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COEFFICIENTI: TUTTO DA RIFARE

Il decreto Salva Italia impone di rimetter mano ai coefficienti di trasformazione utilizzati per calcolare la prima annualità di pensione. Perché quelli in vigore per il triennio 2010‑2012 riguardano le sole età da 57 a 65 anni, mentre da gennaio serviranno anche quelli da 66 a 70. L’occasione non dovrebbe essere perduta per correggere un meccanismo di revisione profondamente sbagliato, con coefficienti che si rivelano iniqui sia in senso inter‑generazionale sia in senso intra‑generazionale. Ma occorre far presto.

“Progettare un buon sistema pensionistico” è il titolo emblematico della bella lezione che Peter Diamond tenne in Banca d’Italia il 18 giugno 2004. Nella discussione che seguì, gli fu chiesto perché il sistema italiano fosse così disorganico e incoerente. Essendo solo un economista importante e non anche un esperto di politica italiana, Diamond avrebbe potuto sottrarsi. Invece, avanzò un’ipotesi di spiegazione preceduta da una premessa. La premessa fu che i ponti devono essere progettati dagli architetti e dagli ingegneri, come i sistemi pensionistici dagli economisti e dagli attuari. L’ipotesi fu che, in Italia, potesse essere andata diversamente.

PROGETTARE ANZICHÉ IMPROVVISARE

Diamond non intese certo proporsi come il campione della tecnocrazia. Volle solo segnalare che i sistemi a ripartizione (molto più di quelli a capitalizzazione) sono architetture complesse che devono essere ispirate da una definizione condivisa di equità, ma soprattutto resistere alle turbolenze ambientali, sia economiche sia demografiche. La politica deve assumere la decisione finale, ma senza pretendere di progettare lei stessa.
Nel mondo le cose vanno generalmente così. Ad esempio, per realizzare l’abortita riforma della Social Security, il Presidente Bush aveva insediato una commissione di cui Diamond faceva parte. La riforma contributiva svedese fu disegnata da una Pension Commission che lavorò cinque anni, due dei quali per preparare le linee guida, approvate dal Parlamento nel 1994, e tre per scrivere il testo “operativo” approvato nel 1997 (ed entrato in vigore l’anno dopo). I sofisticati “sistemi a punti” adottati dalle più recenti riforme tedesca e francese sono stati parimenti progettati da commissioni di esperti che hanno lavorato a lungo.
La tradizione italiana è affatto diversa. In tempi di vacche grasse, la politica improvvisava favori per generare consenso. Da quando le vacche sono magre, i governi intervengono con l’acqua alla gola per fare cassa. In entrambe le fasi, i provvedimenti sono stati parziali e disorganici.

CI PROVÒ LA RIFORMA DINI

Fece eccezione l’ambiziosa riforma del 1995 che provò a riprogettare la ripartizione per garantire la sostenibilità “strutturale” e per fare spazio a una nuova idea di equità, definita come equivalenza attuariale fra i contributi e le prestazioni di ciascuno. (1) Ma le condizioni ambientali e lo scarso tempo disponibile consentirono un risultato mediocre, come concorda Piero Giarda in un articolo su Economia Politica del 1998. (2)
In verità, la riforma Dini è disseminata di errori grossolani a nessuno dei quali è stato fin qui posto rimedio. Abbiamo già discusso qui quello che riguarda il meccanismo di indicizzazione (Pensioni, un buon inizio. Ma c’è altro da fare). Un altro è la revisione decennale dei coefficienti di trasformazione che sono moltiplicati per il montante contributivo per generare la prima annualità di pensione. La legge 247/2007 ritenne di passare da dieci anni a tre; il decreto “Salva Italia” da tre a due (a partire dal 2022). Se ne deduce che il legislatore italiano sembra convinto che “sia bene” ridurre l’intervallo. Ma non è così. La soluzione tecnicamente corretta è ben altra.

