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Regione che vai, Rsa che trovi

Sulle Rsa mancano regole nazionali. Così ogni regione dà una propria interpretazione dei servizi che devono garantire e della compartecipazione ai costi richiesta alle famiglie. La legge delega di riforma è un’occasione per definire criteri più uniformi.

Confronto tra dodici regioni

Le residenze sanitarie assistenziali (Rsa) si configurano come il principale servizio di lungo-assistenza per anziani non autosufficienti. Eppure, dietro questa “etichetta” convenzionale si nascondono servizi residenziali molto diversi tra loro in termini di vocazione, destinatari e modalità di funzionamento. Le differenze si ripercuotono direttamente sui cittadini, che si ritrovano a fruire di servizi sensibilmente diversi a seconda della regione in cui risiedono, mettendo in discussione l’equità complessiva del sistema di welfare e la funzione del settore socio-sanitario. Tutto ciò è anche conseguenza di una normativa nazionale vetusta, sparuta e molto generica nel definire i perimetri generali del servizio, che necessita di un intervento di riforma per garantire maggiore uniformità nella risposta alla non autosufficienza.

Un tentativo di fotografare l’eterogeneità delle Rsa è proposto nel 5° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care (Oltc) di Cergas SDA Bocconi, che contiene un’analisi dei modelli di servizio esistenti, proponendo una comparazione tra le dodici regioni italiane in cui si concentra il maggior numero dei posti letto disponibili in Italia: Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana, provincia di Trento e Veneto. La ricerca si è basata sull’analisi documentale della normativa di riferimento, integrata da interviste con esperti del settore aderenti all’Osservatorio, per un totale di 77 atti analizzati. Per ogni regione, sono state prese in considerazione le variabili in grado di definire il posizionamento strategico dei servizi. In questo articolo riassumiamo i differenti posizionamenti individuati, con un approfondimento dedicato ai modelli di tariffazione, poiché sono emblematici per individuare possibili opacità nel garantire un servizio equo e uniforme sul territorio in termini di natura e intensità dell’assistenza erogata. Allo stato attuale non c’è infatti una normativa nazionale di indirizzo circa le caratteristiche essenziali che dovrebbero contraddistinguere le Rsa, pertanto le regioni hanno interpretato ed esercitato la propria competenza in materia in maniera eterogenea.

I modelli di tariffazione e le implicazioni per le famiglie

La retta delle Rsa si dovrebbe comporre di un mix tra quota sanitaria riconosciuta ai gestori grazie ai fondi del servizio sanitario regionale (Ssr) e la quota di compartecipazione richiesta alle famiglie per la copertura della componente alberghiera e assistenziale del servizio. Per quanto concerne la tariffa sanitaria riconosciuta ai gestori, si registrano marcate differenze nei valori stabiliti dalle regioni (tabella 1), con le tariffe per i moduli a più alta intensità assistenziale che spaziano da un minimo di 30 euro al giorno a un massimo di 87,7 euro al giorno. La differenza è in parte spiegata dalle diverse caratteristiche dei servizi (per esempio, in termini di figure professionali e prestazioni erogate), in parte da scelte politiche delle singole regioni. Tutto ciò porta però a chiedersi quanto sia equo oggi il sistema di residenzialità per anziani, poiché a tariffe così diverse corrispondono servizi di intensità e caratteristiche diverse.

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Anche sulla compartecipazione delle famiglie le scelte dei legislatori regionali sono varie: si va dall’assenza totale di una disciplina (per esempio, Veneto e Lombardia) alla indicazione dei valori massimi, che possono essere fissati o in relazione alla tariffa Ssr (per esempio Lazio, Friuli-Venezia Giulia), oppure slegati da essa (per esempio Emilia-Romagna). Le diverse scelte sembrano riflettere implicite politiche di finanziamento del welfare, in termini di quanto ricade sulle regioni e quanto è “scaricato” sulle famiglie (in funzione dell’entità della compartecipazione). Ma segnalano anche quanto le scelte siano trasparenti nei confronti dei cittadini o nascoste (nei casi in cui non è definita alcuna disciplina).

La tariffa giornaliera al minuto (tariffa die/minuti die di assistenza da garantire) può fornire indicazioni più chiare ai fini della comparazione e al modo in cui i valori sono definiti.

Con una certa sorpresa si scopre allora che in una stessa regione non c’è proporzionalità tra i servizi a più alta intensità assistenziale e quelli a più bassa intensità (ossia, che richiedono più o meno assistenza sanitaria, più costosa). Ad esempio, in una regione del campione vengono riconosciuti 0,33 euro al minuto per l’alta intensità e 0,39 euro al minuto per la bassa intensità. Inoltre, tra regioni non c’è proporzionalità legata all’intensità assistenziale richiesta, ovvero non necessariamente le regioni che riconoscono valori maggiori sono quelle che richiedono standard più alti ai gestori.

