Ogni anno l’Italia spende miliardi in progetti finanziati dai fondi strutturali europei, eppure non abbiamo la minima idea dei loro effetti. Inevitabilmente, questa spesa è sfuggita di mano, come dimostra il caso italiano. Un estratto dall’Ebook.
(Una versione più lunga e completa di questo articolo è scaricabile gratuitamente qui)
I FONDI STRUTTURALI: UN FIUME DI DENARO IN PIENA
Nel 2012, l’Italia ha versato all’Unione Europea 16 miliardi di euro, e ne ha ricevuti 11 miliardi. Di questi, 3 miliardi riguardano i fondi strutturali che I’UE distribuisce alle regioni meno sviluppate. I fondi strutturali destinati all’Italia consistono essenzialmente in due veicoli: il Fondo Sociale Europeo (FSE), che si occupa prevalentemente di formazione, sussidi al lavoro, inclusione sociale, e il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR), che si occupa prevalentemente di sussidi alle imprese e infrastrutture. La Tabella 1 riassume queste cifre.
Tabella 1. Flussi finanziari fra l’Italia e l’Unione Europea
Fonte: European Commission: Financial Programming and Budget. Dati in miliardi di Euro
Il nuovo ciclo di programmazione europeo per il settennato 2014-20 prevede un’allocazione di fondi strutturali all’Italia di 41 miliardi, di cui oltre 24 solo alle regioni del Mezzogiorno (si veda la Tabella 2) . Questa cifra va raddoppiata con la quota di co-finanziamento italiano. Si tratta quindi di un fiume di denaro.
Tabella 2. La nuova programmazione europea, 2014-20
Fonte: Accordo di Partenariato, pp. 235-8. Dati in miliardi di Euro.
Ogni euro di fondi strutturali che riceviamo ci viene dunque a costare due euro: un euro che dobbiamo versare all’Unione Europea, e un euro che dobbiamo mettere come cofinanziamento. Quindi, contrariamente a quanta si crede, i fondi strutturali sono tutti pagati, e due volte, dal contribuente italiano.
L’ATTUAZIONE DISASTROSA DEL CO-FINANZIAMENTO
In linea di principio, il co-finanziamento è un’ottima idea. Esso è un modo per coinvolgere il beneficiario, per assicurarsi che abbia un interesse nel progetto e abbia quindi gli incentivi giusti a portarlo avanti nel modo più efficace possibile. Il problema è che I’applicazione pratica del cofinanziamento è stata tale da negare questo principio.
La Tabella 3 mostra che nel periodo 2007-2012, un totale di quasi 700.000 progetti sono stati finanziati in Italia con il FSE, per una spesa totale di 13,5 miliardi. La gran parte di questi fondi sono stati usati per finanziare circa 500.000 progetti di formazione di vario tipo, per una spesa totale di 7,4 miliardi.
Tabella 3. progetti di formazione co-finanziati dal FSE nelle regioni italiane
Fonte: nostra elaborazione su dati OpenCoesione
Tuttavia, mentre praticamente tutti i progetti di formazione sono attuati da regioni o province, solo il 4 percento del finanziamento totale proviene dalle regioni (quasi niente dalle province); il resto è finanziato in parti uguali da stato italiano e UE. Lo scopo del cofinanziamento europeo è dunque completamente negato: chi cofinanzia le iniziative è lo stato centrale italiano, ma chi le attua sono le regioni. Esse hanno dunque pochissimi incentivi ad assicurarsi che questi progetti funzionino effettivamente.
UN SOTTOBOSCO NEL SOTTOBOSCO: LE VALUTAZIONI
Ma come facciamo a sapere se i benefici di questi progetti superano i costi per la collettività? I costi per la collettività hanno due componenti: primo, i benefici che si sarebbero potuti ottenere se i soldi destinati a finanziare questi progetti fossero stati utilizzati in altro modo, per esempio lasciandoli nelle tasche dei cittadini; secondo, i costi diretti delle distorsioni causate dalla tassazione in questione.
Ovviamente, come in tutte le questioni di economia non esiste e non esisterà mai una risposta certa alla domanda di partenza. Ci sono però modi più o meno sofisticati e più o meno condivisi nella best practice internazionale per cercare di avvicinarsi ad una risposta ragionevole.
Per fare questo, idealmente si vorrebbe condurre il seguente esperimento: prendiamo due gruppi casuali di 1000 persone disoccupate; al primo gruppo mettiamo a disposizione un corso di formazione, al secondo no. Dopo 12 e 24 mesi, vediamo quante persone nel primo gruppo sono occupate e quante lo sono nel secondo gruppo. Se non vi è alcuna differenza, è molto difficile argomentare che il corso di formazione vale i soldi che costa. Ma anche se la differenza fosse significativa, bisogna prendere in considerazione due altri fattori prima di trarre qualsiasi conclusione: quanto guadagna chi è occupato dopo aver seguito il corso di formazione? E quanto è costato il corso di formazione stesso?
Nessun esperimento di questo genere è mai stato condotto in Italia. Vi sono ostacoli di ogni tipo, a partire da quelli di natura legale. Ciò nonostante, la valutazione dei progetti di formazione è un’industria che non conosce crisi. Solo nel periodo 2007-2011 sono stati prodotti 280 documenti di valutazione del FSE (vd. Tabella 4). Ma questa è certamente una sottostima, anche perché ogni regione sarebbe obbligata a produrre valutazioni e molte regioni producono più di una valutazione, anche se non tutte vengono rese pubbliche.
Tabella 4. Le valutazioni del FSE
Fonte: Le valutazione del FSE 2007-2013, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e ISFOL, p. 21
Tuttavia, la stragrande maggioranza di queste valutazioni sono e servono solo a mantenere un sottobosco nel sottobosco, quello dei centri studi.
Tipicamente, vengono considerati sviluppi positivi un alto numero di progetti iniziati o completati, una percentuale elevata di utilizzo della risorse disponibili, e un buon andamento degli indicatori di risultato prescelti, come per esempio il tasso di disoccupazione femminile.
EPPURE NON SAPPIAMO ANCORA NIENTE
Nessuno di questi criteri consiste però in una “valutazione” dei fondi strutturali. Finanziare molti progetti FSE, o utilizzare una percentuale elevata della dotazione FSE, possono essere segnali “cattivi” se i soldi vengono utilizzati per progetti inutili o dannosi. E se il tasso di occupazione femminile sale, ciò non significa che i fondi strutturali siano stati utili: potrebbe essere dovuto alla congiuntura nazionale o regionale.
Alcune valutazioni cercano di andare oltre questi dati inutili. La valutazione del FSE del Lazio è una di queste. Essa presenta i risultati di un’indagine sugli esiti occupazionali 6 e 12 mesi dopo il completamento di un corso di formazione. La Tabella 5 mostra i risultati.
Tabella 5. Esiti occupazionali dei corsi di formazione, regione Lazio
Fonti: vd. ebook
Dalla colonna (1), il 9,1 e il 3,9 percento dei frequentatori dei corsi di formazione erano occupati sei e dodici mesi dopo la fine dei corsi, rispettivamente È tanto o poco? Molto difficile dirlo. Una simile indagine fatta per il precedente settennato del FSE, nel 2006, mostrava dei numeri molto più alti (colonna 3): 54,2 e 34,7 percento, rispettivamente. Ma i due numeri non sono confrontabili, perché la prima indagine è fatta sulla base delle comunicazioni obbligatorie registrate dagli archivi dei centri per l’impiego, la seconda sulla base di interviste.
In ogni caso, bisognerebbe sapere quanto sono costati i corsi a cui si riferiscono questi dati e ancora meglio quanto guadagnano gli occupati. Poi bisognerebbe sapere se questi posti di lavoro sono effettivamente “addizionali”, cioè se le imprese avrebbero assunto ugualmente le persone che appaiono in tabella anche se non fossero stati condotti i corsi di formazione. E se sono “addizionali”, per assumere queste persone siamo sicuri che I’azienda non abbia licenziato un numero equivalente di lavoratori già impiegati?
L’Unione Europea incarica un network di esperti di collezionare tutti i rapporti di valutazione di tutti i paesi UE, così come le valutazioni di singoli programmi. Nessuna delle valutazioni prese in esame per I’Italia è del tipo analisi costi benefici, cioè nessuna tenta di valutare i costi e i benefici per la collettività secondo la metodologia illustrata sopra. Ma è facile mostrare come in realtà non abbiamo la benché minima idea né dei costi né degli effetti di questi progetti.
Prendiamo il rapporto del network di esperti sulla spesa del FSE per l’Inclusione Sociale (Tabella 6). In Italia la percentuale che ha trovato un impiego in Italia sembra essere molto più bassa che in Francia e in Germania: solo l’1 percento dei partecipanti, e il 14 percento di coloro che hanno completato l’attività, contro il 19 e l’85 percento per la Francia. Ma in realtà non sappiamo assolutamente se i partecipanti hanno ricevuto servizi diversi: per esempio è possibile che i partecipanti italiani abbiano ricevuto servizi non finalizzati a trovare un posto di lavoro. Oppure il tipo di partecipanti in Italia potrebbe essere stato molto diverso (per esempio, migranti appena arrivati in Italia); oppure ancora effettivamente i servizi offerti in Italia sono stati meno efficaci. Non lo sapremo mai.
