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Come cambia il manifatturiero con il lavoro degli immigrati

L’afflusso di manodopera straniera non ha ripercussioni esclusivamente sul mercato del lavoro, ma può anche influenzare le scelte in termini di intensità di capitale umano e fisico, livelli di automazione e specializzazione delle imprese manifatturiere italiane.
NON C’È SOLO IL SALARIO
La letteratura economica in tema di immigrazione si è focalizzata prevalentemente sull’analisi dell’impatto dell’afflusso di lavoratori stranieri sui livelli salariali e occupazionali degli autoctoni, a prescindere dalle relazioni di sostituibilità e complementarietà esistenti tra i fattori produttivi all’interno delle imprese. Solo recentemente alcuni lavori hanno investigato direttamente l’effetto di una maggior disponibilità di forza lavoro straniera sul grado di automazione e di intensità di capitale adottati dalle imprese, nell’ipotesi che l’utilizzo di lavoro straniero influenzi anche le tecniche di produzione e persino le scelte produttive. L’evidenza empirica a tale riguardo è però contrastante: da un lato, l’aumento dell’immigrazione nelle aree metropolitane degli Stati Uniti sembra andare di pari passo con una riduzione della intensità di lavoro qualificato e di capitale della produzione locale. (1) Dall’altro lato, l’aumento degli immigrati nelle province italiane si è tradotto in una crescita degli investimenti fissi delle piccole e medie imprese presenti sul territorio. (2)
In un nostro recente lavoro, l’utilizzo di dati sul numero di lavoratori stranieri impiegati a livello di singola impresa, insieme all’adozione di un modello strutturale che deriva dalla teoria della produzione, ci consente di valutare in modo più diretto il ruolo degli immigrati nell’industria manifatturiera, il loro impatto sulla specializzazione settoriale e sul grado di intensità di lavoro qualificato all’interno dei singoli settori produttivi. (3)
UNO SGUARDO D’INSIEME
L’unica fonte di dati attualmente disponibile in Italia che contenga informazioni sul numero di lavoratori immigrati operativi all’interno delle imprese è l’Indagine sulle imprese manifatturiere realizzata da Capitalia. La banca dati include tutte le imprese manifatturiere italiane di dimensione superiore ai 500 addetti e un campione a rotazione per settore, dimensione e area geografica di tutte le imprese tra i 10 e i 500 addetti. Utilizziamo la IX wave che copre il periodo 2001-2003 e contiene informazioni su 3.264 imprese per un totale di 9.314 osservazioni impresa-anno. (4)
La tabella 1 mostra che circa il 43 per cento delle imprese analizzate impiega lavoratori immigrati; dove sono presenti, questi ultimi rappresentano circa il 10 per cento del totale degli addetti.
Tabella 1
Tabella Bettin

