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Dalla scuola al lavoro: il tempo perso dai giovani italiani

Eurostat dice nove mesi, ma l’Ocse calcola che a un laureato italiano servano quasi quattro anni per trovare un lavoro stabile. E in più, prima, ha impiegato molto più tempo per arrivare alla laurea rispetto ai coetanei europei. Così si accumulano differenze di capitale umano difficilmente colmabili.

La transizione scuola-lavoro secondo Eurostat
Uno degli indicatori più semplici da concepire e anche più convincente per misurare il grado di efficienza della transizione scuola-lavoro è senz’altro la sua durata. Non è, però, il più facile da calcolare, nonostante la sua importanza, perché come per tutti gli indicatori relativi alle transizioni scuola-lavoro, manca la base di dati necessaria.
Di recente, l’Eurostat ha fatto un tentativo serio di misurazione della durata della transizione in tutti i paesi europei sfruttando due moduli ad hoc annessi al questionario dell’indagine europea sulle forze di lavoro.
L’Italia è agli ultimi posti, ma la sensazione è che la situazione sia ancora peggiore di quella illustrata da Eurostat.
I dati disponibili, così come riprodotti nella figura 1, si soffermano solo sui valori medi per paese e per livello di istruzione. Inoltre, si concentrano sulla transizione al “primo posto di lavoro significativo”, intendendo con ciò uno della durata di almeno tre mesi e, quindi, non necessariamente un lavoro a tempo indeterminato.
La figura mostra che ci sono forti differenze fra paesi e i “più lenti” sono quelli dell’Europa meridionale e orientale. Con una media di tempi di attesa di nove mesi circa, l’Italia è seconda solo alla Grecia in termini di durata della transizione per i laureati. Per i diplomati è settima, con un tempo di attesa medio di circa 13,5 mesi.
Figura 1 – Durata media della transizione dalla scuola al lavoro per livello di istruzione (2009)
pastore
Fonte: Eurostat.
I problemi dei giovani italiani
La figura sottostima ampiamente la durata complessiva delle transizioni scuola-lavoro in Italia. Ci sono almeno due fattori importanti da tenere in considerazione se si vuole fare un calcolo più realistico. In primo luogo, l’Eurostat considera lavori anche di tipo temporaneo, ma ciò potrebbe non costituire davvero la fine della transizione al lavoro per molti giovani, che continuerebbero a cercare un lavoro permanente. Con le riforme del mercato del lavoro e la diffusione del lavoro temporaneo, si è interrotta la durata della disoccupazione, ma non la durata della transizione a un lavoro a tempo indeterminato. Un autorevole studio dell’Ocse riporta che in Italia la durata della transizione dal sistema di istruzione a un lavoro a tempo indeterminato è pari a 44,8 mesi, cioè quasi quattro volte di più della stima Eurostat.
La principale, ma certamente non l’unica, ragione di questa maggiore durata è la mancanza nei giovani di abilità professionali sufficienti a spingere le aziende ad assumerli a tempo indeterminato. A sua volta, la carenza è dovuta, tra l’altro, alla mancanza di occasioni per acquisire esperienza lavorativa sia durante il percorso scolastico o universitario sia anche dopo, in azienda.
In secondo luogo, la durata della transizione dovrebbe essere pesata per il tempo che è necessario per ottenere un diploma di laurea, uno dei più lunghi al mondo. Anche perché, secondo i dati del ministero dell’Istruzione, circa il 50 per cento degli studenti che si iscrivono all’università abbandonano senza completare il percorso di studi. Tuttavia, molti di loro restano iscritti per anni e, talvolta, riescono ad arrivare alla laurea seppure dopo un periodo di tempo lunghissimo. Circa il 40 per cento dei laureati consegue il diploma con un ritardo compreso fra uno e dieci anni rispetto al percorso curriculare previsto dal 3+2. Secondo i dati AlmaLaurea, l’età media alla laurea per gli studenti che iniziano l’università a 18 anni è di 24 anni per chi ha intrapreso il percorso triennale e di 26,1 anni per chi sceglie anche la specialistica.
La ragione principale, ma certo non l’unica, è l’alto costo dell’istruzione terziaria, che dipende, a sua volta, dalla scarsa preparazione del sistema universitario al passaggio a una università di massa. Troppi giovani vanno all’università senza un’adeguata preparazione di partenza, la frequenza dei corsi è bassissima, i programmi sono troppo ampi, vi sono alcuni esami quasi insuperabili (cosiddetti “esami scoglio”), a causa del carico didattico in eccesso rispetto a quello previsto dai relativi crediti formativi, e così via.
Appare chiaro che guardare solo al valore medio e alla transizione a un lavoro a tempo indeterminato potrebbe non essere pienamente soddisfacente, in particolare se si considera la sola transizione verso qualunque tipo di lavoro. Nessun giovane, infatti, riterrà di aver compiuto la transizione scuola-lavoro fermandosi al primo impiego che gli capita, magari temporaneo, a progetto o occasionale.
Ciò significa che se un giovane si laurea con la laurea magistrale a 27-28 anni, deve calcolare che trova un lavoro più o meno stabile verso i 32-33 anni, sulla base dei 45 mesi circa di transizione calcolati dall’Ocse. In Inghilterra, ci si laurea a 21 anni circa e si trova un lavoro stabile a 21,5 anni. A 32-33 anni, il coetaneo inglese del giovane italiano ha già acquisito dieci anni di esperienza lavorativa e il suo capitale umano è nettamente superiore a quello di un italiano della stessa età.