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LA REGOLA DI REVISIONE: COME DEV’ESSERE

Nel modello contributivo, il coefficiente di trasformazione è il “guardiano” dell’equivalenza attuariale. Per far bene il mestiere, deve essere inversamente commisurato alla durata della pensione (a durate minori devono corrispondere coefficienti maggiori). A sua volta, la durata diminuisce con l’età al pensionamento e (in presenza di longevità crescente) aumenta con l’anno di nascita. L’ovvia conclusione è che il coefficiente deve essere funzione di due variabili indipendenti anziché di una soltanto.
Il meccanismo di revisione deve allora conformarsi al seguente protocollo:

  • alla vigilia di ogni anno solare, la coorte in procinto di compiere l’età pensionabile minima riceve i “propri” coefficienti (crescenti per età) che ne riflettono la longevità al meglio perché calcolati sull’ultima tavola di sopravvivenza disponibile;
  • i coefficienti sono assegnati a titolo definitivo nel senso che la coorte destinataria non sarà riguardata dalle assegnazioni successive, unicamente destinate a quelle più giovani.

In Svezia, dove l’età pensionabile va da 61 a 67 anni, i nati nel 1951, che compiranno 61 anni nel 2012, hanno appena ricevuto i loro sette coefficienti (calcolati sulla tavola di sopravvivenza rilevata nel 2010).
Con la stessa modalità, le coorti nate negli anni dal 1945 al 1950 (che nel 2012 saranno in età compresa fra 62 e 67 anni) hanno progressivamente ricevuto i rispettivi coefficienti fra il 2005 al 2010. In totale, nel 2012 saranno in età di pensione sette coorti ciascuna delle quali è assegnataria di sette coefficienti.

I DISASTRI DELLA REGOLA ITALIANA

In Italia, la legge 247 prevede coefficienti che restano in vigore per un triennio durante il quale sono applicati erga omnes, cioè indipendentemente dall’anno di nascita. Pertanto, i coefficienti entrati in vigore nel 2010 resteranno “in carica” fino a tutto il 2012 (sia pure con le integrazioni previste dalla manovra).
I coefficienti erga omnes all’italiana sono iniqui in due sensi. Lo sono in senso inter‑generazionale perché la tavola di sopravvivenza su cui sono calcolati (e perciò la longevità che essa esprime) è indifferentemente imputata a soggetti nati in anni diversi che vanno in pensione nello stesso triennio. Lo sono in senso intra‑generazionale perché tavole (di longevità) diverse sono imputate a soggetti nati nello stesso anno che vanno in pensione in trienni diversi. Ad esempio, tra i nati nel 1950, chi andrà in pensione nel 2012 (a 62 anni) “avrà diritto” a una tavola di maggior favore rispetto a chi vorrà farlo (a 63 anni) nel 2013. (3)
Oltre che iniqui, i coefficienti erga omnes creano disagio sociale ostacolando la programmazione del pensionamento. Senza contare che ogni revisione si traduce in un formidabile incentivo all’anticipazione del pensionamento mettendo a rischio l’aumento di pensione cui è finalizzata la scelta di restare in attività.
L’Italia non ha la Pension Commission. Tuttavia, il destino le ha riservato un ministro del Welfare “specialista” che vorrà consegnare al paese uno schema contributivo finalmente autentico.

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(1) Per una ricostruzione storica dell’avvento dello schema contributivo in Italia, vedi C. De Vincenti (2008) “Risalendo alle origini”, in Uil, I coefficienti di trasformazione nel sistema contributivo, Atti di convegno, Roma.
(2) Vedi P. Giarda, (1998), “La Revisione del sistema pensionistico nel 1997: come avrebbe potuto essere”. Economia Politica: Rivista di Teoria e Analisi, XV, 2.
(3) Per saperne di più, vedi il contributo dello scrivente sul numero di ottobre 2007 di Arel Europa Lavoro Economia.

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LE SOCIETÀ E I RISCHI DEL SINDACO UNICO

