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Come cambia la governance delle università italiane

A quattro anni dalla discussa riforma Gelmini, l’attenzione si concentra sugli effetti del nuovo sistema di reclutamento e valutazione dell’Anvur. Tre articoli sugli effetti attesi e inattesi della riforma.

La “riforma Gelmini” dell’università è stata fortemente voluta da una parte dello schieramento politico e accademico e violentemente osteggiata da un’altra. Oggi l’attenzione è concentrata sugli effetti del nuovo sistema di reclutamento e della valutazione della ricerca condotta dall’Anvur.
Ma l’obiettivo chiave della riforma del 2010 era di cambiare la governance delle università italiane, verticalizzando i processi decisionali e semplificando gli assetti organizzativi degli atenei per aumentarne l’efficienza. L’obiettivo è stato raggiunto? E in quali modi? Una ricerca condotta da Unires sui sessantasei atenei statali italiani consente di dare alcune risposte a queste domande. Ecco tre articoli che discutono effetti attesi e non attesi della riforma.

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Il Punto

  1. rosario nicoletti

    Le critiche di Capano e Regini, chiare, documentate e perfettamente condivisibili non differiscono da quelle formulate in precedenza, all’apparire della riforma Gelmini. In particolare, vorrei richiamare quanto scritto su Noisefromamerika nel post “Tanto tuonò che piovve”, dove veniva criticato il ruolo che avrebbe assunto il Rettore. La riforma della quale si parla è nata da una analisi confusa e contraddittoria sulla governance passata ed ha generato una “verticalizzazione” di tipo dittatoriale, senza contrappesi, ed affidata al singolo. C’è da augurare “buona fortuna” all’università italiana.

    • Amegighi

      Condivido in pieno. Aggiungerei la nostra cronica incapacità a gestire le cose come squadra dove ognuno sa cosa fare e se ne assume la responsabilità. Osservo invece la totale mancanza di un lavoro di “squadra” che dovrebbe essere il cardine nel funzionamento di ogni Dipartimento, come ben sanno coloro che ne hanno conosciuto la struttura e funzionamento all’estero. I Dipartimenti attuali sono degli “agglomerati” di Ssd in cui spesso si riesce a malapena a intravvedere una logica unificante. Le varie Commissioni e i vari organi gestionali sono aree di discussione in cui difendere le logiche degli Ssd piuttosto che del Dipartimento. La didattica è relegata (per gran merito della legge che ne ha completamente sminuito il valore nell’avanzamento di carriera) all’ultimo posto solo come patrimonio di Cfu da giocare nelle spartizioni di budget. I gruppi di ricerca pensano solo ed unicamente a loro stessi e non esiste neanche lontanamente una logica di aggregazione multidisciplinare attorno a comuni aree di ricerca, talché osserviamo gruppi di ricerca sulla stessa identica tematica appartenenti a differenti Dipartimenti che si occupano delle stesse aree di ricerca. Io non credo che l’Italia abbia così tanti soldi per la ricerca e l’Università come l’America o la Germania, da permettersi tale spreco e disorganizzazione. Auspico che i Rettori inizino ad utilizzare l’enorme potere che hanno per bloccare un simile degrado e per mettere un po’ di ordine in un simile disordine, ma osservo nei loro movimenti più una logica concertativa (con le persone che interessano) piuttosto che un’azione pragmatica.
      Risultato: un disastro didattico e probabilmente scientifico di cui soffriremo per lungo tempo. Del resto temo (raramente smentito in questo) che tutta questa riforma avesse solo lo scopo di affossare definitivamente l’Università italiana, vista non come un patrimonio da migliorare, ma piuttosto come un male da estirpare politicamente (per colpe anche interne all’Università). Ci sarebbe stato il modo per “spingere” concretamente a migliorare: togliere il valore legale al titolo di studio e costringere le Università ed entrare pienamente in concorrenza. Ma per ovvi motivi non è stata scelta questa via.

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