Siamo ormai a pochi giorni dal voto che porterà all’elezione del decimo Parlamento europeo. Ma non esistono regole elettorali comuni e ogni paese dell’Unione sceglie le proprie. Ogni timido tentativo di renderle uniformi è finora naufragato.
Come si vota in Europa
I regolamenti europei sembrano molto efficaci nello stabilire standard comuni per il consumo e il commercio di talune merci, con deroghe solo in casi molto specifici. Altrettanto non si può dire per contesti forse ben più rilevanti. Un esempio eclatante è dato dalla normativa elettorale comunitaria in tema di elezioni del Parlamento europeo. Le legislazioni nazionali devono infatti limitarsi a rispettare alcuni criteri comuni, dettati dall’Unione, introdotti nel 1976 e poi successivamente modificati. Queste norme riguardano innanzitutto il diritto di voto in sé, stabilendo che “ogni cittadino dell’Unione residente in uno stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello stato membro in cui risiede”, un principio importante ma che, alla luce di quanto si scriverà, anche paradossale.
Non esiste poi una legge elettorale unica sul territorio comunitario, ma solo la richiesta che questa sia con riporto di voti di tipo proporzionale, lasciando libertà agli stati di decidere se prevedere la possibilità di esprimere preferenze o meno. Anche le soglie minime per l’attribuzione di seggi sono sostanzialmente libere, all’interno di alcuni limiti: la soglia non è in generale obbligatoria, salvo per i paesi che eleggono almeno 35 eurodeputati con sistema di voto proporzionale di lista. In questo caso, la soglia minima deve essere almeno pari al 2 per cento. Quando presente, comunque, lo sbarramento non può comunque superare il 5 per cento. Bisogna però ricordare che questa disposizione, introdotta solo di recente, si applicherà a partire dal 2029. Si spiega così l’assenza di soglia per nazioni come Spagna e Germania. Infine, sono previste una serie di incompatibilità tra la carica di eurodeputato e altre cariche: la più nota è sicuramente quella di membro di parlamento nazionale. Una casistica che, nel nostro paese, ha dato luogo anche quest’anno a numerose polemiche.
La geografia di norme elettorali nei ventisette paesi dell’Unione che emerge da questo quadro di regole viene presentata nella tabella 1.
Paese che vai, regole che trovi
I cittadini europei votano in giornate diverse, in una o più date comprese tra il 6 giugno (Belgio) e il 9 giugno. Il sistema elettorale è una delle numerose varianti del sistema proporzionale in tutti paesi, ma in sei di questi non è possibile esprimere preferenze sui candidati, in quattordici (cioè poco più della metà) la preferenza è unica, mentre nei restanti sette può essere multipla. Grande variabilità anche per le età di elettorato attivo e passivo. Per l’elettorato attivo, la grande maggioranza dei paesi ha stabilito i diciotto anni, ma in Austria, Belgio, Germania e a Malta il diritto al voto si acquisisce a sedici anni, mentre in Grecia a 17. Si può essere eletti a 18 anni in quattordici paesi, a 21 anni in dieci, a 23 anni in uno solo (la Romania) e in due a 25 anni. Uno dei due paesi è proprio l’Italia. Anche le soglie minime per l’attribuzione di seggi sono molto variabili: in tredici stati non sono previste, a Cipro la soglia è dell’1,8 per cento, in Grecia al 3 per cento, in tre paesi (tra cui l’Italia) al 4 per cento e infine in nove paesi è fissata al livello massimo consentito del 5 per cento. Le quote di genere sono previste solo in undici paesi, con modalità differenti a seconda dei casi. Infine, ogni paese gestisce liberamente la normativa che riguarda il voto di chi risiede all’estero.
Perché uniformare le regole elettorali
Per quanto il principio di autodeterminazione degli stati sulle norme elettorali permetta di rispettare le tradizioni nazionali, dal punto di vista della distribuzione dei diritti tra i cittadini la diversità di regole appare piuttosto bizzarra. Se la cittadinanza europea ha un senso, questo senso si manifesta ed esprime innanzitutto rispetto alla capacità degli individui di delegare la propria sovranità al Parlamento. Perché mai un diciottenne italiano non dovrebbe poter essere eletto se un suo pari età tedesco lo è? E perché mai, ed ecco il paradosso di prima, se un cittadino italiano di 20 anni risiede in Francia e lì vota, allora può essere addirittura candidato, mentre in Italia no? Perché in alcuni casi sono i cittadini a esprimere preferenze, mentre in altri le liste sono bloccate? È evidente che alcune di queste differenze sono intollerabili. E forse per qualcuno sarebbe intollerabile anche una perfetta uniformità, ma sarebbe comunque meno grave che assegnare diritti politici ed elettorali diversi ai cittadini a seconda della loro residenza all’interno dell’Unione.
Qualcosa è stato fatto per rimediare alla situazione? Solo buone intenzioni, che spesso mascherano la volontà di non fare nulla. Nel maggio 2022, proprio l’Europarlamento ha chiesto l’abrogazione dell’atto elettorale del 1976 e la sua sostituzione con un nuovo regolamento che armonizzi tutta una serie di norme applicabili alle elezioni europee. Per il momento, nulla di fatto. Anche perché, per entrare in vigore, la proposta dovrebbe essere prima approvata dal Parlamento europeo a maggioranza dei suoi membri, poi adottata all’unanimità dal Consiglio e infine recepita da tutti gli stati, secondo i propri requisiti costituzionali. Anche questo iter mostra la sua stranezza: chi altri se non il Parlamento europeo dovrebbe decidere le norme relative alla propria elezione?
In ogni caso, il tema non ha interessato i candidati, che non hanno affrontato l’argomento in campagna elettorale. E, quando lo hanno fatto, almeno nel nostro paese, si è trattato di una questione strumentale, volta solo a garantire alle nuove liste più piccole un posto a Strasburgo. Se ne riparlerà, semmai, nella prossima legislatura.
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Savino
Certamente, il proporzionale, in tutti i Paesi UE, non fa bene. Anche a livello interno, le tendenze al proporzionalismo sono un male. Avevamo conquistato negli anni ’90 il maggioritario e ce lo dovevamo tenere stretto, anzichè cercare riforme sconclusionate per la stabilità. E’ corretto il riferimento ad una necessaria uniformità, ma non basta, poichè va rivisto anche il ruolo del PE e va legato ad un vero e proprio rapporto fiduciario con la Commissione (cosa che non è con tale evidenza di tipo “costituzionale” oggi).