La protezione del made in Italy è una questione decisamente importante per il sistema industriale italiano. Difficile riuscirci con norme che hanno efficacia solo sul territorio nazionale. Tanto più se non distinguono tra prodotti alimentari e industriali e se per questi ultimi cedono alla tentazione anacronistica di ricercare quelli esclusivamente realizzati nel nostro paese. Una soluzione efficace si può trovare solo con accordi multilaterali che stabiliscano una disciplina comune e un riordino generale del coacervo di disposizioni oggi esistenti

Le norme sulla protezione del made in Italy contenute in alcune recenti proposte di legge e in varie disposizioni della Finanziaria tengono conto solo in parte di un’esigenza avvertita da anni dalle imprese italiane. Come tutte le norme nazionali, hanno un’efficacia limitata al territorio italiano. In assenza di accordi internazionali che riconoscano globalmente la tutela, non garantiscono perciò alcuna protezione all’estero.
Peraltro, la Finanziaria non interviene sul problema fondamentale: la determinazione dei criteri principali attraverso quali attribuire a un prodotto nazionale la qualità di “made in Italy”. E le proposte di legge, pur avendo il pregio di entrare nel merito del problema, non tengono conto di alcune distinzioni sostanziali.

Il legame tra bene e luogo di produzione

Marchi di origine e denominazioni geografiche sono concetti differenti che, tuttavia, hanno in comune l’obiettivo di creare un legame univoco tra un bene e il suo luogo di produzione, al fine di tutelare il consumatore da una parte e l’industria nazionale dall’altra.

Il marchio di origine indica il collegamento fra Stato di produzione e un bene non alimentare. L’individuazione dell’origine è resa sempre più difficile dalla dispersione delle fasi di lavorazione in più Stati: si è reso, pertanto, necessario stabilire regole tecniche per individuare quali, fra le operazioni di trasformazione, sono rilevanti per l’attribuzione dell’origine al prodotto finito. Si utilizzano per questo le cosiddette regole di origine, disposizioni normative già applicate per discriminare il trattamento doganale di prodotti importati da Stati diversi e caratterizzati da lavorazioni svolte in più paesi.
Ogni Stato è dotato di regole di origine diverse (la Ce, che ha competenza esclusiva in materia, ha elaborato una disciplina unica) e il processo di armonizzazione promosso dalla Wto, che doveva concludersi nel 1998, non è ancora terminato a causa delle difficoltà di trovare l’accordo fra Stati ricchi di materie prime e Stati trasformatori sull’individuazione delle fasi di produzione rilevanti per l’attribuzione dell’origine.

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Decidere che le lavorazioni sul tessuto cinese effettuate in Italia sono sufficienti a ottenere l’origine italiana della cravatta è solo parzialmente giustificato da ragioni economiche. Più rilevante, invece, è la forza negoziale che ogni paese esprime spinto dalle lobby produttive.

Marchio obbligatorio o volontario?

L’assenza di armonizzazione e l’obbligo di conformarsi alle norme dei vari paesi importatori espone gli imprenditori all’onere di marchiare il prodotto con origini differenti a seconda del paese in cui viene esportato. A ciò si aggiunge il rischio di non vedere riconosciuta l’etichetta made in Italy a molti prodotti italiani, non completamente ottenuti nel nostro paese.
A livello comunitario,alcuni settori industriali e dal Parlamento europeo hanno proposto di istituire un marchio di origine “made in Eu“, potenzialmente applicabile sia ai prodotti importati che ai beni prodotti in uno Stato membro e destinati a essere venduti sul territorio comunitario.

È una proposta che sottopone all’attenzione degli Stati l’alternativa tra l’obbligatorietà e la volontarietà di un marchio di origine. In altri termini, le regole comunitarie potrebbero rendere obbligatorio per ogni prodotto messo sul mercato comunitario il requisito della marchiatura. O, viceversa, limitarsi a stabilire un quadro normativo di riferimento per il produttore che desiderasse marchiare i propri beni.
La disciplina comunitaria dovrebbe tener conto delle disposizioni Wto, e in particolare di quelle contenute nell’Accordo per l’armonizzazione delle regole di origine non preferenziali.
E in vista della possibile istituzione di un marchio made in Eu, sarà opportuno tornare a riflettere sul rapporto tra norme europee e norme italiane sul “made in”.

Zone geografiche per gli alimentari

Le denominazioni geografiche indicano il collegamento fra una zona geografica o uno Stato e un determinato prodotto alimentare al fine di identificarne l’origine, la qualità e la reputazione.
Uno standard di protezione internazionale è previsto dall’accordo sulla tutela della proprietà intellettuale (Trips) del Wto e da altri accordi. Mancano, tuttavia, norme per rendere concretamente operativo lo standard all’interno dei paesi. La data concordata in seno al Wto per la soluzione dei problemi legati alla disciplina e all’applicazione della tutela delle indicazioni geografiche coincide con il termine, di difficile previsione, dei negoziati in materia di prodotti agricoli.

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Secondo la Comunità europea, i problemi potrebbero essere risolti con l’istituzione di un registro multilaterale nel quale elencare tutte le indicazioni geografiche meritevoli di tutela per tutti i prodotti, senza prevedere una tutela maggiore per vini e alcolici, come invece stabilito dal Trips. Questa posizione non è condivisa dagli Stati Uniti i quali, peraltro, hanno presentato un ricorso alla Wto proprio nei confronti della normativa Ce a tutela delle indicazioni geografiche, contestandone l’illegittima discriminazione che queste attuerebbero nei confronti dei prodotti stranieri.

Fully made in Italy difficile da trovare

In questo quadro, l’istituzione di un marchio fully made in Italy, prevista da una proposta di legge del gruppo Ds, auspicabile per i prodotti alimentari, solleva numerose perplessità riguardo ai prodotti industriali.
È infatti alquanto anacronistico discriminare fra prodotti interamente ottenuti in Italia e prodotti che, pur realizzati con fasi di lavorazioni parzialmente svolte all’estero, dal punto di vista qualitativo devono il più importante valore aggiunto al contributo italiano. Quali produzioni si svolgono, attualmente, interamente in Italia?

Le questioni sollevate, unitamente a quelle sull’usurpazione e alla contraffazione dei marchi, possono trovare soluzione efficace solo con accordi multilaterali che stabiliscano una disciplina comune e un riordino generale del coacervo di disposizioni di diversa fonte attualmente esistenti.
Per questo è importante che la diplomazia italiana si presenti con valide proposte suscettibili di incontrare il consenso internazionale: solo così potranno trovare adeguata protezione i prodotti italiani, come il prosciutto di Parma, il cui Consorzio si è impegnato in una complessa controversia con le autorità canadesi che ne hanno rifiutato la commercializzazione sul proprio territorio nazionale.

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