  1. TRAVERSO MAURO

    come descritto è indispensabile aggiornare il sistema coefficenti di trasformazione in base alle nuove norme sul diritto alle pensioni, che a regime sarà unicamente all’età di 70 anni (circa nel 2021) visto la scaletta dell’aumento requisiti coniugata con l’aggiornamento dell’esistenza in vita. Questo sistema secondo il mio parere ha il difetto della rigidità a regime. Visto che il sistema contributivo dovrebbe essere in equilibrio visto che si fonda sui contributi versati e sull’età di pensionamento ( a parità di contributi versati se vai in pensione più giovane prendi memo se vai più anzinano prendi di più) assomiglia alle polizze vita che corrispondono un vitalizio sulla base dei premi versati e delle tabelle attuariali per il calcolo della rendita. Forse si può avere un sistema flessibile tipo da 60 a 70 anni modulato secondo i coefficenti: tipo una scala 60- 61- 62- 63- 64- 65- 66- 67- 68- 69- 70 0,50%-1,00%-2,00%-3,00%-4,00%-5,00%-6,00%-7,00%-8,00%-9,00%-10,00% ovviamente è un esempio da sistemare per compatibilità economica con quanto la manovra si prefigge di ottenere. Spero di essermi spiegato. Grazie

  2. Bruno

    Si leggono molte cifre e non si sa più a chi credere. Ultima speranza è affidarsi ad un’autorità indipendente che dia le cifre giuste, altrimenti ognuno dà le sue di cifre. E’ vero che le spese pensioni sono calcolate al lordo da noi ed al netto all’estero? E’ vero che i contibuti non sono uguali per tutte le categorie? E’ vero che tutte le casse non sono in equilibrio? E’ vero che da noi si mescola la spesa per pensioni con la spesa per assistenza? E’ vero che il sistema, INPS almeno, era in equilibrio prima della riforma di dicembre? Se è vero che una dose di squilibrio era dovuta alle cosiddette baby pensioni, leggo 500.000, perchè non fare pagare un contributo sul pregresso anzichè gravare il tutto sul maturando?

  3. alfio

    Scusate ma se uno inizia a 15 anni a lavorare (non per divertimento ), perchè dopo 40 / 43 anni di lavoro deve essere penalizzato , perchè viene considerato troppo giovane. Perchè non gli è stata data la possibilità di studiare (uno quando iniziava a 15 anni a lavorare è perchè non poteva studiare e lo stato non è intervenuto per aiutarlo.) adesso deve lavorare di più per i giovani d’oggi per il loro futuro. Anche io avrei voluto iniziare a 24 anni magari come Dott. / Ing. / Notaio ecc. Faccio ricordare nel 70 occoreva molta manodopera per far crescere l’azienda Italia. Ma non si ricorda nessuno? Non c’erano tanti numeri o tabelle a dirci che saremmo stati i p’iù fregati da tutti quelli a cui noi abbiamo permesso di studiare perchè la nostra manovalanza a permesso ai loro padri di farli studiare.

  4. Federico Salari

    Non vorrei fare un commento, perchè l’articolo è troppo tecnico. Vorrei porre al Prof. Gronchi una semplice domanda: io, leggendo anche gli scritti della Fornero,ho capito che con il sistema contributivo viene assicurata equivalenza tra contributi e prestazioni, di modo che si riceve ciò che si è accumulato, con interessi.Non c’è insomma il premio del retributivo che va a carico di terzi. Stando così le cose, è connaturata al metodo contributivo la possibilità di scegliere il momento del ritiro dal lavoro. Io credo fermamente, prendendo spunto da una proposta della Fornero divulgata prima che assumesse la carica ministeriale, che la riforma avrebbe dovuto prevedere, per i colpiti dalle nuove regole, la facoltà di optare per il calcolo di tutta la pensione con il contributivo, consentendo l’accesso alle prestazioni all’età prevista dalle norme anteriori (finestra compresa). La facoltà di opzione è rimasta ancora per le donne (e forse per i c.d. “misti” ). E’ una “fesseria” invocare per tutti una disposizione del genere, che darebbe una via di uscita anche alle situazioni di disoccupazione non tutelabili dal comma 14 dell’art.24 ?

  5. fabrizio

    Che siano pure formule magiche a stabilire la migliore sostenibilità ed equità del sistema, ma alla fine il problema fondamentale è e sarà sempre quello di andare in pensione con risorse sufficienti per almeno sopravvivere. I salari non possono aumentare? I contributi anche? e allora? Non c’è altra via di uscita di quella fondata sulla solidarietà a partire dal vero cancro del debito pubblico, lo sperpero di risorse della politica. Fate due conti, non è difficile. Equità non basta. Alla fine si tratta di tutelare i più deboli che adempiono totalmente ai loro doveri con il lavoro che hanno. Gli altri adempiono ai loro? Le teorie economiche solo parole.

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