Tabella 6. Spesa per inclusione sociale del FSE, partecipanti e occupati
Fonte: ESF Expert Evaluation Network: Final synthesis report on Social Inclusion, p. 46
I casi sono due. O i dati della Tabella 6 dicono qualcosa sugli effetti causali dei corsi di formazione, e in questo caso avrebbero dovuto indurre qualsiasi policymaker italiano sensato a ridurre la spesa per corsi di formazione. Oppure questi dati, per le ragioni discusse sopra, non dicono niente, e allora dobbiamo accettare la conclusione che stiamo spendendo miliardi senza sapere che effetti hanno.
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montellamonica
Affronto il problema dei fondi europei da un anno circa e il vostro articolo mi conferma che nulla è cambiato all’orizzonte.
Nicola
Non condivido l’approccio, soprattutto per come è presentato il titolo. La spesa per corsi di formazione del Fse rappresenta solo una quota relativamente piccola dei fondi strutturali ricevuti dall’Italia. Oltretutto, il meccanismo di allocazione e uso è molto complicato ed eccessivamente semplificato in questo articolo. Per riconoscendo la difficoltà di spiegarlo in un articolo come questo, non si possono dimenticare almeno 2 fattori importanti:
1- la spesa è ripartita fra Ministeri nazionali e amministrazioni regionali, quindi quantomeno si tratta di responsabilità condivise Stato-Regioni (e allora si dovrebbe riflettere su questo).
2- In questi anno, lo Stato ha ridotto drasticamente i trasferimenti Stato-Regioni riducendo queste ultime in condizioni pietose, sia come personale sia come budget a disposizione. Visto che però le Regioni sono incaricate di un ruolo molto importante nei fondi strutturali si potrebbe concludere che lo Stato centrale si è tirato la zappa sui piedi. Ovviamente il tema è complesso, ma valutazioni così sommarie su dati che gli stessi autori giudicano non comparabili (questionari obbligatori vostre interviste a campione) non credo che aiutino il dibattito in materia.
Roberto Perotti
La spesa per corsi di formazione, come documentato nell’ articolo, corrisponde ad almeno la metà della spesa del FSE.
Francamente non capisco il suo punto 2. Può darsi che lo Stato si sia tirato la zappa sui piedi, tutto quelo che disciamo è che il meccanismo attuale non funziona.
Riguardo a presunte nostre “valutazioni sommarie”: il punto è esattamente che da venti anni ormai spendiamo miliardi ma non esistono valutazioni decentidegli effetti di questa spesa. Le centinaia di “valutazioni sommarie” sono esattamente il problema. Le interviste non le abbiamo fatte noi, le ha fatte la regione Lazion, e non sono a campione ma riguardano l’ intero universo dei beneficiari di certi corsi di formazione. E’ esattamente questo il problema.
lybius
Concordo con il prof. e lo ringrazio per il suo scritto. Aggiungo: c’è un unico motivo, imho, per mantenere in piedi questo imbarazzante sistema – tolta la politica monetaria che è di competenza Bce, tolta la Politica agricola comune (Pac) che gli autori non trattano, non rimane molto altro della Commissione Europea; no difesa, no politica estera comune, antitrust latitante. Mi chiedo quanto rimarrebbe in piedi di Bruxelles se gli stati membri decidessero di destinare una quota decisamente inferiore solo ed esclusivamente agli stati nuovi entranti (via Fondo di Coesione) e a poche, selezionate, regioni sottoutilizzate (e non a tutti); su quest’ultimo punto, faccio osservare un’involuzione delle politiche regionali: fino al 2000 non tutto il territorio italiano era potenzialmente beneficiario di risorse; con programmazione 2000-06 invece tutte le aree, chi più, chi meno, possono ricevere, alla faccia delle risorse scarse! Bottom line: in un momento di crisi e di tensioni delle casse pubbliche, ridurre drasticamente le politiche di coesione a misure più ragionevoli (anche da tenere sotto controllo) permetterebbe di liberare risorse e anche di ripristinare i giusti incentivi fra le persone e gli imprenditori dei territori maggiormente beneficiari.
Giovanni
Il valutatore del Fse Lazio è la Lattanzio&Associati che ha avuto tale servizio acquistando la società Ecosfera Vic che era titolare del contratto. La Ecosfera Vic è una società coinvolta in diversi scandali di mazzette in Abruzzo sempre legati alla valutazione di programmi comunitari. Forse per avere una buona valutazione basterebbe scegliere dei buoni (e onorabili) valutatori.
Luca
Signor Giovanni, sono un dirigente regionale. Conosco personalmente i valutatori fse della società Ecosfera, coinvolta in scandali legati ad episodi di corruzione che gettano una pesante ombra sui capi ma non certo sui collaboratori della società che hanno sempre dimostrato grande professionalità, impegno e dedizione. Le loro analisi valutative sono accurate e puntuali.
Simone
Sono un dipendente di Lattanzio e Associati, mi occupo di consulenza ma conosco i miei colleghi che fanno valutazione. Vorrei precisare che le persone coinvolte nello scandalo di cui parla non sono state assorbite da Lattanzio e Associati, e che i colleghi passati con noi sono persone incensurate e di elevata professionalità. Del resto l’articolo cita l’esempio del Fse Lazio come uno dei casi in cui si è cercato di andare oltre la semplice rappresentazione di dati inutili, anche se, come precisato dal prof. Perotti, non essendo disponibili indagini precedenti condotte con metodologia simile, è sicuramente complicato interpretare i risultati.
Francesco
L’articolo solleva una questione estremamente importante che non si può che condividere: senza un’analisi di impatto credibile, le politiche pubbliche sono, nella migliore delle ipotesi, degli esercizi di fede nell’intuito dei policy-makers. Tuttavia mi preme sottolineare che trovo scorretto sostenere che “i fondi strutturali sono tutti pagati, e due volte, dal contribuente italiano”. Prima di tutto, perché le allocazioni degli Stati Membri al budget dell’Unione sono decisi indipendentemente dalle scelte di spesa in base a criteri legati a popolazione e reddito nazionale (quindi, seppure non utilizzassimo neanche un euro dei fondi strutturali, il nostro contributo al budget dell’Unione non cambierebbe di una virgola). Secondo, perché per i fondi strutturali vale (almeno in teoria) il principio dell’addizionalità, per cui si presuppone che ciò che viene cofinanziato dei fondi strutturali sarebbe comunque stato una priorità della regione e il cofinanziamento europeo dovrebbe servire solo a rilassare il “budget constraint” dell’ente pubblico. Quindi, delle “due volte” in cui il contribuente italiano dovrebbe stare pagando i fondi strutturali, contabilmente non sarebbe lecito accordargliene neanche una. Posso capire la buona fede dell’artificio retorico (nel senso di non trattare i fondi europei come un “free lunch” che si può anche sprecare senza rimpianti), però bisogna anche fare attenzione a non lasciarsi trasportare troppo dallo slancio.
Paolo Bianco
Non vedo l’ora di leggere l’articolo dedicato al POR FESR.
Comunque, se nemmeno il numero degli occupati a valle dei corsi è un indicatore significativo, mi sembra che il problema sia senza soluzione, giacché neanche voi proponete un meccanismo valutativo che fornisca un criterio di merito adeguato.
L’alternativa di cancellare interamente la programmazione FSE e azzerare le relative spese e contributi degli stati (in maniera da liberare risorse da utilizzare direttamente a livello nazionale), penso non sia migliore del male: se le si indirizza ugualmente alla formazione, il problema resta il medesimo; se invece si azzera la disponibilità di risorse per la formazione, si rinuncia a uno strumento che tutta la letteratura (nonché l’esperienza di vita personale di molti) indica concordemente come fondamentale.
L’alternativa potrebbe essere un “libretto della formazione” (sul modello della social card, possibilmente dematerializzato) in cui inserire determinati crediti, che i disoccupati stessi possano poi spendere in autonomia presso qualunque corso accreditato nel sistema? In questo modo ognuno giudicherebbe da se l’utilità e il valore del corso, invece che sperare dirigisticamente che ci pensi Bruxelles per tutti (ovviamente il numero di crediti dovrebbe essere proporzionale alla criticità della situazione della persona).
I corsi con pochi risultati o con costi troppo alti verrebbero così disertati in massa, e il pericolo della “compravendita dei crediti” (pagati con soldi in nero in cambio di corsi fittiziamente svolti) sarebbe gestibile con l’accreditamento e comunque il medesimo di oggi.
Altrimenti quali soluzioni alternative indicare?
Convergente
E’ desolante per un addetto ai lavori leggere Perotti che scrive di fondi strutturali.
Si vede chiaramente che non è il suo campo, il suo lavoro è pieno di errori ed imprecisioni, tipiche di chi ha una conoscenza molto superficiale, direi quasi da blog di Beppe Grillo, della materia.
Certo che se invece di leggere i veri esperti italiani ed internazionali sul tema (ad es. Fabrizio Barca) date spazio a riciclati in cerca di visibilità non rendete un buon servizio.
Licio Renzie PD2
Se lei avesse un “approccio superficiale alla blog di beppe grillo” scriverebbe commenti più intelligenti. Garantito.
