L’acqua dolce è diventata una risorsa scarsa, anche al Nord. Mentre l’Europa chiede nuovi impegni sugli inquinanti e sul riuso. Serve allora una strategia che dia indirizzi coerenti per affrontare la situazione in un’ottica di medio-lungo termine.
Il “problema acqua” dagli inizi del Novecento agli anni Novanta
La primavera e l’estate del 2022 ci hanno regalato un assaggio delle conseguenze di un clima che cambia. Ne avevamo già parlato su lavoce.info. Il 2023 si annuncia già peggiore perché, salvo un rinforzo delle piogge primaverili, è molto probabile che gli effetti della scarsità d’acqua saranno ancora più intensi. Ne abbiamo i primi sentori: il Po a Torino ha una portata inferiore del 35 per cento rispetto ai livelli già bassi del 2022; autobotti portano l’acqua potabile nei paesi montani del Cuneese e del Verbano e c’è chi lancia l’allarme “rubinetti asciutti” per 3,5 milioni di italiani.
Chi ha visitato la città di Matera sa che, in tempi antichi, gli abitanti si erano prodigati per scavare una enorme vasca nel tufo, il Palombaro Lungo, proprio sotto il centro cittadino: una cisterna per raccogliere l’acqua piovana. Una testimonianza di come alcune aree del nostro paese siano abituate a convivere con la scarsità idrica; conosciamo il problema e abbiamo le capacità per approntare soluzioni di adattamento.
Una preoccupazione, quella della mancanza di acqua, che già agli inizi del Novecento aveva condotto alla nascita di adduttrici e acquedotti interregionali. L’Acquedotto pugliese è nato in questa prospettiva: dare l’acqua a una regione, la Puglia, che ne è povera; anni dopo la diga di Ridracoli, nell’Appennino tosco-romagnolo viene realizzata per placare la sete di una vasta area della Riviera romagnola, ponendo le premesse per lo sviluppo in una zona che oggi ospita milioni di presenze turistiche.
È un percorso che nel secondo dopoguerra è stato rafforzato e sostenuto dagli interventi della Cassa del Mezzogiorno con la realizzazione di dighe, interconnessioni e invasi: un modello che è stato la salvezza del Sud Italia e che andrebbe riproposto anche nelle regioni del Nord, per equilibrare le diverse disponibilità di acqua.
Quello che è successo dopo è storia recente. Alla metà degli anni Novanta la legge Galli ha indicato la via della gestione industriale del ciclo dell’acqua, basata su ambiti territoriali ottimali, sull’abbandono delle gestioni dirette da parte dei comuni e la sostituzione della tariffa alle tasse per finanziare il servizio, così da costruire un legame chiaro e diretto (corrispettivo, direbbero i giuristi) tra la qualità e la quantità del servizio goduto e il suo costo. Un percorso nel quale sono stati fatti molti passi avanti, soprattutto con la regolazione Arera, ma che ancora non può dirsi compiuto. Un percorso che ha un limite: è focalizzato sul perimetro degli usi civili, i cittadini e le attività economiche che gravitano intorno alle aree urbane, e non contempla la scarsità della risorsa e la necessità di regolamentare gli altri usi, in particolare quello agricolo e industriale, che da sempre sono rimasti ai margini del perimetro, e che, anche quando coinvolti, hanno sempre goduto di tariffe agevolate.
La nuova emergenza
Mentre ci accingiamo a raggiungere con notevole ritardo gli obiettivi di metà anni Novanta, il servizio idrico torna al centro di una emergenza. L’acqua dolce è oggi divenuta una risorsa scarsa. Sino allo scorso decennio il problema era dotare il paese di quella rete di depuratori che mancano in alcune regioni del Mezzogiorno; oggi, la scarsità di acqua affligge anche le regioni del Nord, pianura e Prealpi, dove prima la preoccupazione era quella di gestire l’abbondanza: falde sempre più alte, risorgive, frane e smottamenti. L’Europa ci ricorda che ci sono nuovi inquinanti emergenti dei quali dobbiamo farci carico, ce lo ricordano la recente direttiva sulle acque potabili, che ci chiama a monitorarne presenza e concentrazioni e la nuova proposta di direttiva acque reflue, che chiede di rimuovere microplastiche e farmaci nei depuratori, prevedendo trattamenti più incisivi per assicurare che l’acqua reimmessa nell’ambiente non danneggi gli ecosistemi. L’asticella si alza ancora con la seconda direttiva che chiede alla depurazione di raggiungere l’autosufficienza energetica, cioè di contribuire con la produzione di energia rinnovabile alla decarbonizzazione.
