Il Ddl a sostegno della competitività dei capitali vuole incentivare la quotazione delle società e diffondere l’azionariato della Borsa. L’aumento del limite massimo di voti per azione può essere utile, a patto di non dimenticare la tutela delle minoranze.

Il Ddl Capitali

Il disegno di legge a sostegno della competitività dei capitali (il cosiddetto “Ddl Capitali”) introduce una serie di interventi che, nel complesso, intendono costituire (queste le parole del comunicato stampa) una “riforma organica” della disciplina, “volta a incentivare la quotazione delle società e diffondere l’azionariato della Borsa italiana, anche al fine di sostenere le imprese che puntano a crescere e ad aumentare la propria competitività mediante il ricorso al mercato dei capitali”.

Tra le varie proposte contenute nel Ddl, merita particolare attenzione la modifica del regime delle azioni a voto plurimo con la quale il governo intende ora cambiare l’art. 2351 cc e aumentare il limite massimo di voti per azione da tre a dieci.

La variazione in aumento dei diritti di voto spinge a interrogarsi circa (i) l’effettiva capacità di rinvigorire il ricorso alla quotazione in borsa e (ii) le possibili controindicazioni che azioni con dieci voti possono arrecare ad alcune dinamiche del mercato e, soprattutto, alla posizione delle minoranze assembleari.

I vantaggi del voto plurimo

La questione del voto plurimo è ciclicamente oggetto di interesse da parte delle istituzioni nazionali ed europee. La centralità operativa del tema (peraltro evidenziata dal Libro verde del ministero dell’Economia e delle Finanze) trova conferma, di recente, tanto nelle più coraggiose proposte di riforma circolate solo in bozza in occasione dei lavori preparatori al decreto Rilancio, quanto e soprattutto nell’attuale proposta di direttiva sulle strutture con azioni a voto plurimo nelle società che chiedono l’ammissione alla negoziazione delle loro azioni in un mercato di crescita per le Pmi la quale, tra l’altro, precisa che “uno dei principali motivi che dissuadono i fondatori e le famiglie dalla decisione di quotarsi in borsa (nella fase precedente all’Ipo) è il timore di perdere il controllo sulla loro società una volta quotata”, dunque divenendo l’adozione del voto plurimo “un meccanismo efficace per consentire ai proprietari di mantenere i poteri decisionali in una società, raccogliendo nel contempo fondi nei mercati pubblici”.

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In questo contesto, l’adozione di azioni potenziate incentiverebbe il percorso di quotazione, reso infatti meno “traumatico” dalla garanzia di poter sfruttare i vantaggi del mercato pur rimanendo i soci “fondatori” al riparo da alcune situazioni che, di quel mercato, sono elemento ricorrente (ad esempio contendibilità). Inoltre, è evidente che l’intervento in tema di azioni a voto plurimo permetterebbe di colmare quella disparità che caratterizza l’ordinamento italiano rispetto ad altri ordinamenti europei, con correlati e già discussi svantaggi competitivi.

Le possibili controindicazioni

Tuttavia, le azioni a voto plurimo sono anche un meccanismo che consente un rafforzamento di posizione, attraverso il quale un azionista può aumentare il proprio controllo senza detenere una quota proporzionale di capitale.

Numeri alla mano, assumendo infatti uno scenario in cui ci sono mille azioni, di cui 500 senza diritto di voto (massimo consentito dalla legge) e 500 con diritto di voto, basterebbe avere 46 azioni (con voto aumentato fino a 10) per detenere il controllo di diritto della società (50 per cento+1 dei voti esercitabili in assemblea).

Come delineato dalla proposta di direttiva, il voto plurimo – allo stesso modo di quello maggiorato, escluso però dall’intervento del Ddl Capitali – si presta (facilmente) a divenire strumento capace (i) di consentire l’estrazione di benefici privati da parte dell’azionista di controllo (ad esempio attraverso operazioni con parti correlate), nonché (ii) di promuovere gli interessi dell’azionista medesimo a scapito dell’interesse sociale e di quello delle minoranze. Minoranze che però, in particolare se “istituzionali”, sono oggi chiamate a un serio e serrato attivismo su certi temi (ad esempio, lo sviluppo sostenibile), in relazione ai quali il “blocco” da parte del socio controllore, realizzato grazie alle azioni a voto plurimo, depotenzierebbe ogni tipo di iniziativa.

Quest’ultima precisazione rende lecito chiedersi quale sia l’appetibilità futura di società dotate di azioni con voto plurimo nei confronti di quella pletora di investitori destinati a essere minoranza “che rischia ma non controlla” (cioè, maggioranza del capitale, ma minoranza una volta giunti in votazione). Ne consegue la necessità di riflettere non solo su di un asettico (ma benvenuto) aumento dei diritti di voto collegati a una singola azione, ma anche più in generale sulle “misure di salvaguardia volte a tutelare gli azionisti di minoranza e gli interessi della società, quali un rapporto di voto massimo, clausole di caducità e limitazioni all’uso delle azioni a voto plurimo in determinati casi, ad esempio nel caso di questioni legate alla sostenibilità” (così, sempre, la proposta di direttiva). Temi, questi, in relazione ai quali, nel silenzio delle norme (salve modifiche correttive in fase di discussione parlamentare), sarà quindi necessario un attento intervento in sede statutaria.

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La modifica in aumento del numero di voti attribuibili per legge a un’azione nella fase antecedente alla quotazione è, in sintesi, elemento meritevole di apprezzamento, in quanto capace di attuare una (almeno parziale) liberalizzazione della materia a favore degli operatori, assicurando una maggiore flessibilità nella spartizione dei diritti amministrativi all’interno delle società.

Tuttavia, anche al fine di rendere il sistema borsistico davvero attrattivo verso potenziali investitori, il moltiplicatore in esame va maneggiato con cura e richiede di essere recepito con adeguate tutele a favore dei soci di minoranza, potenziali “vittime” di eventuali abusi da parte del socio di controllo.

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