Roberto Perotti
Sarebbe interessante conoscere specificamente gli errori e le imprecisioni cui si riferisce.
Il termine “riciclati” mi incuriosisce, anche in questo caso sarebbe
interessante una elaborazione del suo pensiero in materia.
Quanto agli “esperti internazionali” in materia, vale quanto scritto
nel mio commento precedente: c’è una comunità di programmatori, politic,
burocrati, e buro-politici a livello europeo che vive, intellettualmente e
materialmente, di fondi europei. Queste persone si citano a vicenda, usano un
linguaggio che solo loro capiscono, hanno delle metodologie tutte loro senza
alcuna valenza scientifica, e si chiamano “esperti internazionali” a
vicenda. Basta leggere i documenti della programmazione italiana sotto Barca
per vedere l’ orgia di retorica cui ci ha condotto questo processo, e la marea di frasi incomprensibili che hanno guidato queste politiche. E a pagare
questi esercizi di sedicenti intellettuali e politici è stato, come
sempre, il Mezzogiorno.
Aglaia Murgia
Devo ammettere che c’è molto di vero nel book di Perotti. Sono 13 anni che mi occupo di queste politiche, prima in Commissione e poi per lo Stato italiano, ho adorato questo mestiere ma ora non sono più tanto convinta che la Politica comunitaria sia produttiva di effetti positivi sul territorio. 15 anni fa era una Politica di Coesione, proattiva, finanziava oggetti definiti, investimenti chiari e aggiuntivi, non funzionava benissimo (sopratutto in Italia, ma ha consentito di realizzare più di un intervento importante e produttivo). Negli anni la burocrazia europea è divenuta sempre più burocrazia e sempre meno europea, la politica di Coesione non più di coesione ma di contributo ad altri (importantissimi, per carità) obiettivi europei (Lisbona, 2020 ecc. ecc.), l’aggiuntività non è mai stata verificata sulle singole politiche ma solo come mantenimento della soglia dei trasferimenti complessivi (in pratica, con l’aumento dei trasferimenti per la sanità si può dimostrare che la politica di coesione è aggiuntiva – sic) . La struttura della regolamentazione e dei programmi si è andata sempre più complicando divenendo un inestricabile groviglio sia formale che sostanziale. I servizi di controllo della Commissione hanno assunto un potere sproporzionato in rapporto ai servizi della Commissione che si dovrebbero interessare di sviluppo e di coesione. In conclusione la politica di coesione comunitaria è divenuta, sopratutto, un esercizio burocratico. esercizio che produce effetti solo per gli addetti ai lavori (me compresa). A ciò si aggiunga l’estrema autoreferenzialità del mondo degli addetti ai lavori di cui sopra. Quindi, anche se non condivido né i toni né taluni dei contenuti comprendo la voglia di scrivere articoli come quelli del Prof. Perotti. Ritengo, comunque, che sia troppo semplicistica la cura proposta “non diamo soldi per questa politica e non ne prendiamo” non solo semplicistica ma anche inattuabile poiché occorrerebbe trovare una maggioranza qualificata a livello europeo per approvare tale soluzione. Spero che il Prof. Perotti prosegua il suo impegno oltre la fase di denuncia, per portarlo verso la ricerca di soluzioni effettivamente praticabili.
Claudia Villante
Buongiorno a tutti. C’è molta approssimazione a mio modesto avviso nell’articolo di Perotti e Teoldi.
In realtà se gli autori non si fossero limitati a leggere i titoli delle valutazioni condotte e avessero approfondito i contributi e ai Comitati di Sorveglianza dei POR non sarebbero arrivati a queste semplici e sensazionalistiche conclusioni. Certo è molto più facile adottare un approccio disfattista e camuffarlo con qualche dato colto in modo del tutto arbitrario (per inciso la Regione Lazio non è l’unica ad aver realizzato studi valutativi, ma invito gli autori a leggere la documentazione ad es. prodotta dalla Regione Piemonte sugli stessi temi), piuttosto che discutere in maniera seria sull’impatto che gli interventi di formazione producono sui destinatari. Se da un lato concordo sull’esistenza di un sottobosco che lucra dietro la programmazione europea (ma non è certo limitato alla formazione professionale, e non certo solo alla programmazione europea) dall’altro mi stupisco proprio come due esperti economisti non evidenzino come un’analisi seria necessiterebbe di studi quantitativi di tipo controfattuale che solo una enorme disponibilità di dati potrebbe garantire. A questo proposito invito gli autori a leggere i contributi della Struttura di Valutazione del FSE dell’ISFOL ha prodotto in riferimento alla programmazione 2000-2006 di cui, a puro titolo di esempio allego un link. Ho fatto parte di quella struttura per anni e i lavori conosciuti presso tutta la comunità dei valutatori, erano diretti da una bravissima direttrice (A.Bulgarelli) successivamente chiamata a fare il direttore del Cedefop.
Certo si tratta di analisi lunghe e dispendiose e la mia proposta è quella di convogliare le risorse verso un progetto unico di valutazione, piuttosto che in diversi progetti piccoli, per loro natura necessariamente inefficaci, ma eviterei di salire sul carro disfattista che è ricco di fama ma che non fa bene al nostro Paese. Inoltre invito gli autori a documentarsi meglio per scoprire che gli effetti positivi ci sono stati e soprattutto per le donne!
Roberto Perotti
Perdoni la franchezza, ma lei non ha capito il nostro discorso sulla valutazione. Siamo ben consapevoli che vi sono decine di valutaizoni come quelle da noi discusse del Lazio, non solo in Piemonte ma in quasi tutte le altre regioni. Ma il punto è esatamente che le stesse valutazioni dle Lazio sono valutazioni solo di nome. Non dicono niente sull’ effetto causale e sui costi e benefici dei corsi di formazione.
Il discorsoè lungo, ma gli studi di natura controfattuale non risolvono il problema.
Lei si riferisce a una “comunità di valutatori”, ma se tutta questa comunità usa gli stessi metodi inutili e obsoleti, questo non aiuta molto a capire gli effetti dei corsi di formazione, che è l’ unica cosa che interessa, non le cvitazioni autoreferenziali della comunità di valutatori.
Abbiamo speso giornate intere a fare surfing sul sito dell’ ISFOL, mi creda. Forse Cottarelli farebe bene a occuparsi anche di quella istituzione.
Quanto agli effetti positivi sulle donne, non basta dire “bisogna documentarsi meglio”. Il punto è sempre lo stesso, lei può produrre diecimila valutaizoni che mostrano risultati positivio per le donne; ma se la metodologia è sbagliata questo servorà forse a dare una sottile soddisfazione intelelttuale ai valutatori – olre che a mantenere in vita i loro centri studi – ma personalmente per quanto mi riguarda è come se non esistessero.
Marco
Condivido molto di quanto affermato da Francesco riguardo al funzionamento del bilancio comunitario. Per inciso, nel 2012 l’Italia è stato il quarto paese contributore netto al bilancio UE, ma è stato anche il quarto paese in termini di dimensione di RNL. Per quanto riguarda l’addizionalità, essa è un principio delle politiche strutturali UE secondo il quale la quota comunitaria non è sostitutiva ma aggiuntiva e va a rafforzare la componente di spesa in investimenti che lo Stato membro deve mettere in campo per attuare le politiche di sviluppo. Inoltre (cfr. Quadro finanziario unico, parte consuntivo), la componente relativa ai Fondi strutturali UE, comprensiva del cofinanziamento, pesa, mediamente all’anno, circa il 15% sul totale della spesa in conto capitale dell’Italia. Che ci siano problemi di gestione e qualità della spesa non sono io che posso metterlo in dubbio, ma questo continuo accanimento sull’argomento mi sembra, a volte, sproporzionato. Le politiche di coesione rappresentano anche una redistribuzione delle risorse dalle società/individui meno bisognosi a quelli più bisognosi: quindi, nelle tasche di quali cittadini secondo voi sarebbe meglio lasciarli (imprenditore illuminato; esportatore di capitali, ecc.)? Concludo dicendo che, a livello di perdiata di risorse per Fondi strutturali, a tutt’oggi, per l’Italia nella programmazione 2007-13 sono state disimpegnate sul bilancio comuniatario meno dello 0,15% delle risorse assegnate (ho scritto bene e mi riferisco ai due principali obiettivi. Cfr. dati su OpenCoesione), che rappresentano circa il 17% del totale disimpegnato per tutti paesi UE a fine 2013 (dati DG-Budget).
Elia
Sicuramente concordo con Francesco sulla necessità di identificare metodologie di valutazione d’impatto attendibili, ma prima di tutto bisognerebbe che la Commissione Europea facesse un po’ di chiarezze terminologica e metodologica a valle (vedi Una critica degli indicatori di impatto di Alberto Martini). Con un po’ di buon senso, si potrebbe invece pensare a far fare le valutazioni dei programmi regionali a team di altri paesi stranieri.