Il recupero di fertilizzanti e di energia dai fanghi è l’altra nuova frontiera del servizio idrico: perché le nostre città saranno “smart” solo se saranno capaci di recuperare materie prime seconde, combustibili ed energia dagli scarti.
Nuove sfide arrivano poi dalla gestione delle acque meteoriche, per l’adattamento a episodi sempre più frequenti di piogge copiose e allagamento dei centri urbani: anche qui, accanto alle infrastrutture “grigie”, ci sono le soluzioni basate sulla natura (interventi che utilizzano il verde e la natura per migliorare la qualità ambientale e la qualità della vita nelle città) che possono aiutare a raccogliere le acque piovane, arginare i fenomeni di allagamento e ridurre gli inquinanti che finiscono nei fiumi e nei mari.
Quando l’acqua dolce è scarsa, il suo prelievo dall’ambiente ha poi un ulteriore costo, dato dal fatto che ci priviamo di usi alternativi (i conflitti tra usi agricoli e potabili dovranno essere disciplinati), e allo stesso tempo abbiamo bisogno di intervenire per ripristinare gli ambienti naturali, per garantire che i prelievi non danneggino gli ecosistemi e assicurino la capacità dell’ambiente di rigenerare l’acqua prelevata.
Ai cittadini arriva ben poco di queste riflessioni e anche le istituzioni, il mondo agricolo e l’industria sembrano ancora impreparati ad affrontare un dibattito che ciò nondimeno riguarda tutti e risulta sempre più impellente. E nel quale ciascuno è chiamato a fare la sua parte.
Serve una strategia che metta a fuoco le tante questioni che ruotano intorno al governo dell’acqua e che dia indirizzi coerenti e coordinati per affrontare la situazione in un’ottica non solo di breve ma di medio-lungo termine.
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Antonio Massarutto
Non potrei essere più d’accordo. E’ urgente una strategia nazionale innovativa, che non si basi solo sulle “politiche dell’offerta” – pure indispensabili – ma parta dalla governance del sistema, a cominciare dalle Autorità di distretto, ancora un soggetto debole e impossibilitato ad agire “d’autorità”, a dispetto del nome, su molte questioni, a cominciare dai “sacri” e intoccabili diritti acquisiti scolpiti nelle concessioni di derivazione rilasciate in passato, che a loro volta cristallizzavano sistemi consolidatisi nei secoli passati. Siccome in Italia l’acqua fa notizia solo quando manca o ce n’è troppa, viene quasi da augurarsi che fenomeni come quello del 2022 si ripetano un po’ più spesso, così da far capire a politici e cittadini la necessità di una svolta.
f.m.Parini
Condivido l’articolo, ma voglio sottolineare che molti nodi stanno venendo al pettine. Abbiamo ancora troppi comuni privi sia di impianti di depurazione sia di una gestione efficiente del refluo.
Poi esistono problemi di tariffazione, il vecchio schema di determinazione della tariffa non tiene conto dei costi per il trattamento avanzato per la rimozione dei microinquinanti. Oggi mancano, ma sono allo studio provvedimenti per limitare la presenza di alcuni microinquinanti nelle acque di scarico. Danimarca e Svizzera hanno introdotto dei limiti ed è necessario che in Europa si impongano limiti per gli scarichi contenenti farmaci (ospedali,RSA, carceri,allevamenti intensivi) pesticidi ed altri prodotti chimici persistenti.
L’acqua è un bene prezioso e deve essere difeso;nel nostro sangue sono presenti centinaia di prodotti chimici dei quali ignoriamo l’azione sinergica e le conseguenze sulla nostra salute.Dobbiamo agire prima che sia troppo tardi.