Le imprese che utilizzano lavoro straniero sono localizzate soprattutto nel Nord Italia e sono di piccole e medie dimensioni (al di sotto dei 250 addetti). L’impiego dei lavoratori immigrati risulta meno accentuato nei settori caratterizzati da un’alta intensità di lavoro qualificato, sebbene la differenza con i settori a minore intensità non sia così marcata. (5)
Tenendo in considerazione l’eterogeneità settoriale, geografica e dimensionale delle imprese e del mercato del lavoro locale, le imprese che impiegano immigrati mostrano un livello inferiore di output, di produttività del lavoro, diintensità in lavoro qualificato e di costi totali rispetto alle aziende che ricorrono unicamente a lavoro domestico, mentre il livello di intensità di capitale risulta superiore. Tali imprese pagano mediamente salari più bassi e sono caratterizzate da gap salariali minori tra lavoratori qualificati e non qualificati. La maggiore intensità di capitale, insieme al ridotto impiego di lavoro qualificato, indurrebbe a pensare che i lavoratori extra-UE del campione svolgano per la maggior parte mansioni scarsamente qualificate, complementari all’uso delle macchine.
IL LAVORO STRANIERO NEL PROCESSO PRODUTTIVO
Dalla stima di una funzione di produzione per il nostro campione emerge che il contributo dei lavoratori immigrati alla produzione manifatturiera italiana è assai limitato. L’aumento dell’output derivante da un incremento dell’1 per cento nella disponibilità di immigrati è pari allo 0,2 per cento nel campione totale, con un valore leggermente superiore, pari a 0,22 per cento, nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato e un valore più basso (0,15 per cento) nei settori che utilizzano più lavoro qualificato. Sulla base di tali elasticità, l’aumento nell’impiego di lavoro immigrato osservato nel campione, darebbe luogo a un incremento del 2 per cento del peso dei settori a più alta intensità di manodopera non qualificata nel manifatturiero italiano.
La stima delle elasticità di complementarietà tra fattori della produzione consegna un importante messaggio: lavoro straniero e lavoro autoctono risultano essere complementari e non sostituti. Tuttavia, il risultato va ulteriormente declinato adottando una definizione più articolata del rapporto di sostituzione/complementarietà tra fattori produttivi catturata dall’elasticità di sostituzione di Morishima. Tale indicatore misura la relazione esistente nell’utilizzo di due input produttivi, tenendo conto del fatto che le oscillazioni nei prezzi di uno di essi portano a variazioni delle domande assolute di entrambi i fattori considerati (colte dalle semplici elasticità sopra menzionata), che si traducono in cambiamenti significativi nell’impiego relativo degli input e, dunque, nelle tecniche produttive adottate dalle imprese.
Da questo punto di vista, lavoro domestico e immigrato si configurano come fattori produttivi tra loro sostituti. Da un lato, le imprese tendono a diminuire il rapporto tra lavoratori autoctoni e immigrati per un dato livello di output se i lavoratori immigrati sono disposti ad accettare un salario inferiore. Dall’altro lato, risultano disposte ad aumentare il rapporto immigrati/autoctoni in risposta a un aumento nei livelli salariali dei lavoratori autoctoni, ma solo nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato. In questi settori, dunque, le tecniche di produzione possono consentire un maggior utilizzo di lavoro immigrato di fronte a pressioni salariali degli autoctoni.
I RISULTATI
Più in generale, i risultati rivelano chiaramente un rapporto di sostituibilità esistente tra lavoro qualificato e non qualificato (sia immigrato, che autoctono): quando il costo del primo aumenta, le imprese tendono a riorientare le tecniche produttive verso l’uso più intensivo del secondo. Un aumento dell’impiego di lavoratori immigrati riduce, infatti, il rapporto tra la quantità di lavoro qualificato e lavoro non qualificato utilizzata dalle imprese del manifatturiero italiano, in particolare nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato.
I dati nazionali mostrano che nel 2006 solo il 9 per cento del totale dell’occupazione straniera era impiegata in mansioni qualificate e nel 2008 tale quota era ulteriormente diminuita all’8 per cento. Più in generale, sarebbe interessante analizzare la risposta delle imprese in termini di scelte delle tecniche produttive a fronte di cambiamenti nei costi connessi all’innovazione tecnologica. Se l’innovazione andasse di pari passo con l’aumento dell’intensità di manodopera qualificata nella produzione, i nostri risultati suggerirebbero che i processi innovativi potrebbero essere scoraggiati dalla maggiore disponibilità di lavoro straniero e le imprese potrebbero indirizzarsi in modo più deciso verso la produzione di beni meno sofisticati, con importanti conseguenze in termini di prospettive di crescita di lungo periodo del paese.
(1) Lewis E.G. (2011), “Immigration, skill mix, and capital-skill complementarity”, Quarterly Journal of Economics 126(2), p. 1029-1069.
(2) Accetturo A., Bugamelli M., Lamorgese A.R. (2012), “Welcome to the machine: firms’ reaction to low-skilled immigration”, Temi di Discussione 846, Banca d’Italia.
(3) Bettin G., Lo Turco A., Maggioni D. (2014), “A firm level perspective on migration: the role of extra-EU workers in Italian manufacturing”, Journal of Productivity Analysis.
(4)Capitalia-Mediocredito Centrale (e successivamente Unicredit) a partire dagli anni Novanta ha somministrato su base triennale l’Indagine sulle Imprese Manifatturiere Italiane con lo scopo di monitorare l’andamento del settore manifatturiero con una particolare attenzione alle imprese medie e piccole.
In questo articolo utilizziamo la IX wave di tale indagine, relativa agli anni 2001-2003, in quanto è la sola a contenere una domanda sul numero di lavoratori extra-UE presenti nell’impresa in ogni anno del periodo di riferimento della survey. Sebbene una domanda sull’impiego di lavoratori stranieri sia presente anche all’interno della successiva X wave che fa riferimento al periodo 2004-2006, l’informazione raccolta non copre l’intero triennio oggetto dell’indagine e non riguarda esclusivamente i lavoratori extra-UE ma tutti i lavoratori stranieri, rendendo così difficile il confronto con i dati della wave precedente, relativa al periodo pre-allargamento ad Est dell’Unione Europea
(5) I settori skill intensive includono i settori science-based, scale-intensive e specialised suppliers secondo la classica tassonomia à la Pavitt (1984).