Pierluigi Vattimo
Studio, interessante, non fosse altro perché in maniera non retorica e fine a se stessa si propone di aprire una finestra rispetto ad un tema, quello dei fondi strutturali, di cui si parla solo a fasi alterne, spesso in prossimità dell’anno, com’è il 2014, che inizia un nuovo ciclo di programmazione. È questo forse il solo limite dello studio, arriva adesso, in prossimità di un nuovo ciclo di programmazione, che tra l’altro dovrebbe essere quasi arrivato alla conclusione, per quel che riguarda la programmazione, appunto. I suggerimenti che mi sento di fare agli autori sono due:
I) mettere più in evidenza l’assunto che muove la macchina della “polita di coesione”, cioè lo sviluppo come assunto, di che sviluppo si parla in europa? II)verificare in maniera più precisa la addizionalità della spesa, se non sbaglio, Barca e Monti hanno tagliato, di parecchio, mi riferisco agli ultimi anni del ciclo 2007/13 la spesa di cofinanziamento che l’Italia era chiamata da regolamento a fare, mi riferisco ai Pac.
Viesti, inoltre, in “senza Cassa” tira fuori dei dati che potrebbe essere utile confrontare per capire alcuni aspetti qualitativi delle politiche per lo sviluppo.
Gabriella Chiesa
Le parole chiavi vincenti: occupazione, territorio, rinnovabili, un vero jackpot; accesso (discrezionale) ai fondi Fesr e poi ai generosi sussidi/incentivi per le “rinnovabili” (il tutto largamente gestito dalle Regioni in virtù degli ampi poteri in materia di energia). Sarebbe ben utile un qualche case study in qualche Regione (anche Emilia-Romagna).
Gianni Dominici
Beh qualcosa di positivo in questi anni è stato fatto, anche se nell’articolo non viene affrontato direttamente, ed è Open Coesione. Proprio grazie ai dati liberati tramite il portale sono state possibili alcune delle inferenze tratte nell’articolo. Inoltre, in attesa che economisti e metodologi di tutta europa si mettano d’accordo nell’individuare e applicare criteri di valutazione e di impatto delle politiche comunitarie è importante sviluppare una cultura diffusa del monitoraggio civico, cosa che tentano di fare “A scuola di Open Coesione” (http://www.ascuoladiopencoesione.it/2013/) e “Monithon” (http://www.monithon.it). Insomma, se non vogliamo che anche la programmazione 14-20 diventi l’ennesima occasione perduta un po’ dipenderà anche da tutti noi che dobbiamo pretendere la massima trasparenza sull’uso e la destinazione dei fondi.
giovanni caputi
Mi pare uno studio piuttosto approssimativo, un po’ nel trend di criticare tutto per accentrare tutto nella “nuova” politica turbo:
1) non si capisce perché di ogni euro che riceviamo ne spendiamo due, se diamo 16 miliardi e ne riceviamo 11 torna indietro il 70 per cento del nostro investimento, quindi al limite l’euro dell’Ue che torna a casa non ci è costato un euro ma 30 centesimi; oltretutto riceviamo un euro dall’Ue e per potenziarne l’effetto sul nostro territorio ne mettiamo un altro, se non vogliamo l’euro dall’Ue perché non vogliamo spendere il nostro, basta rinunziarvi, così spendiamo solo un euro (senza ricevere indietro 70 centesimi) e se vogliamo nel futuro depotenziamo le politiche strutturali d’accordo con i nostri partner.
2) nell’approccio degli autori, ad essere coerenti, sarebbe da discutere in primo luogo come useremmo noi l’euro che diamo all’Europa e che poi (per 70 centesimi) ci viene restituito, forse peggio di quanto accade con i fondi strutturali; facciamo l’analisi dei risultati delle politiche nazionali e di quelle Ue e vediamo i risultati, io scommetto un euro che sono più efficaci le iniziative Ue.
3) potremmo certo contrattare a livello Ue una modifica delle politiche strutturali, anche i tedeschi sono contributori netti Ue e quindi potrebbero essere d’accordo, ma davvero ci conviene? L’effetto complessivo in Spagna, Portogallo, Polonia, anche Grecia ed altri paesi forse è positivo per noi, perché l’effetto delle politiche strutturali è, complessivamente, positivo per i Piigs e la fascia periferica dell’Ue.
4) a proposito, se i fondi Ue rappresentano politiche sbagliate perché ci sono partner europei che li sanno far funzionare?
5) un esempio concreto di come i fondi sono utili; a Bari vecchia fino a dieci anni fa non si poteva entrare per degrado e criminalità; oggi, dopo il programma urban, è un posto stupendo. Risultati simili a Lecce. 6) migliorare il modo di valutare i fondi Fse va bene, benissimo, meritori tutti gli studi che pongono il problema, però gli autori paiono concettualmente contrari ai fondi Ue, il che apre scenari molto molto molto complessi e si rischiano clamorosi autogol.
Claudia Villante
Mi perdoni Prof.Perotti, ma forse non ha idea di cosa significhi valutare l’impatto diretto di un intervento formativo. Lo dimostra il fatto che Lei, con tutto rispetto, usa termini assolutamente inadeguati, come “corsi di formazione”. E’ da tempo ormai che il Fse non finanzia “solo” corsi di formazione. Che Cottarelli debba fare delle verifiche sono molto d’accordo: se venisse presso il mio posto di lavoro (Agenzia Erasmus Plus Formazione) si accorgerebbe che ho un numero di lavoro oltre quelle previste per legge di circa 400. Certo, ho sicuramente dei colleghi che non lavorano con la stessa solerzia, ma Cottarelli ne scoprirebbe delle belle anche presso gli ambienti accademici! Torno a ribadire l’utilità (anche se non tutta e se non sempre) degli studi valutativi condotti.
Roberto Perotti
Errare e’ umano, ma perseverare ……
Ecco cosa scriviamo sul nostro ebook:
“La Tabella 2 mostra che nel periodo 2007-2012, un totale di quasi 700.000 progetti sono stati finanziati in Italia con il FSE, per una spesa totale di 13,5 miliardi. La gran parte di questi fondi sono stati usati per progetti di formazione a vario titolo. Per farcene un’idea più precisa, abbiamo estratto dal dataset di OpenCoesione (che registra tutte le iniziative finanziate dal FSE e FESR) tutte le voci di descrizione del progetto che contenessero le parole “formazione” o “orientamento”: circa 500.000 progetti rispondono a questi criteri, per una spesa totale di 7,4 miliardi. ”
Piu’ chiaro di cosi’………
marcant
E’ senz’altro vero che il campo d’intervento del Fondo Sociale è particolarmente complesso. I rischi di dispersione delle risorse, di cattura dello strumento da parte di intermediari e operatori vari, e di un suo utilizzo come un erogatore di sussidi non finalizzati alla creazione di posti di lavoro sono reali e molto importanti. Queste risorse dovrebbero essere usate con più efficacia. E la vostra critica è largamente fondata. Attendo il vostro articolo sul Fesr che conosco meglio. Non condivido invece che parzialmente la vostra critica ai metodi di programmazione dell’Ue. Vi ricordo che altri paesi hanno fatto un uso molto efficiente dei fondi di coesione. Quindi il problema non è la metodologia di programmazione in sé. Il fatto che l’Italia non ci riesca è da iscrivere a deficienze italiane più che alle metodologie imposte dai Regolamenti. La complessità degli obiettivi è solo apparente. L’ampiezza del campo di intervento rende ammissibile ogni progetto economicamente giustificato. Se vi sono dei buoni progetti eseguiti nei tempi programmati l’assorbimento dei fondi è facile e la loro efficacia è elevata (Polonia, Spagna, Portogallo docent). E vi è una forte flessibilità. La prolissità e la vaghezza dei programmi non caratterizzano tutti i documenti di programmazione elaborati dalle amministrazioni che gestiscono i i fondi , anche se la critica di alcuni programmi italiani è giustificata. Vi è certamente da discutere sul monitoraggio, la valutazione, l’audit. Ma questo non giustifica una posizione totalmente negativa come quella presa nell’articolo.
marcant
E’ senz’altro vero che il campo d’intervento del Fondo Sociale è particolarmente complesso. I rischi di dispersione delle risorse, di cattura dello strumento da parte di intermediari e operatori vari, e di un suo utilizzo come un erogatore di sussidi non finalizzati alla creazione di posti di lavoro sono reali e molto importanti. Queste risorse dovrebbero essere usate con più efficacia. E la vostra critica è largamente fondata. Attendo il vostro articolo sul Fesr che conosco meglio. Non condivido invece che parzialmente la vostra critica ai metodi di programmazione dell’Ue. Vi ricordo che altri paesi hanno fatto un uso molto efficiente dei fondi di coesione. Quindi il problema non è la metodologia di programmazione in sé. Il fatto che l’Italia non ci riesca è da ascrivere a deficienze italiane più che alle metodologie imposte dai Regolamenti. La complessità degli obiettivi è solo apparente. L’ampiezza del campo di intervento rende ammissibile ogni progetto economicamente giustificato. Se vi sono dei buoni progetti eseguiti nei tempi programmati l’assorbimento dei fondi è facile e la loro efficacia è elevata (Polonia, Spagna, Portogallo docent). E vi è una forte flessibilità. La prolissità e la vaghezza dei programmi non caratterizzano tutti i documenti di programmazione elaborati dalle amministrazioni che gestiscono i i fondi, anche se la critica di alcuni programmi italiani è giustificata. Vi è certamente da discutere sul monitoraggio, la valutazione, l’audit. Ma questo non giustifica una posizione totalmente negativa come quella presa nell’articolo.
