No, questo breve articolo non inaugura l’avvio per lavoce.info di un filone softcore. Il tema, purtroppo, è più drammatico e preoccupante e riguarda la ripetuta serie di evidenze che, dalle inchieste giudiziarie della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, sono emerse negli ultimi mesi sui labili confini e la distratta tolleranza che in molte attività economiche caratterizzano l’atteggiamento degli “imprenditori“ autoctoni. Si è iniziato con le attività di recupero crediti, affidate ai mezzi convincenti degli ‘ndranghetisti, per poi scoprire che alcuni locali molto noti della movida milanese affidavano i servizi di sicurezza a uomini delle cosche. Per finire con la “banca” che gestiva servizi di riciclaggio, pagamento e usura in grande stile coinvolgendo assieme un capo della locale di Desio, imprenditori avvezzi all’evasione fiscale e al nero, funzionari delle Poste SpA.
Quello che colpisce in tutte queste storie è la contiguità tra imprenditori che operano in una pluralità di settori e gli uomini del crimine organizzato. E la naturalezza con cui si guarda a questi ultimi come soggetti in grado di fornire servizi in alternativa a quanto dovrebbe avvenire secondo le norme di legge. Un recupero crediti certo più rapido e efficace rispetto a quello che una giustizia civile sovraccarica di arretrati è in grado di fornire, pur rendendo collusi a forme di intimidazione e violenza. Mezzi di pagamento che permettono di ripulire il nero accumulato attraverso l’evasione fiscale, stabilizzando un “business model” ai confini della legalità. Finanziamenti che permettono di aggirare le restrizioni bancarie del credit crunch, salvo poi cadere in una tagliola ben più rapace con il vortice dell’usura. Un capitalismo amorale e di vista corta, che affronta le difficoltà della crisi cercando un salvagente per arrivare a domani, chiudendo gli occhi rispetto al cul de sac in cui ci si va a cacciare, accettando la prossimità e la commistione con gli uomini delle organizzazioni criminali.
Il terreno principale dove questo contatto avviene sembra essere quello dell’evasione fiscale, che richiede forme di provvista e di riciclaggio del tutto analoghe a quelle necessarie per ripulire i proventi dei traffici illeciti, e che vede quindi in modo quasi naturale assieme in fila l’imprenditore infedele col fisco e il picciotto che ha lucrato su traffici illeciti. Ma il contatto prosegue perché dai servizi alle imprese che le organizzazioni criminali offrono gli imprenditori infedeli possono ricavare ulteriori elementi che mantengano una competitività altrimenti compromessa, dalla crisi come dalle inefficienze proprie. La zona grigia in cui, con un piccolo compromesso dopo l’altro, ci si trova sempre più a dipendere da queste iniezioni illegali di competitività, si amplia e si colora quindi di sfumature sempre maggiori. E sembra offrire, nelle dichiarazioni dei magistrati sull’omertà che oramai si è diffusa in questo ceto imprenditoriale colluso, una “cultura aziendale” che giustifica, depotenzia, accetta, l’aiuto che le organizzazioni criminali possono offrire al galleggiamento delle proprie attività nei tempi bui della crisi. Salvo accorgersi, troppo tardi, di essere ormai diventati degli ostaggi.

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