Servizi socio-sanitari o sanitari mascherati?

Il dato più evidente che emerge complessivamente dall’analisi trasversale della normativa è l’eterogeneità con cui le regioni hanno interpretato il concetto di residenzialità per anziani, definendo modelli di servizio profondamenti diversi (tabella 2). Ad esempio, i servizi e la risposta assistenziale spaziano da quelli sanitari (come riabilitazione estensiva) a quelli socio-assistenziali puri. Per quanto riguarda gli standard del personale, i minuti assistenziali previsti al giorno per assistito per i moduli a più alta intensità vanno da un minimo di 17 a un massimo di 62 per gli infermieri e da 77 a 206 per gli Oss, senza che questo sia legato a profonde differenze nelle caratteristiche dei servizi. In termini di skill mix, mediamente è richiesto un infermiere ogni 5,6 Oss, ma in alcuni contesti ne troviamo 1 ogni 3,3 per le alte intensità o 1 ogni 9 per le basse intensità.

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Il quadro non appare tanto figlio di una regia organica e di una riflessione strategica sul ruolo delle Rsa nella risposta alla non autosufficienza, quanto di interventi frammentati nel tempo e non sempre ancorati alle implicazioni di certe scelte sull’offerta ai cittadini.

Si hanno dunque realtà in cui la residenzialità ha di fattoun orientamento sanitario, in cui si scrive Rsa, ma si legge setting post-acuto o sub-acuto, tanto da avere mix di finanziamento anche integralmente basati su risorse pubbliche (come in sanità), a cui fa da contraltare una carenza strutturale di servizi per la non autosufficienza, che hanno altro tipo di finalità. All’opposto, altre regioni hanno scelto di orientare le strutture verso la presa in carico socio-sanitaria, creando almeno sulla carta le premesse per percorsi differenziati. I territori a orientamento ibrido, invece, grazie alla previsione di più servizi, di nuclei o di una modularità di tariffe e profili, hanno definito una rete più estesa e con capacità di presa in carico differenziata.

La sintesi della nostra ricognizione è che non si può parlare univocamente di Rsa a livello nazionale, poiché ogni regione (tra quelle incluse nelle analisi) ha associato al termine una pluralità di vocazioni e di unità di offerta differenti, di cui la residenzialità socio-sanitaria è solo una delle molte, senza mettere però chiari paletti e perimetri. Le conseguenze si ripercuotono nell’esperienza diretta dei cittadini. Mentre da più parti si invoca una “riforma delle Rsa”, bisognerebbe discutere di quale sia il servizio da riformare o, semmai, innovare, e anche di quanto debba essere ampia l’autonomia regionale nel definirlo. Finora sono mancate regole univoche nazionali, la riforma proposta dal governo costituisce la prima occasione storica di dibattito nazionale sul tema, e dovrà declinarlo anche rispetto all’autonomia differenziata. 

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  1. Callegari Angelo

    Buongiorno
    Ho letto il vostro articolo molto interessante…
    Faccio Avvocato del Diavolo Ma come mai nn si riesce a far fare ai Governi questa riforma molto importante nn si può avere diverse tariffe
    Ho sempre sentito tutti i governi e specialmente i ministri di competenza a dire solo belle parole ma di concreto nulla di nulla.Cosa si può fare ?
    Certo di un vostro riscontro

  2. L’analisi coglie nel segno la frammentarietà dei requisiti per il funzionamento, dei requisiti per l’accreditamento, delle quote, delle regole, dei criteri, delle procedure, degli obiettivi che, al netto dell’inefficienza e inadeguatezza dei legislatori, si può supporre stiano alla base delle scelte,
    La competenza regionale sulla sanità d’altra parte è un problema noto…..
    Speriamo che di fronte all’emergenza e al rischio imminente del collasso del sistema sanitario che si può evitare unicamente sostenendo il sistema socio sanitario, lo Stato mostri una capacità di sintesi legislativa efficace. Il mondo del socio sanitario sta ricoprendo una funzione sempre più “sanitaria”, e un ruolo fondamentale per la comunità, per le famiglie e per la persona. Solo un adeguato sostegno e regole univoche possono permettere e garantire questo ruolo . Speriamo davvero che questa riforma sappia affrontare in modo adeguato i temi, superando il “particulare” in una visione di insieme coerente, lucida ed efficace per la Comunità.

  3. Non sempre sono ben definite le regole di funzionmento delle residenze per anziani; in occasione del Covid-19 l’ Istituto superiore di sanità ebbe serie difficoltà a stabilirne il numero!
    Il grande problema oltre a quello sociale , in presenza di disabilità, è la qualità delle cure mediche fornite da un personale sanitario che non sempre ha qualificate competenze a prendersi carico di malati molto anziani e molto malati.

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