Davide Cappelli
Parlo da formatore e contemporaneamente da contribuente: per informarmi scandaglio (come posso) l’offerta formativa finanziata di un bel po’ di regioni ed una parte affatto trascurabile di questa è platealmente un “non sense” in termini economici. Non è “colpa” degli enti di formazione né degli organismi di vigilanza, bensì delle attese, prima di tutto istituzionali, riposte in questo asset para-pubblico. Un esempio fra tutti: la formazione obbligatoria per i cassintegrati in deroga degli ultimi anni, usata al solo scopo di deviare su interventi -di fatto- di welfare partite di finanziamento destinato ad altro. “Altro” che, prevedibilmente, non è stato finanziato, con la verosimile conseguenza che coloro i quali avevano ancora un lavoro, ma “a rischio”, non hanno potuto riqualificarsi -magari con i corsi brevi (i primi tagliati!)- per trovare altra collocazione nella medesima azienda o ricorrendo, con nuove/differenti competenze, al -comunque asfittico- mercato del lavoro. Allo stesso tempo cassintegrazioni in realtà strutturali sono stati fatte passare per cassintegrazioni congiunturali, costringendo ad una comunque assidua frequenza dei cassintegrati che avrebbero di certo beneficiato dall’aver più tempo per cercarsi nuove occupazioni. Persone che rispetto e con le quali ho ancora ottimi rapporti, anche perché sanno che ho tentato di dare loro quanto potevo, cosciente che quella appena descritta era la realtà (economica) delle cose. Che la Formazione venga vista come un “parcheggio” per le persone, od una regalia per le aziende -le quali hanno la possibilità, ad esempio, di farsi vedere riconosciuta quale “work experience” la prestazione come commesso/a di negozio (finanziata dal Fse)-, in linea con buona parte con la politica italiana degli ultimi vent’anni, a me, come “addetto ai lavori”, da una frustrazione ed un’irritazione indescrivibili, ma cosa posso farci se non cercare di essere io quello responsabile, serio e “sul pezzo”?
Claudia Villante
Non Le ho commentato i dati di open coesione (forse la cosa migliore che sia stata fatta in materia di trasparenza in questo complicato mondo dei fondi strutturali), ma il modo in cui Lei legge questi dati. Anche nell’ultimo commento Lei somma formazione con orientamento che dal punto di vista valutativo è come sommare mele con pere. Altra considerazione: quando scrive che i fondi sono stati “usati” a cosa fa riferimento? Vuole dire programmati? Impegnati? Spesi? Sa che nel processo di attuazione queste parole fanno riferimento a regole programmatorie molto stringenti (e se dovessimo aprire un dibattito forse è su questo punto che bisognerebbe riflettere)?
Emanuele De Candia
Cosa c’entra quello che puntualizzi con l’articolo? E’ vero o no che non esiste una valutazione seria? O meglio, sa cosa significa valutazione? E’ la fortuna di molti formatori che non esista, ma speriamo che anche la formazione per i formatori sia pulita dalla crisi.
Piero
L’articolo del Prof. Perotti coglie esattamente i problemi della classe politica italiana, fatta da incapaci, i soldi vengono spesi male, ho visto che in alcune regioni si ha un vero investimento, ma nella maggiore parte è tutto uno spreco, cosa fare? In primis, abbiamo diviso l’Italia in due, è la cosa più sbagliata, il denaro caso speso correttamente sia al nord che al sud, occorre quindi che take incombenza non venga più gestita dalle regioni che ne hanno fatto un uso principalmente clientelare ed elettorale, abbiamo una agenzia del sud, essa deve controllare l’erogazione in tutta Italia e deve controllare la realizzazione degli investimenti, saranno sempre le regioni che decidono come spendere il denaro, ma i bandi saranno fatti dall’Agenzia che attuerà anche il controllo. Abbiamo le regioni che decidono come spendere ma avremo un controllo centralizzato, si potrà vedere dal sito dell’agenzia che deve essere pubblico, tutte le spese di ogni regione, i cittadini vedranno quando ha speso in formazione la propria regione in rapporto a quella confinante, etc.
Fulvio Pellegrini
Gentile Professore.
Sono stato Membro dell’Een (da lei citato come fonte della Tabella 6), cioè uno dei due esperti per l’Italia nel lavoro di ricognizione delle valutazioni effettuate nel nostro Paese nel periodo di Programmazione 2007-2013. L’Een, nella stessa esperienza di ricerca ha, peraltro, realizzato lavori, analoghi a quello citato, sull’insieme della Programmazione Fse, sulle politiche giovanili e su quelle di accesso all’occupazione. Le scrivo per fare una precisazione. Il mandato dell’Een era quello di analizzare la consistenza del lavoro valutativo svolto in Italia attorno al Fse. Questo perché la stessa Ue nella scorsa Programmazione ha abolito l’obbligo da parte degli Stati Membri, presente nella Programmazione 2000-2006 a valutare progetti e programmi, trovandosi poi, alla fine del periodo 2007-2013, con un grave gap informativo che il lavoro dell’Een ha teso, nei limiti di mandato, a ridurre. Bene fa lei a richiamare la necessità che la valutazione suggerisca cambiamenti in corso d’opera, alle strategie di implementazione delle politiche. “Se no che valutazione è?” ci verrebbe da dire. Ma, in questo caso, il suggerimento di non insistere su politiche “formative” inefficaci, opinione peraltro condivisa ampiamente nella comunità dei valutatori, non è arrivato ai policy makers “in tempo”, in quanto consolidatosi alla fine della Programmazione in mancanza di un investimento consistente e omogeneo delle Regioni in direzione proprio della valutazione (circa 79 lavori per 20 regioni sono davvero pochi). Aggiungo che nessuna delle Regioni dell’ex Obiettivo Convergenza, quelle che, ragionevolmente avrebbero più avuto bisogno di valutazione, ha provveduto a produrre lavori valutativi su quanto realizzato né a nominare un Valutatore Indipendente, come suggerito dall’Unione. Ben venga, quindi, uno slancio per il potenziamento di azioni valutative in generale e, in particolar modo, di quelle improntate a metodi più efficaci e meno generalisti/generici. Aggiungerei, però, che esiste, a livello regionale, in molte regioni italiane, Piemonte, Lombardia, Marche, tanto per citare quelle che, a mio avviso, sembrano essere le più virtuose, un dibattito serrato, per quanto non facilmente intercettabile dai cittadini, rispetto alla valorizzazione di interventi formativi work based, cioè, che abbiano un più diretto contatto con le imprese e con l’esperienza lavorativa diretta (interventi privilegiati anche dalla Garanzia Giovani) interventi che, laddove posti in essere, hanno dato risultati di placement più consistenti ed efficaci della “classica” formazione d’aula a cui, credo, lei si riferisca. Infine vorrei aggiungere che l’indicazione di una valorizzazione di interventi Work based è stata da me sostenuta nel Rapporto di valutazione ex-ante dell’Accordo di Partenariato che, speriamo, possa essere divulgato al più presto. Detto questo, la ringrazio per lo spazio di dibattito che mi è stato dato qui.
Francesco
Prof Perotti, lo stile con cui demolisce le spese del Fse mi sembra troppo tranchant. Premesso che l’allocazione delle risorse deve migliorare, perché sprechi inefficienze e anche ruberie ci sono stati e purtroppo ci saranno, non le sembra eccessivo demolire tutto in questo modo? Poiché siamo poco capaci ad utilizzarli “rinunciamo”? Secondo me si dovrebbe migliorare la gestione, ma a lei questo interessa poco, perché ritiene in ogni caso un male questa spesa pubblica (e non solo). Un caso non fa statistica, ma nel lontano ’94 partecipai ad uno dei famigerati corsi Fse (allora neppure sapevo cosa fosse) e su 12 partecipanti 5 trovarono lavoro subito nel settore oggetto del corso. Fortuna? Bravura? no so, ed in ogni caso 3-4 anni dopo mio fratello, a seguito di corso Fse trovò anche lui subito lavoro. Famiglia fortunata, che dire? Per terminare le consiglierei di riservare questo atteggiamento così tranchant alle tesi da lei sostenute in merito a quella che ora si chiama austerità espansiva e i cui danni sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vederli. Personalmente trovo l’approccio suo e di alcuni suoi colleghi inutilmente ideologico, perché vi sono sempre sottesi un paio di “dati di fatto”: l’efficienza del mercato (si, in vitro) e il primato del privato sul pubblico, cose entrambe che, a mio modestissimo parere, non sono né vere né tanto meno scontate per definizione come lei ed altri lasciano sempre trasparire.
Roberto Perotti
1) Come abbiamo cercato di spiegare nel nostro articolo, ammesso che lei abbia trovato lavoro grazie al corso di formazione, e’ perfettamente possibile che qualche altro imprenditore abbia dovuto rinunciare ad assumere una o magari due persone a causa delle maggiori tasse necessarie per pagare i corsi di formazione. Oppure no. Il fatto è che non lo sappiamo.
