Non cresciamo da oltre un decennio, la disoccupazione e’ salita al 10,8 per cento, fra i giovani supera il 35 per cento. Le ammnistrazioni pubbliche intermediano la metà di quanto il paese produce, evidentemente senza riuscire ad incidere sulla crescita. Per finanziare questa spesa, spesso inefficiente, per farlo hanno portato la pressione fiscale oltre il 50 per cento. Quarant’anni fa era poco sopra il 30 per cento e il paese creceva. Nello scorso decennio abbiamo avuto governi di centro-destra, centro-sinistra. Tecnici, ma i segni di un’inversione di tendenza non si sono visti. A me pare evidente che occorre ripensare il modo radicale al funzionamento della nostra società. Per questo mi preoccupano molto alcune affermazioni di Pierluigi Bersani, il possibile futuro presidente del consiglio.
La scuola è uno dei cantieri da cui partire. Bersani evidentemente lo condivide, ma quando parla di riforma premette che non bisogna “dare schiaffi agli insegnanti, anzi, la riforma  deve partire dalla considerazione del ruolo, della dignità dell’importanza degli insegnanti”. Ci mancherebbe altro. E tuttavia sono parole in codice, che contengono un messaggio chiaro per i sindacati della scuola: non preoccupatevi, con me non avrete sorprese. Con queste premesse la scuola non si riformerà mai. Qualunque analisi, qualsiasi confronto internazionale dimostra che una scuola che funzioni deve avere presidi che hanno il potere di scegliere i loro insegnanti, e se questi non sanno insegnare, o quando accumulano assenze ingiustificate, cambiarli. E premiare quelli, la maggior parte, che invece lavorano seriamente. Questo oggi non è possibile perchè la selezione degli insegnanti e la gestione della scuola sono sostanzialmente co-gestiti con i sindacati il cui unico scopo è difendere sempre e comunque l’insegnante, anche se si dà malato un giorno su tre, anche si in classe legge il giornale. E si oppongono a qualunque differenziazione di stipendio basata sul merito.
Sull’università Bersani lamenta i 15mila studenti universitari in meno e attribuisce la caduta nel numero degli studenti universitari alla recessione: “le loro famiglie non hanno i soldi per mandarli all’università”. Siamo sicuri che questo paese davvero abbia bisogno di più laureati? Io non lo so, ma prima di affermarlo mi chiederei se il sistema tedesco dell’apprendistato che accompagna i giovani dalla scuola al lavoro non sia più efficiente di un’università che produce migliaia di laureati in Scienze della comunicazione. I poveri non possono permettersi di mandare i figli all’università? Certo, ma il motivo è anche che gli stessi poveri, con le loro tasse, pagano l’università sostanzialmente gratuita per i figli dei ricchi. Bersani tace su questo punto centrale: è disposto ad alzare le rette facendo pagare alle famiglie con reddito medio il costo di un anno di studi (7mila euro), ai ricchi di più, e usare questi soldi per borse di studio per i poveri? (con il vantaggio che chi paga almeno il costo del servizio ha un incentivo ad esigere che la qualità del servizio sia almeno soddisfacente). Leggete che cosa scrive l’Andu, il sindacato dei docenti universitari, sull’aumento delle rette e capirete che un governo Bersani non lo farà mai.

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