LA VERTICALIZZAZIONE PREVISTA DALLA LEGGE 240

La riforma Gelmini aspirava a cambiare radicalmente le caratteristiche degli assetti di governo delle università italiane. In particolare, intendeva rafforzare le capacità di governo degli atenei al fine di superare quelle caratteristiche (il bicameralismo simmetrico, la logica corporativa e distributiva dei processi decisionali interni, l’incapacità a prendere decisioni strategiche) che erano ritenute una delle concause del loro cattivo funzionamento e dei loro risultati insoddisfacenti.
I pilastri su cui si fondava questo disegno sono contenuti in quei commi dell’articolo 2 della legge 240/2010 che stabiliscono:
– il rafforzamento del ruolo del rettore che, nella configurazione complessiva del governo degli atenei perde, almeno dal punto di vista formale, la sua caratteristica di primus inter pares per diventare un vero e proprio capo dell’esecutivo;
– una composizione del consiglio di amministrazione non superiore a undici membri, con un numero minimo di“esterni”;
– unacomposizionedelsenatoaccademicononsuperiorea trentacinque membri,conunapresenzadialmenounterzo di direttori di dipartimento;
– una ripartizione dei poteri che, almeno sulla carta, mira a far cessare lo storico bicameralismo simmetrico tra Cda e senato accademico, attribuendo la gran parte dei poteri decisionali ultimi al consiglio di amministrazione.

IL PRESIDENZIALISMO UNIVERSITARIO

L’idea di fondo del legislatore era, pertanto, quella di introdurre anche in Italia la verticalizzazione della governance istituzionale che, prendendo spunto dai paesi-anglosassoni, era stata via via adottata in molti paesi europei (Olanda, Danimarca; Austria; vari Lander tedeschi; Svezia, Norvegia).
La prima attuazione della legge Gelmini, per quanto emerge dalla ricerca Unires, mostra però come le finalità perseguite dal legislatore di trasformare le università in corporate actors siano ancora lontane da essere raggiunte e che, anzi, potrebbero essere in via di progressiva distorsione.
Infatti, dai dati che abbiamo raccolto, emergono alcuni elementi estremamente problematici.
Il primo è un ruolo eccessivo del rettore nel processo di composizione del Cda (organo che, secondo la legge 240, dovrebbe essere il pianificatore strategico e il decisore ultimo delle politiche degli atenei). Su cinquantanove università prese in considerazione, in trentatré il rettore nomina direttamente tutti o una parte dei membri del Cda.

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Tabella 1 – Il ruolo del rettore nella nomina diretta dei membri del Cda

Cattura

* Non hanno partecipato all’indagine l’Università di Salerno e il Politecnico di Bari. Inoltre, non sono qui conteggiate le tre Scuole superiori e i due Istituti di alta formazione dottorale.

Se poi si considerano anche quelle procedure che consentono al rettore di avere un ruolo indiretto nel processo di composizione del Cda (potere di nominare la commissione di selezione, potere di designare la rosa dalla quale il Senato sceglie), emerge che solo in nove atenei sui cinquantanove analizzati il rettore non ha alcun ruolo evidente.
Il secondo elemento di preoccupazione è il fatto che in solo due atenei su cinquantanove il presidente del Cda sia un “esterno”, come consentito dalla legge 240, invece del rettore, e che in solo due atenei il presidente del Senato sia un membro dell’organo diverso dal rettore.
Si rileva poi una articolazione statutaria dei poteri del senato che tende ad attribuire a questo organo competenze (seppur sotto forma di pareri) su tematiche che dovrebbero essere di esclusivo appannaggio del Cda.
Altro elemento critico è la grande frammentazione del governo degli atenei: in quasi la metà dei casi analizzati la “squadra” del rettore è composta da almeno quattordici elementi. Unita a una bassa istituzionalizzazione delle sue attività: solo in poco più della metà degli atenei analizzati il rettore riunisce la sua squadra a scadenze prefissate, e in pochissimi casi vengono redatti verbali delle riunioni.
Infine, si riscontra una certa opacità dei processi decisionali, in relazione alla possibilità che tutti imembridellacomunitàuniversitariapossanoconoscerenonsologliordinidelgiornoegliesitidecisionali,maancheilcontenutodelle discussioni (funzioni che nel sistema precedente erano spesso svolte dai presidi delle facoltà).
Nel complesso, i dati istituzionali e organizzativi che abbiamo raccolto mostrano che il nuovo disegno della governance degli atenei è caratterizzato da una profonda asimmetria nella distribuzione dei poteri tra il rettore, il Cda e il senato. Tale asimmetria può essere foriera di una serie di conseguenze non previste: il ruolo del rettore in quanto dominus dei processi decisionali (un unicum ancherispetto a quei paesi in cui la governance istituzionale è stata verticalizzata) limita in modo consistente quello che dovrebbe essere il ruolo istituzionale del Cda e riduce la possibilità del senato di assumere, consapevolmente, il suo ruolo di organo di rappresentanza della comunità universitaria.
L’assetto istituzionale che sta emergendo tende a un modello personalista e personalizzato in cui a fare la differenza sono soprattutto le caratteristiche individuali di chi viene eletto rettore. Un sistema in cui l’accountability istituzionale (proprio quella caratteristica che si intendeva migliorare con la riforma) rischia di rimanere piuttosto scadente. E senza una forte accountability, l’esercizio dell’autonomia istituzionale è foriera sempre di esiti sub-ottimali. Quello che sta emergendo, in sostanza, è una specie di presidenzialismo universitario all’italiana, che ha poco a che fare con quelle esperienze straniere (alle quali ha cercato, forse malamente, di ispirarsi il legislatore) in cui il ruolo del rettore è indubbiamente forte, ma è anche vigorosamente controbilanciato dai poteri del consiglio di amministrazione.

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