili, poi si considera lo screening, non viceversa;
– per non parlare dei rischi (piccoli o grandi) cui si esporrebbero molti portatori senza certezza di avere davvero bisogno di tali farmaci.
I principi da considerare
Fatta salva la garanzia dei nuovi farmaci (ma anche di informazione/prescrizione e supporto competente all’attuazione dei comportamenti protettivi) per tutti i casi già inclusi nei criteri di priorità, non ci sembra irrazionale non affrettare le cure per chi non è in condizione evolutiva verso F3, specie se asintomatico (con alcune ragionevoli eccezioni), in base:
– al principio di precauzione, finché non sia chiaro anche per loro dove si situa il miglior bilanciamento rischi/benefici attesi;
– al principio di solidarietà verso tanti altri assistiti, oggi privi di cure efficaci e possibili per altri problemi, perché le risorse che la società ha assegnato al Ssn non lo consentono (un esempio tra cento, che interessa anche tanti infetti da Hcv, è il fumo, oggi responsabile del 25 per cento circa dei cancri epatici, oltre che di tante malattie con nesso causale certo: 12 tipi di cancro, 6 categorie di malattie cardiovascolari, diabete, Bpco, polmonite, influenza; e inoltre associato a eccesso di mortalità da insufficienza renale, malattia cardiaca ipertensiva, infezioni, cancro prostatico e mammario. Smettere di fumare ha effetti sulla mortalità totale maggiori di quelli da complicanze dell’Hcv, anche nell’insieme dei soggetti cronicamente infetti e fumatori. Ma chi voglia intraprendere un percorso di cessazione (un’indagine Doxa conferma che molti lo vorrebbero) spesso non può contare su supporti competenti di facile accesso, e deve pagarsi farmaci di provata efficacia: Tsn, vareniclina, bupropione);
– al principio di tutela della sostenibilità del nostro Ssn che, da quando è stato istituito, corre oggi i rischi più gravi di deriva privatistico-assicurativa, poiché potenti forze economiche fanno credere che risolverebbe l’accesso a prestazioni oggi razionate in tanti campi.
Siamo infine convinti che il punto di vista di generalisti di sanità pubblica possa ampliare l’orizzonte di specialisti delle discipline implicate e pazienti, in genere molto focalizzati sul loro specifico ambito disciplinare e sui comprensibili timori per la loro specifica condizione. Anche esperti di economia pubblica dovrebbero tenerne conto.
* L’articolo è firmato anche da Alberto Aronica, Franco Berrino, Antonio Bonaldi, Vittorio Caimi, Gianfranco Domenighetti, Giuseppe Fattori, Paolo Longoni, Giulio Mariani, Luca Mascitelli, Ernesto Mola, Alessandro Nobili, Alberto Nova, Gianfranco Porcile, Luisa Ronchi.