Il 30 gennaio scorso, il Consiglio universitario nazionale ha pubblicato un documento sulle “Emergenze del sistema”, che ha riscosso un inatteso interesse mediatico. I numeri sono impietosi: il nostro è un sistema universitario in fase di pericoloso ridimensionamento.
Il capitolo “Reclutamento del personale universitario-personale docente” glissa tuttavia sulla questione dell’equilibrio di genere. Gli ultimi dati Istat disponibili sono del 2008, ma restano sostanzialmente immutati nel 2013 per i limiti stringenti al reclutamento, e fotografano una situazione a dir poco drammatica.
L’equilibrio di genere è soddisfacente nella classe dei ricercatori, ma nei ruoli più alti le donne sono la metà dei colleghi professori associati e meno di un quarto dei professori ordinari.
I rapporti di ruolo sono ragionevoli in assoluto per le donne, dove si nota l’aspetto piramidale della distribuzione, ma si rivelano del tutto sbilanciati per gli uomini, dove i professori ordinari sono più numerosi persino dei ricercatori.
Sanare questa situazione pone dilemmi politici atroci: dovremmo bloccare le progressioni di carriera dei colleghi, per lasciare spazio al riequilibrio di genere? Iniettare finanziamenti più che cospicui per reclutare nuove forze femminili (“piano straordinario delle professoresse”)? Lasciare tutto come sta e, de-finanziando l’università, disincentivare l’impegno dei giovani uomini nella docenza universitaria, consegnando un lavoro poco o sotto-pagato alle donne?
Si vedranno nei prossimi anni gli effetti delle recenti riforme in materia di ordinamento universitario e reclutamento nei ruoli della docenza. Tuttavia, solo una coraggiosa politica del prossimo ministro potrà correggere queste distorsioni, indegne di un paese civile.
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Checo
Piú che una questione di genere, il problema che si evince da queste statistiche è il “tappo” formato dalla generazione dei “dinosauri”. Negli anni del bengodi, si sono stabilizzati senza avere neanche la metà dei meriti né gli oneri che si richiedono ai giovani ricercatori. Sono entrati, secondo criteri poco trasparenti, a valanghe, profumatamente pagati, però non portano avanti attività di ricerca di qualità e delegano il carico di docenza ai precari, ridotti a fare la gavetta a vita, sotto il ricatto “o cosí o te ne puoi andare anche adesso”. Il risultato è una enorme spesa improduttiva, uno scarso impatto internazionale (alcune eccellenze escluse), e l’emigrazione dei cosiddetti “cervelli”, terra bruciata per il futuro.