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Oltre al Pil

  1. Massimo Gandini

    non sono un accademico esperto di sociologia , sono un semplice impiegato metalmeccanico che conosce per esperienza diretta quanto descritto nell’articolo. Domanda , quale è l’apporto degli immigrati extracomunitari al sistema manifatturiero italiano? La mia esperienza mi porta a rispondere nel modo seguente, ovvero praticamente nullo per quanto riguarda gli immigrati africani, contenuto ma apprezzabile da parte dei rappresentati della razza dinarica (slavi , romeni, ect…) . Una decina di tecnici e operai specializzati piacentini (la mia città) vale piu di tutta la forza lavoro dell’africa nera subsahariana. Sono sensazioni empiriche ma molto, molto veritiere

    • IC

      Razza dinarica? Parliamo più appropriatamente di immigrati dall’Europa orientale

  2. antonio gasperi

    Grazie alle autrici perché l’analisi dei dati in base alla teoria della produzione (purtroppo rara a livello accademico) è sempre foriera di risultati interessanti. In attesa di dati più aggiornati, mi permetto di suggerire una simulazione dell’ipotesi finale sulla variabile innovazione. Segnalo quello che mi pare un refuso: se esiste un rapporto di sostituibilità fra lavoro generalmente qualificato e non, il fattore che scoraggia l’innovazione non è l’aumento degli immigrati ma l’aumento del lavoro non qualificato tout court.

  3. Andrea Chiari

    Chiedo una cortese risposta agli esperti. Si dice che i lavoratori immigrati svolgono lavori che gli Italiani non vogliono più fare. Ma in una società di mercato se una retribuzione è ritenuta troppo bassa e non si trova personale cosa si dovrebbe fare? Aumentare la paga. Io per duemila euro in fonderia non ci vado (me lo posso permettere), per tremila magari ci faccio un pensiero, per quattromila faccio il sacrificio. Ma se viene un immigrato che lo fa per mille è chiaro che il livello retributivo si abbassa. E, come dite giustamente, l’impresa può essere tentata di privilegiare un incremento di manodopera a basso costo e a bassa specializzazione (un modello più cambogiano che scandinavo) rispetto a un investimento sull’innovazione. Insomma, con una disoccupazione così alta tra i giovani (e non solo) l’immigrazione deprime i salari, rende più difficile per gli Italiani trovare un lavoro dignitosamente pagato e non agevola il miglioramento produttivo. Può darsi che queste riflessioni non sia elegante farle. E siccome sono una persona educata, rispettosa delle persone e di tutte le culture, comprensiva dei drammi dei paesi poveri e milito in una sinistra che sull’argomento ha le antenne sensibili, mi sento un po’ a disagio sull’argomento. Prometto di non dire più queste cose. Temo però che continuerò a pensarle.

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