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Editoria scientifica, un pozzo di (extra) profitti

Secondo un rapporto della Commissione europea il prezzo medio delle pubblicazioni degli editori scientifici commerciali è cresciuto tra il 1975 e il 1995 a un tasso superiore di oltre 300 punti percentuali rispetto al tasso di inflazione. E tra il 2001 e il 2005 la crescita è stata superiore all’inflazione del 26 per cento negli Stati Uniti e del 29 per cento in Europa. Proprio mentre l’innovazione tecnologica permetteva di scaricare una parte crescente dei costi sugli stessi autori. Nel breve periodo, l’unica soluzione è un maggiore coordinamento tra gli acquirenti.

Lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha modificato radicalmente il mercato dell’editoria scientifica, rendendo disponibile in formato elettronico quasi il 90 per cento delle pubblicazioni periodiche e imponendo una sostanziale riorganizzazione delle biblioteche universitarie e dei principali istituti di ricerca.

Processo di concentrazione del settore

La digitalizzazione dell’editoria scientifica è stata però accompagnata da una fortissima crescita dei prezzi. Secondo un recente rapporto della Commissione europea (Study on the economic and technical evolution of the scientific publication markets in Europe), il prezzo medio delle pubblicazioni degli editori scientifici commerciali è cresciuto tra il 1975 e il 1995 a un tasso superiore di oltre 300 punti percentuali rispetto al tasso di inflazione; tra il 2001 e il 2005 la crescita è stata superiore all’inflazione del 26 per cento negli Stati Uniti e del 29 per cento in Europa. Ciò mentre l’innovazione tecnologica permetteva agli editori di scaricare una parte crescente dei propri costi sugli stessi autori, ai quali viene comunemente richiesto di inviare lavori già impaginati e correggere le bozze di stampa.
L’innovazione tecnologica e la sempre più intensa globalizzazione delle conoscenze hanno determinato un forte processo di concentrazione nel settore dell’editoria scientifica, dove operano oggi poche multinazionali di grandissime dimensioni. (1) Sempre secondo il rapporto della Commissione, la quota del numero totale di citazioni, la principale misura quantitativa della rilevanza di una pubblicazione scientifica, detenuta dai primi tre editori è superiore al 50 per cento in ben sette aree scientifiche su ventidue.
Il settore è poi caratterizzato da barriere all’entrata difficilmente eliminabili, per l’importanza che la reputazione di una rivista può avere sulla carriera di chi vi pubblica, e gli editori commerciali sfruttano le nuove tecnologie per rafforzare il loro già elevato potere di mercato, imponendo contratti pluriennali che prevedono l’acquisto dell’intero catalogo (il cosiddetto big deal, in sostanza un gigantesco bundling), impedendo alle biblioteche di acquistare soltanto i titoli di effettivo interesse e fissando tassi di crescita dei prezzi normalmente vicini al 5 per cento all’anno, tre punti in più rispetto al tasso di inflazione. Le biblioteche sono così costrette a ridurre i fondi a disposizione per gli abbonamenti a riviste di editori più piccoli e per le monografie. (2) I risultati economici delle principali case editrici sono ovviamente floridi.
L’evidenza disponibile mostra però che non c’è alcuna correlazione tra la qualità di una rivista e il costo dell’abbonamento. Le pubblicazioni degli editori senza fini di lucro, spesso le principali associazioni scientifiche statunitensi e britanniche, hanno mediamente un numero di citazioni più elevato di quelle degli editori commerciali e prezzi significativamente più bassi. (3)

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La risposta è nel coordinamento

Diverse soluzioni sono state proposte per ridurre il potere di mercato degli editori scientifici commerciali: il sovvenzionamento del mercato dell’editoria scientifica senza fini di lucro; il sanzionamento di pratiche anticoncorrenziali come il bundling; la creazione di riviste scientifiche ad accesso gratuito (open access) gestite direttamente dalle università e dagli istituti di ricerca; la creazione di archivi informatici pubblici e ad accesso gratuito (open archives) dove depositare la produzione scientifica di ciascuna istituzione; un maggiore coordinamento tra gli acquirenti, università e istituti di ricerca, in modo da controbilanciare la concentrazione dal lato dell’offerta. (4)
Il movimento internazionale a sostegno delle pubblicazioni ad accesso aperto è assai attivo (per esempio, in Italia, il progetto
Pleiadi) e i suoi principi, enunciati nella Dichiarazione di Berlino, sono stati sottoscritti dalla maggioranza degli atenei italiani con la firma della Dichiarazione di Messina. (5) Ma nel breve periodo si possono ottenere risultati concreti soprattutto attraverso un maggiore coordinamento tra gli acquirenti.
Le biblioteche accademiche italiane si sono riunite già da alcuni anni in gruppi di acquisto, per condurre le trattative con gli editori su una base maggiormente equilibrata. Da un anno, una convenzione tra la Crui e i tre principali consorzi (Ciber, Cilea e Cipe) ha portato alla costituzione di
Care, un gruppo di coordinamento per le politiche di accesso alle riviste elettroniche e la stipula dei contratti di acquisto per conto delle università, che ha già avviato una trattativa per il rinnovo unico a livello nazionale dei contratti con l’editore Elsevier, il cui valore per le istituzioni accademiche era stimabile in circa 27 milioni di euro all’anno.
Come sempre quando numerosi agenti devono delegare i loro interessi a un unico rappresentante, il problema principale è quello del coordinamento. Care ha bisogno che tutte le istituzioni interessate all’esito della trattativa siano consapevoli del valore della posta in palio e siano disposte a rinunciare a eventuali benefici individuali in nome dell’interesse collettivo. Gli editori, primo tra tutti Elsevier, cercano infatti di spezzare il potenziale fronte comune con offerte ad hoc rivolte alle singole istituzioni.
Per garantire un maggiore coordinamento, sarebbe assai utile un impegno esplicito da parte del ministero dell’Università. L’abbandono del formato cartaceo comporta un aumento del 20 per cento del costo degli abbonamenti, perché le risorse elettroniche non godono dell’esenzione dal pagamento dell’aliquota Iva. Per i conti pubblici non si ha ovviamente alcun beneficio, perché alle maggiori entrate fiscali corrispondono maggiori spese per l’università. L’effetto è però distorsivo, perché riduce gli incentivi ad adottare una tecnologia più moderna, efficiente e che riduce i costi di catalogazione e archiviazione. Se il ministero decidesse di devolvere la quota del maggiore onere Iva a un fondo nazionale per la contrattazione collettiva degli acquisti di risorse elettroniche, oltre a dare un significativo segnale di sostegno all’iniziativa, creerebbe un forte incentivo per tutti i partecipanti a superare gli eventuali problemi di coordinamento.