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  1. Miguel

    «La principale, ma certamente non l’unica, ragione di questa maggiore durata è la mancanza nei giovani di abilità professionali sufficienti a spingere le aziende ad assumerli a tempo indeterminato.». Ma se i giovani italiani sono così scarsi, perché poi vengono assunti da aziende estere? Le possibilità che vedo sono quattro: (1) prima del Job Act, in Italia era difficilissimo liberarsi di un dipendente mentre all’estro no (2) molte PMI italiane non sanno capire il valore delle persone (3) molte PMI italiane hanno un business che non richiede grandi competenze (4) fuori dall’Italia gli imprenditori sono idioti. Ora, escludiamo la (4) e da qualche mese la (1) non è più vera. Restano la (3) e la (4).

  2. Plinio

    Concordo con Miguel, lavoro in una PMI i cui dirigenti non sono in grado ne di sapere esattamente di quali abilità hanno veramente bisogno, ne di valorizzare quelle presenti. Il fenomeno dei fuoricorso in Italia non si è mai risolto perché l’Università ha bisogno di utenza parcheggiata a pagare le tasse universitarie e a giustificare corsi inutili (magari illudendo con falsità gli studenti).

    • bob

      “…l’Università ha bisogno di utenza parcheggiata..”! Aggiungerei la riforma scolastica dei licei e degli istituti in genere realizzata con l’unico obiettivo di creare “posti di lavoro”. Istituti professionali sovrapposti agli istituti tecnici, per non paralre della vergognosa riforma dei licei con l’istituzione di specialità assurde (liceo scienze applicate, liceo umanistico, et etc) . Viviamo in un Paese in cui senti genitori dire ” l’importante avere un pezzo di carta” la politica demagogica e populista accontenta il popolo. Oggi abbiamo bisogno di creare cultura e non pezzi di carta che poi sappiamo dove vanno a finire ( posti fittizi di Regioni, Enti e altro). Formare un perito chimico oggi basta un corso di 6 mesi e non 5 inutili anni a scaldare sedie, si confonde la preparazione tecnica specifica con la cultura che dovrebbe essere cosa anche personale ( leggere libri, giornali, imparare una lingua). Come disse la mamma di Treviso ” non è importante che mio figlio sappia l’italiano basta che sa l’inglese e il computer” ….i risultati sono sotto gli occhi di tutti !!

  3. Rio

    Precisiamo anche che lo Studio OCSE citato nell’articolo è del Gennaio 2007, quindi pre-crisi ed è basato per lo più su serie storiche 1995 – 2000 (in alcuni casi, con alcuni dati sino a max il 2005). Se fosse ripetuto su dati 2008-2014,racconterebbe una storia molto peggiore, per l’Italia.

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