2) “a lei questo interessa poco, perché ritiene in ogni caso un male questa spesa pubblica (e non solo)”; “Personalmente trovo l’approccio suo e di alcuni suoi colleghi inutilmente ideologico, perché vi sono sempre sottesi un paio di “dati di fatto”: l’efficienza del mercato (si, in vitro) e il primato del privato sul pubblico”. Non so da dove ha preso queste informazioni sul mio conto, quando le ha trovate mi faccia sapere per favore perche’ mi farebbero scoprire un lato del mio pensiero che mi e’ ignoto. Naturalmente mi aspetto che lei possa produrre almeno UNA frase che supporti quanto lei scrive, oppure che torni su questo blog a riconoscere di aver scritto una sciocchezza.
3) Ma su un aspetto del mio pensiero lei e’ sicuramente poco aggiornato: la cosiddetta austerita’ espansiva: http://www.rperotti.com/doc/w17571.pdf
Salvatore Modica
Siamo abbondatemente fuori tempo massimo per introdurre la valutazione dei progetti di formazione nel meridione, i risultati sarebbero quelli che tutti ci aspettiamo.
Bisognerebbe convincere gli eurocrati ad investire quei soldi sui bambini per fargli imparare italiano inglese e matematica e fargli fare sport – tutte cose essenziali che al sud sono appannaggio dei ricchi.
Marco
Progetto della regione Toscana Provincia di Grosseto il cui obbiettivo è “Migliorare la qualità e l’equità della partecipazione sociale e lavorativa, attraverso maggiore integrazione e accessibilità dei servizi di protezione sociale, di cura e conciliazione e dei sistemi di formazione, apprendimento e lavoro, con particolare attenzione alle pari opportunità e alle azioni di antidiscriminazione” …
Ma notate bene, titolo del progetto “addetto parrucchiere unisex …… ” il finanziamento e di Euro 4.800
Non ci credete?
Leggete qui http://www.opencoesione.gov.it/progetti/1to78226/
un cittadino informato
Ho letto l’intero documento, quello di 34 pagine. Condivido con gli autori un approccio critico all’attuale impostazione dei fondi europei, e in particolar modo, da addetto ai lavori, confermo il grado eccessivo e ingiustificato di complicazione di questi programmi e lamento io per primo la mancanza di una seria cultura della valutazione. Il rapporto tuttavia è cosparso di errori, approssimazioni e affermazioni di principio, tronfie, non verificati né verificabili, cariche di retorica. Un esempio di errore grossolano: a fine di pag.5 si legge “Ogni euro speso per un corso di formazione ci costa due euro in tasse”. Immagino che gli autori intendessero sostenere che ogni euro speso per un corso di formazione è composto per metà da fondi comunitari (in ultima analisi provenienti comunque dall’Italia, che è contributore dell’Ue) e per metà da cofinanziamento nazionale e/o regionale. Se così fosse, il concetto che hanno invece espresso è molto diverso. Esempio di approssimazione (pag. 9): bollare un assegno di ricerca annuale (non rinnovato al termine) come un sussidio di disoccupazione è nella migliore delle ipotesi un’approssimazione forzata, nella peggiore una provocazione volutamente
faziosa, e per giunta sterile. Evidentemente il problema sollevato è di grande importanza, ma l’argomentazione con cui viene sviscerato non è degna dei CV degli autori. Esempio di frase che fa fare una pessima figura agli autori: a pagina 12 si legge “è evidente l’incredibile complessità di questi diagrammi” (con riferimento ai diagrammi delle pagine 13 e 14). L’argomentazione che gli autori cercano di sostenere è quella dell’eccessiva complicatezza dei programmi europei, cosa che peraltro condivido. Ma se è vero che la programmazione europea è troppo complicata, è anche vero che da quel che si legge nel testo i due autori sembrano aspettarsi che questi programmi debbano essere semplici come un libro per bambini da colorare. Anche al netto dell’eccessiva burocratizzazione, non ci si può aspettare che la programmazione dei fondi europei si possa risolvere con due frasette elementari: è una cosa complessa.
Esempio di giudizi di principio, tronfi, non verificati né verificabili, carichi di retorica: “In realtà, mentre si può pensare che i corsi di formazione al limite siano solo tempo sprecato, gli esperti dell’educazione discutono da tempo se studiare su un tablet non possa essere addirittura nocivo, alla salute e all’apprendimento. Tuttavia qualche burocrate ha deciso che massimizzare i tablet a scuola suona “moderno”, e così deve essere. Poiché poi i tablets non sono gratis, questo indicatore è semplicemente insensato”. Capisco le esigenze di linguaggio di stampo un po’ giornalistico, ma questo documento vorrebbe presentarsi con ambizioni diverse rispetto a un articolo di quotidiano. Trovo nel complesso molto curioso che gli alti livelli di approssimazione e retorica, cosa che gli autori rimproverano (spesso giustamente) alle valutazioni dei programmi operativi, si manifestino in maniera ancora più evidente in questo documento. Trovo anche curioso che gli autori invochino una metodologia ben più rigorosa nella valutazione dei programmi operativi, ma poi nel documento che scrivono si lascino andare essi stessi con una certa frequenza a valutazioni superficiali e/o retoriche e/o volutamente forzate.
Roberto Perotti
Lei non digerisce il nostro stile; ovviamente de gustibus non est disputandum, ma le assicuro che non avevamo in mente l’ Accademia della Crusca quando abbiamo scritto questo articolo. Noto comunque che non uno degli esempi che fa si riferisce ad errori fattuali.
E pensa davvero che scrivere “è evidente l’incredibile complessità di questi diagrammi” possa farci fare non una brutta, ma addirittura una “pessima” figura? Non le sembra di esagerare un pochino?
un cittadino informato
Lavoro in un’amministrazione pubblica in un servizio che si occupa esattamente di questi temi, ma scrivo a titolo personale, e devo tenere scisse le due cose. Quanto al resto non è questione di italiano, né di contenuti: ho anzi precisato di condividere in buona parte, nel merito, l’articolo. Perdonatemi, ma non condivido invece né l’approccio al tema né lo stile, che giudico un po’ approssimativo ma soprattutto inutilmente provocatorio (non sono il primo ad averlo fatto notare, nei commenti): apprezzo le posizioni forti e anche le provocazioni, ma solo quando sono costruttive (e non mi sembra questo il caso). Questo articolo è stato rilanciato su Repubblica qualche giorno fa e in quella sede era accompagnato da un articolo “gemello” di Tito Boeri, che sosteneva grosso modo le stesse tesi. Mi spiace dirlo, ma quell’articolo gemello era equilibrato, ma soprattutto si presentava come un articolo di opinione (e quindi si poteva permettere di dare giudizi): questo invece si presenta come una sorta di rapporto e ha la pretesa di dimostrare attraverso i dati le conclusioni che vengono tratte: dovrebbe valutare più che giudicare. Tuttavia nel documento io vedo – parere personale – un certo numero di dati, analisi e argomentazioni nella maggior parte dei casi deboli e/o superficiali, pochissima valutazione e moltissimi giudizi, quasi sempre netti e molto pesanti, talvolta palesemente forzati: questo missmatch balza immediatamente agli occhi e a mio avviso scredita largamente le conclusioni che traete. Conclusioni che invece, se ben argomentate, sarebbero assolutamente condivisibili. Ps – sull’affermazione da lei riportata: per un esperto del settore, mi sembra un po’ l’equivalente di dire: “è evidente l’incredibile complessità di questo strumento”, indicando una graffetta.
Emanuele
Prof. Perotti, lei ha fatto una lunga serie di articoli, tutti con lo stesso stile e con lo stesso tono di denuncia spesso gratuita e ideologica. Una parte significativa dei commentatori, generalmente quelli più esperti delle tematiche da lei trattate, hanno sottolineato la stessa cosa. Ci rifletta un attimo. Non basta selezionare bene i dati da esporre (corretti, per carità) per potersi permettere giudizi così tranchant su qualunque cosa riguardi anche solo lontanamente lo Stato.
umbeD
E cosa dire di un bel corso sulla net etiquette, ovviamente per manager a 2000 euro? Di un noto ente della Lombardia? O magari dei corsi di inglese per taxisti con classi da 35/40 persone? Avete mai fatto un giretto per approfondire lo stile di vita dei titolari degli enti accreditati?
NazarioDM
Quando vuole venga a vivere un mesetto a casa mia, e poi giudicherà lo “stile di vita dei titolari degli enti accreditati”. Purtroppo l’approccio alla formazione professionale è sempre, come fanno notare gli autori, senza alcuna valutazione. Si valuta con la pancia e mai con i dati. Non si valuta la mai l’efficacia dei corsi.