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(1)
Elsevier ha acquisito nel 2001 Harcourt e con essa il marchio Academic Press; attualmente pubblica oltre duemila riviste scientifiche. Wiley, una delle principali case editrici scientifiche statunitensi, che nel 2006 pubblicava oltre duemilaquattrocento riviste scientifiche e professionali, nel novembre dello scorso anno ha acquistato per oltre 850 milioni di euro l’editore Blackwell, che nel 2005 pubblicava oltre ottocento riviste. Springer Scientific+Business Media, proprietaria di alcuni marchi storici dell’editoria scientifica come Kluwer (675 riviste, tra cui l’intero catalogo dell’italiana Ipsoa), Springer (oltre settecento riviste) e Lippincott (specializzata nel settore medico, con oltre duecento titoli), è nata dalla fusione dell’olandese Wolters Kluwer e della tedesca BertelsmannSpringer, decisa da Candover e Cinden, i due fondi britannici di private equity proprietari delle società. Taylor and Francis, parte del gruppo Informa, e proprietaria del marchio Routledge, pubblica oltre duemila riviste scientifiche.
(2) I medesimi grandi editori commerciali stanno inoltre ampliando l’offerta di pacchetti di monografie in formato elettronico, estendendo il bundling anche a questo settore.
(3) Vedi Bergstrom T.C., 2001, “Free Labor for Costly Journals?”, Journal of Economic Perspectives, 15, pp. 183-198. E il già citato rapporto della Commissione europea.
(4) Tra le recenti iniziative volte a sensibilizzare le Autorità antitrust sul problema dell’editoria scientifica, si segnalano la petizione alla Commissione europea per un libero accesso ai risultati della ricerca scientifica finanziata con fondi pubblici (http://www.ec-petition.eu/) e la lettera inviata in occasione dell’acquisto di Blackwell da parte di Wiley dai rappresentanti di numerose associazioni di biblioteche scientifiche europee al direttore generale per la concorrenza della Commissione europea (
www2.kb.dk/liber/news/PhlipLowe.pdf).
(5) La quinta conferenza fra i firmatari della Dichiarazione di Berlino, “Berlin 5 Open Access: From Practice to Impact: Consequences on Knowledge Dissemination”, si svolgerà quest’anno presso l’università di Padova, dal 19 al 21 settembre.

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  1. Alessandro Figà-Talamanca

    Non credo che il “coordinamento” tra istituzioni sia in grado di difendere le università, gli istituti di ricerca e gli autori di pubblicazioni scientifiche dalla rapina messa in atto dall’editoria scientifica commerciale. Il singolo autore, soggetto a pressioni molto forti per pubblicare su riviste con alto “impact actor”, è in una posizione molto debole per resistere all’assurda richiesta di cedere i diritti di pubblicazione, anche elettronica, in via esclusiva, senza alcun corrispettivo. Dovrebbe essere la legge, come succede negli USA, a vietare la cessione esclusiva dei diritti di pubblicazione per ricerche svolte con denaro pubblico. La pubblicazione elettronica dei risultati delle ricerche sul sito di ciascuna istituzione metterebbe un freno all’esigenza di acquistare a caro prezzo i prodotti offerti dall’editoria commerciale. Solo una distorsione del mercato agevolata da norme inadeguate consente che le istituzioni scientifiche che sono gli effettivi produttori e gli acquirenti delle pubblicazioni scientifiche debbano pagare salato per acquistare i loro stessi prodotti.

    • La redazione

      Concordo che una legge che imponga la pubblicazione su siti open access dei risultati delle ricerche svolte con denaro pubblico sarebbe utile, anche se l’effettiva applicazione sarebbe difficile da controllare. Però non sono così pessimista sui risultati che possono essere raggiunti con il coordinamento tra gli acquirenti. Nel Regno Unito, dove la legge esiste, è anche attivo un efficiente consorzio di acquisto.

  2. Giorgio Corani

    Da ricercatore, mi chiedo quale sia l’entità delle spese affrontate dalle riviste.
    Come infatti dite anche voi, gli autori non ricevono nessun compenso (principio che condivido) e lo stesso vale anche per i reviewers.
    Le riviste fanno solo un editing molto leggero dei testi.

    Ho il sospetto che ci sia una fortissima sproporzione tra il prezzo delle riviste, e il costo effettivo per realizzarle.
    Altrimenti non si spieghrebbe come possano sopravvivere le riviste open acces, gratuite e in molti casi di qualita’ eccellente.

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