In Italia difficile da sempre, la transizione scuola–lavoro ha oggi aspetti nuovi. Con i cambiamenti demografici e della struttura produttiva, più che l’ingresso nel mondo del lavoro, sono problematici i percorsi di valorizzazione e stabilizzazione. Anche perché mancano gli incentivi ad hoc. Gli effetti della nuova regolazione del mercato del lavoro sono per il momento marginali. E la difficoltà di adattamento dell’offerta alla domanda sembra quasi “scontata” in anticipo, al momento della scelta del percorso di studio.

Da sempre, la transizione scuola-lavoro dei giovani in Italia è giudicata essere particolarmente difficile: il tasso di disoccupazione giovanile, decisamente più elevato di quello medio (nel 2003 per la classe 15-24 anni, il triplo), non lascia margini di dubbio. Eppure, non si tratta di una situazione “sclerotizzata”. Accanto alla persistenza di antichi problemi, abbiamo anche nuove tendenze da valutare.

I cambiamenti strutturali

Il cambiamento demografico, innanzitutto. Nella dinamica del tasso di disoccupazione giovanile fino alla fine degli anni Ottanta si era riflesso anche il boom demografico e i suoi effetti ritardati nel far crescere l’offerta di lavoro. Ora siamo di fronte a una ben diversa prospettiva: già nel confronto con i primi anni Novanta ci troviamo con tre giovani (15-29 anni) al posto di quattro (per l’Italia significa tre-quattro milioni di giovani in meno) e nei prossimi anni questo rapporto scenderà ancora di parecchio. Il cambiamento della struttura produttiva, in secondo luogo. Chi offre oggi posti di lavoro? Più i servizi che l’industria, molto più le piccole imprese che le grandi, decisamente più il settore privato che quello pubblico, quasi sempre più il Nord che il Sud. Risultato: al Nord il tasso di disoccupazione giovanile è ai minimi storici (Trentino Alto Adige 4,3 per cento, Veneto ed Emilia Romagna attorno all’8 per cento) mentre il tasso di occupazione giovanile, in calo ovviamente per gli under 20 (trattenuto dalla contemporanea crescita dei tassi di scolarizzazione), è in lenta crescita per l’insieme 20-29 anni (al Sud operano le medesime tendenze demografiche, anche se il livello e le caratteristiche della domanda di lavoro sono meno favorevoli). Di conseguenza, nella maggior parte dei contesti territoriali non risulta sussistere un generico problema di transizione dalla scuola al lavoro, quanto piuttosto il riproporsi, in forme nuove, di un’antica fatica: quella di trovare un “buon posto di lavoro” e realizzare un buon “match” tra l’investimento formativo-scolastico fatto, le aspettative coltivate e l’esito occupazionale.  È difficile trattare con i numeri disponibili queste materie e il “materiale di prova” è spesso indiziario. Se assumiamo che ottenere un posto di lavoro a tempo indeterminato sia segnale di un buon match e di un buon posto di lavoro, si può dire che il funzionamento sostanziale del mercato del lavoro italiano è più stabile (nei vizi e nelle virtù) di quanto talvolta si immagina. In Veneto, ad esempio, la probabilità di un assunto di trovarsi a distanza di tre anni occupato con un contratto a tempo indeterminato non risulta variata sensibilmente nel medio periodo. Quasi che l’effetto demografico stia correggendo l’effetto strutturale della riduzione/rinvio di offerta di posti di lavoro “stabili”, vale a dire di contratti di lavoro di lunga durata.

Leggi anche:  Perché ai disoccupati non interessa la formazione

Una difficoltà “scontata”

E la regolazione, allora? Il pacchetto Treu, la legge Biagi? Nei numeri si vede certamente l’effetto dell’interinale, che ha avuto un buon successo d’avvio, ma che poi non è affatto “esploso”. Nonché la sostituzione del vecchio contratto formazione lavoro con l’apprendistato, allungato a fasce d’età più elevata, ma non molto di più. Dei nuovi contratti previsti dalla legge Biagi potremo dire qualcosa, forse, tra due anni. Le modifiche nella regolazione hanno ampliato la batteria disponibile di strumenti di entrata, di certo non semplificandoli, agevolando anche qualche passaggio da situazioni sommerse a situazioni regolari, ma si tratta di interventi al margine e che non siamo in grado di apprezzare nella loro efficacia (o inefficacia). Più che l’entrata nel mondo del lavoro, restano problematici i percorsi di valorizzazione e stabilizzazione. Che non godono di rilevanti incentivi ad hoc: troppo poco abbiamo imparato dall’esperienza del “bonus occupazione”, previsto dalla Finanziaria 2000 per le assunzioni a tempo indeterminato di over 25enni, praticamente chiuso (dato il cospicuo ridimensionamento dell’incentivo stesso) per assenza di fondi, senza alcun’altra valutazione. Come pure, sul versante dell’offerta di lavoro, fa riflettere la discreta inerzia nel tempo della distribuzione degli iscritti all’università per corso di laurea, nonostante sia noto e documentato che alcuni percorsi conducono assai più facilmente di altri a un impiego continuativo e che, in genere, il nostro paese avrebbe bisogno di più diffuse competenze scientifiche. Sembra quasi che, in certa misura, la difficoltà di adattamento dell’offerta di lavoro alla domanda sia quasi “scontata” in anticipo, al momento della scelta del percorso di studio, se non proprio “programmata”. Almeno in parte, è questo un problema che si potrebbe provare a contenere: forse l’offerta di formazione potrebbe pilotare di più la domanda. Anche se è vero che, al dunque, non si possono immaginare i posti di lavoro disponibili nel mercato come una sorta di gigantesca “pianta organica” (pre-esistente all’incontro tra lavoratore e impresa) dove si tratta di individuare i buchi vuoti e riempirli: nell’economia dei servizi e delle piccole imprese spesso il posto di lavoro stabile nasce dopo il concreto incontro tra un’impresa e un lavoratore, e ciò comporta inevitabilmente percorsi più accidentati, mobilità più elevata, job shopping eccetera, ritornando così all’esigenza di ridisegnare, per questo scenario, gli ammortizzatori sociali.

Leggi anche:  Carriere nella pubblica amministrazione: tanta anzianità, poco merito*

 

VENETO*. Settore privato. Lavoratori assunti e loro condizione lavorativa a tre anni di distanza: confronto tra 1997 e 2000

Numero lavoratori assunti nell’anno

Quota % occupati nel settore privato a distanza di tre anni

Distr. % dei lavoratori secondo la condizione contrattuale dopo tre anni

Contratto formativo

Contratto a termine

Contratto a tempo indeterminato

1997

Maschi

64.645

72,5

12,1

17,9

70,0

Femmine

50.196

68,6

10,7

25,0

64,2

Totale

114.841

70,8

11,5

20,9

67,5

2000

Maschi

72.209

69,1

10,5

18,2

71,2

Femmine

61.164

65,5

12,0

24,1

63,9

Totale

133.373

67,5

11,2

20,9

68,0

Fonte: elaborazione Veneto Lavoro su dati riferiti a 24 Centri per l’impiego (su 40) (cfr. de Angelini, Dai rapporti temporanei all’occupazione stabile: un percorso sempre più incerto?, in www.venetolavoro.it)

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  I contratti pirata? Ecco dove si trovano