Daniele Bondonio
Buongiorno, da parecchi anni (fine anni ’90) mi occupo di valutazione dei contributi alle imprese ed incentivi allo sviluppo economico locale. Ho
iniziato la mia produzione scientifica negli Stati Uniti (ph.D. Carnegie Mellon University) e quindi il tipo di analisi sui cui lavoro è da sempre la valutazione d’impatto con approccio controfattuale citata nell’articolo (che mira a stimare gli effetti causali dei
contributi e che negli Stati Uniti ha un’importante e lunga tradizione nell’orientare le scelte pubbliche). Negli ultimi anni collaboro con alcuni pezzi della Commissione Europea (Evaluation Unit della DG-Regional Policy e Jrc-Ipts) che stanno lavorando per cambiare rotta nella prassi valutativa dei contributi europei in seno alla commissione. Dal mio punto di vista, segnalo che sui contributi europei del fondo per lo sviluppo regionale (Fesr) spesi in Italia il problema principale non è l’assenza di valutazioni che servano a capire se le politiche funzionino o meno. Anzi, proprio su dati Italiani, molto più che in altri paesi europei, sono stati prodotti alcuni rilevanti ed utili lavori di valutazione d’impatto. Da ultimo cito un recente studio commissionato dalla DG-Regional
Policy che mi vede coinvolto [http://ec.europa.eu/regional_policy/information/evaluations/impact_evaluation_en.cfm#1]. Ma oltre al sottoscritto, esiste un gruppo di persone nell’università Italiana e Banca d’Italia molto attivo
proprio su questo tema. Alcune regioni Italiane (Piemonte) sono all’avanguardia in Europa,
circa la disponibilità di dati sui beneficiari dei contributi alle imprese integrati con dati amministrativi sull’anagrafica, occupazione e performance produttiva delle imprese. Su questi dati hanno anche commissionato con continuità valutazioni d’impatto. Queste valutazioni
però:
a) sono al di fuori del circuito istituzionale delle
valutazioni richieste dalla Commissione Europea che fino a tempi recenti hanno prodotto invece (con costi spropositati) una sterminata attività di mera
rendicontazione della spesa, largamente inutile ad orientare le scelte dei decisori pubblici. A scanso di equivoci è bene sottolineare, però, che questo è uno scandalo tutto Europeo (i cui responsabili sono in seno alla Commissione, non in Italia).
b) Non riescono ad influire nel processo decisionale
che dovrebbe portare alla re-definizione delle politiche. Qui si sconta un gap-culturale (comune a tutta l’Europa) relativo alla scarsa abitudine ad
orientare le scelte pubbliche in base all’evidenza empirica. Perché ciò accada occorre però anche un rinnovamento del mondo dell’informazione, che dovrebbe porre con più frequenza l’evidenza empirica al centro del dibattito, e non posizioni pre-confezionate sulla base di convinzioni a priori o peggio, interessi specifici degli editori di riferimento.
Roberto Perotti
Grazie, molto utile
NazarioDM
“Tuttavia, la stragrande maggioranza di queste valutazioni sono largamente inutili e servono solo a mantenere un sottobosco nel sottobosco, quello dei centri studi”. Parole sante!
Iris
Apparentemente analitico, l’articolo del Prof. Perotti risulta in realtà un po’ parziale e sommario per agevolare il passaggio dalla pars destruens alla pars construens. Le affermazioni sintetizzate nell’introduzione sono a mio parere vere, soprattutto quelle contenute al punto 4 (inutile complessità di una programmazione “a razionalità assoluta”) e al punto 2 (ipertrofia ed inefficacia del terziario alimentato dai fondi strutturali).
Tuttavia, i giudizi espressi al punto 1 potrebbero essere molto più articolati, e meno apodittiche le previsioni del 5° e ultimo punto; inoltre, in tema di valutazione, non è da sottovalutare il recente miglioramento nel grado di trasparenza, accessibilità dell’informazione e “valutabilità” delle politiche finanziate dai fondi strutturali.
Per quanto riguarda il punto 1, è indubbio che la conoscenza degli effetti delle politiche finanziate dai fondi strutturali sia inadeguata, e bene fa l’autore a enfatizzare questa lacuna a fronte dello sperpero di risorse pubbliche pagate al costoso sottobosco pubblico di “valutatori”. Tuttavia, qualcosa in più si può dire e si è detto. Ad esempio, che l’efficacia di queste politiche è fortemente condizionata dal loro carattere pienamente aggiuntivo e non sostitutivo rispetto alle politiche ordinarie, nonché dalla qualità normativa/regolatoria di quest’ultime e dalla loro capacità di spesa corrente e di investimento rispetto ai fabbisogni del territorio. Ed ancora, che l’efficacia di queste politiche non può prescindere da un efficace contrasto alla criminalità e alla illegalità diffusa e che l’”oceano di retorica” non dipende solo dalla mentalità burocratica e dirigistica, ma anche e soprattutto dall’incapacità decisionale della politica e dalla non sovrapposizione fra il ciclo elettorale dei governi regionali e nazionale e il ciclo settenale delle politiche europee, nonché dalla governance partenariale eccessivamente complessa e “deresponsabilizzante” e dal non corretto disegno del sistema di incentivi al quale rispondono politici e burocrati.
Per quanto riguarda il pessimismo sul periodo 2014-2020, l’utilità dell’articolo potrebbe essere proprio quella di affiancare, alla dovuta e corretta denuncia, anche alcune osservazioni più costruttive (ricorrendo agli strumenti della teoria delle decisioni e della public choice) per migliorare la valutazione e l’efficacia di queste politiche, senza timore di azzerare le innumerevoli rendite di posizione consolidatesi nell’amministrazione pubblica, ma salvaguardando tuttavia gli obiettivi propri della coesione (non condivido quindi l’idea, espressa mesi fa da Perotti, di annullare tutto per finanziare la riduzione del cuneo fiscale a livello nazionale).
Infine, è un po’ ingeneroso il severo giudizio sugli indicatori di risultato, stante l’innegabile sforzo rispetto al passato sulla definizione di target e misurabilità dei risultati (perseguita anche attraverso l’affinamento delle statistiche disponibili a livello territoriale, il cui principale, ma non unico, risultato è rappresentato dagli “Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo pubblicati sul sito dell’Istat”).
Così come ingeneroso è l’aver ignorato tutto l’impegno collegato al progetto “open coesione”, che peraltro è una delle principali fonti per l’articolo stesso. Il grado di trasparenza, accessibilità dell’informazione e “valutabilità” delle politiche finanziate dai fondi strutturali è enormemente aumentato negli ultimi anni ed è senz’altro assai superiore delle politiche ordinarie. Se è vero quanto Perotti afferma sulla valutazione, è però anche vero che recentemente si create le premesse per favorire una valutazione aperta e partecipata: dalle premesse bisogna passare alle prassi consolidate, d’accordo, ma comunque è un progresso in atto da non sottovalutare.
un cittadino informato
Attenzione all’affidabilità di opencoesione, che è uno strumento (lodevole come sforzo, ancora affinabile come risultato) nato come aggregatore ex-post di dati provenienti da moltissimi sistemi informativi diversi in uso presso le diverse amministrazioni: ciò causa in alcuni casi disallineamenti, incongruenze o disomogeneità perchè le unità d’analisi dei sistemi informativi che lo alimentano sono diverse tra loro e/o perchè alcune voci, inserite nei sistemi informativi che stanno a monte con una certa logica, vengono poi trasposte e lette da opencoesione con una logica differente. Questi problemi sono noti ed è aperto un confronto su come migliorare l’affidabilità complessiva di opencoesione.
Nel caso dei dati riportati nell’articolo, i 500.000 progetti in realtà sono, per la grande maggioranza, interventi individuali. Ad esempio è possibilissimo che un voucher su opencoesione risulti come un progetto. Questi disallineamenti fanno sì ad esempio che un corso a cui partecipano cento persone possa risultare come cento progetti invece che come uno solo.
Iris
Si certo, la qualità dei dati è perfettibile e su questo c’è consapevolezza. Ma è importante l’impegno verso la piena applicazione del principio di accessibilità totale. Rispetto a 10 anni fa, qualsiasi soggetto che voglia cimentarsi in una valutazione, o che semplicemente voglia sapere “cosa si compra con quei soldi”, oggi è molto facilitato per quanto riguarda il reperimento di dati e informazioni. Se ciò nonostante l’offerta di valutazione resta così mediocre, bisogna chiedersi il perché. Il vero problema infatti non è soltanto puntare l’indice sul “sottobosco di centri studi”, ma piuttosto capire perché non vi sia una domanda di valutazione attenta e qualificata, in grado di chiedere ed ottenere valutazioni “utili”. Tale domanda dovrebbe essere espressa in primo luogo dai responsabili delle politiche, dai beneficiari e in generale dai tax payers. Se tali categorie sono così “disattente”, la vera questione da affrontare diviene allora il corretto disegno e attribuzione di responsabilità, incentivi e sanzioni fra i diversi componenti della complicata governance di queste politiche, nonché il rafforzamento del controllo sociale e il diritto di cittadinanza.
Peraltro, sono tutte questioni che investono la generalità delle politiche, non soltanto quelle finanziate dai fondi strutturali, che anzi rappresentano l’unico ambito di policy dove, se non altro, si discute della necessità di valutazione e qualche buona prassi è stata realizzata.
un cittadino informato
Sottoscrivo ogni parola!
Andrea Chiari
Molti si preoccupano (giustamente) quando non riusciamo a spendere i soldi europei. Io mi preoccupo quando li spendiamo. Senza richiamare gli scandali del sud (formazione professionale in primis), anche al nord, nonostante i formalismi pignoli e la burocrazia di controllo (e so quel che dico, maneggiando per lavoro questi fondi), diciamo che ci sono finanziamenti “non essenziali” per progetti fantasiosi. Utilizzare queste somme rilevanti semplicemente per abbattere le tasse sarebbe più produttivo. Mi dispiace, da europeista che sono, rilevare questo limite (probabilmente il più devastante) che mette in discussione la natura dell’attuale progetto europeo. Forse sarebbe meglio realizzare con i soldi europei grandi progetti strutturali senza disperdere tante mance per progettini a disposizione di assessori locali a vantaggio sostanzialmente della macchina che li gestisce.
Andrea
La valutazione degli effetti della spesa è sempre stata un problema oltre che un business per chi la realizza.
Proprio per cercare di risolverlo, la nuova programmazione 2014-2020 obbliga gli stati a definire parametri e misurare i risultati dei fondi impiegati, attraverso l’adozione di un Perfomance Framework:
http://www.fasi.biz/it/finanza/20-approfondimenti/11036-politica-coesione-2014-2020-il-perfomance-framework-per-valutare-i-programmi.html
Pure l’efficacia di questo framework sarà però da valutare.
Intanto, visti gli stanziamenti, veramente viene voglia di pensare a un taglio pesante delle tasse per evitare tutto quello che consegue a questo sistema di finanziamento dello sviluppo.
Sicuramente un effetto sulla crescita sarebbe evidente…
Matteo
Fondi FES Campania, Puglia e Sicilia indirizzati ai soliti noti http://matteo-equilibrio1.blogspot.com/2014/02/la-tris-lape-jeremie-e-yalla.html
qwerty
Giuste le critiche su valutazione, ma altre cose sono affrettate.
Dite che la nuova programmazione 2014-20 “non sarà diversa da quella attuale nella sostanza”. Non è proprio così. Nella precedente, come da voi detto, il cofinanziamento era praticamente tutto in capo allo stato (per “regioni e provincie, i soldi FSE sono praticamente gratuiti”). Ora non sarà più così e le % di riparto dei fondi FSE e FESR saranno: UE 50%, stato 35%, regioni 15%. Poco o tanto? da quasi 0 a, per es, 400 ml€ per l’ER (leggete il QSR ER).
Il problema semmai sarà che ora le regioni, specie le più piccole, cercheranno di far stare nella programmazione dei fondi UE tutto ciò che prima facevano con risorse proprie o trasferimenti nazionali e che ora sono assai ridotti. In più le regioni ora devono trovare pure i soldi per cofinanziare i fondi UE.
Le regioni, dunque, saranno sempre più vincolate alle programmazioni europee. Una perdita di sovranità, ma anche di democrazia, perché una giunta regionale deciderà ben oltre il tempo del suo mandato.
Cambierebbero anche altre cose importanti (concentrazione delle risorse; valutazione: target e condizionalità ex ante), ma capisco che se date di Barca i giudizi che ho letto nei commenti non intendiate prestare troppa attenzione a queste cose. Sbagliate, perché la nuova programmazione europea risente molto di tante cose scritte e dette da Barca, cosa di cui bisognerebbe essere un po’ più orgogliosi come Paese, forse pesano le gelosie accademiche.
tito bianchi
A me lo stile tranchant al vetriolo dell’articolo a dire il vero è piaciuto. Il mondo dei fondi strutturali in cui lavoro ha bisogno di un po’ di provocazioni dirette. Peccato che, al di là delle imprecisioni il pezzo è un contributo poco utile per migliorare l’efficacia di questa spesa, di cui, è vero, si sa piuttosto poco. Se è vero che non siamo in grado di provare quanto essa sia efficace in rapporto ad altre, basarsi su qualche aneddoto per sostenere che sono tutti soldi buttati è altrettanto privo di fondamento ed in questo consiste il pregiudizio ideologico di cui parlano molti commenti.
Un po’ di valutazione sull’efficacia della spesa dei FS si fa, ma ben poca passa gli standard di validità degli autori. Premesso che non credo di condividere questi criteri, vorrei chiedere a Perotti e Teoldi di citare un item di spesa pubblica per investimenti che viene valutata secondo i vostri criteri in modo soddisfacente.
Dori
Devo dire che l’attività di chi effettua controlli sia di primo che di secondo livello sui rendiconti di spesa e sulla documentazione dell’attività di formazione erogata, riesce invece, a valutare pienamente oltre alla politica regionale o provinciale adottata sul territorio per far fronte ai problemi di occupazione e specializzazione dei propri cittadini, anche la qualità dei progetti approvati e svolti e la correttezza dell’impiego delle risorse.
La formazione alle imprese, se viene erogata in maniera mirata, sulla base di progetti studiati appositamente sia per il personale sia per l’innovazione di processo o di prodotto, si è sempre rivelata efficace.
A mio avviso volendo valutare l’utilizzo dei fondi oggi esistono già strumenti efficaci. Ciò che manca è l’approccio deontologico corretto. Se non si è corretti non si va da nessuna parte. Ahimè.
Basilio Buffoni
Vorrei intervenire nel dibattito: in sintesi secondo me
1) che si discuta pubblicamentedi fondi strutturali e di valutazione, è un bene;
2) che si ipotizzi che sarebbe meglio fare a meno del FSE è discutibile, e comunque non approfondito adeguatamente;
3) che il cofinanziamento dei programmi abbia il significato descritto nello studio, non è vero;
4) che la valutazione incida poco, anche per le sue carenze, alle scelte dei policy maker, è vero; ma non è vero che sia irrilevante e futile;
5) che la complessità della programmazione sia eccessiva è indubbio, ma bisognerebbe spiegare perché è così, e come fare a semplificare.
Lo studio si concentra sul FSE in Italia (ma si preannuncia una seconda puntata sul FESR, e ne sono lieto).
Si lascia intendere che sarebbe meglio per l’Italia fare a meno del FSE, considerando che non produce effetti positivi provati. Non viene detto che la prospettiva di un opting out dell’Italia dal FSE è politicamente irrealistica, e socialmente forse improponibile. Questo mi sembra una carenza
Il cofinanziamento non è quel che viene descritto nello studio: dire che è un’affermazione impropria: piuttosto, per ogni euro di fondi strutturali si realizzano attività che valgono due euro, il secondo euro pagato direttamente dalle autorità nazionali.
Che le Regioni cofinanzino poco non dimostra che non abbiano interesse a che le iniziative siano efficaci.
Maurizio Daici
Argomento interessantissimo e caldo, in questo periodo in cui le Regioni hanno presentato i propri programmi alla Commissione europea e si apprestano all’eventuale (meglio, inevitabile) negoziazione sui contenuti degli stessi. C’è un limite “strutturale” all’utilizzo delle valutazioni ex post per la programmazione delle nuove misure (nuovi programmi): queste ultime devono essere definite prima del completamento dei programmi precedenti. Infatti, i programmi 2007-2013 si concluderanno nel 2015 e quindi non avranno avuto nessuna influenza sulla preparazione dei programmi 2014-2020, già presentati come sopra ricordato. Inoltre, non ho mai visto un vero interesse da parte dei”decisori” (politici, imprenditori, sindacalisti…) per i risultati degli investimenti dal punto di vista dello sviluppo socio-economico generale di un territorio o di una regione; l’atteggiamento è sempre quello di chi deve rispondere a interessi del momento, di singole categorie o territori, possibilmente cercando di accontentare tutti. Infine, è evidente che l’indice della spesa non è un indicatore del buon uso delle risorse; ma questo è diventato un parametro quasi unico (“Altrimenti perdiamo i soldi!”).
Giovanni
Serve aggiungere altro?
http://blog.ilgiornale.it/angelini/2014/11/15/la-ue-non-ci-tutela-e-intanto-noi-paghiamo
gilberto
L’articolo è del 2014, ma a tutt’oggi credo che poco sia cambiato. Dopo parecchi anni di porte chiuse in faccia nelle selezioni corsi FSE mi sono reso conto che quelli in cerca veramente di lavoro sono anche quelli trattati peggio e scartati, il che è decisamente assurdo. Non esiste davvero un criterio oggettivo per le selezioni, io vorrei esserci in eventuali “controlli”, i numeri di accesso sono sempre ridicoli ergo mi sono assolutamente convinto che tutto questo denaro che circola serva agli enti di formazione per avere liquidità e alle aziende per garantirsi la blasonata mano d’opera gratuita. Intanto personalmente ho preso un esaurimento nervoso per disoccupazione.
marco
Buongiorno perdonate l’intrusione e magari la domanda fuoriluogo:
Esiste un ente, una struttura o similare a cui rivolgersi per il controllo di un corso di formazione regionale finanziato con fondi europei? Della serie se ci si trova difronte ad inadempienze dell’ente appaltante a chi si può comunicare e denunziare cio? (oltre la regione) Grazie per l’attenzione
nicola
Da tempo monitoro i progetti della mia Regione. La maggior parte sono totalmente inutili ed assurdi esempio?
ARISTO PROJECT
Progetto per migliorare le condizioni fisiche dei giovani atleti europei sia in fase di allenamento che di gara, creando uno specifico Protocollo di monitoraggio
Il progetto comincia con una riunione dei soggetti attuatori. Segue una produzione di un documento banale. Si conclude con una conferenza celebrativa dei risultati ottenuti con conferenzieri che biascicano del nulla.