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Per la Commissione il rebus maggioranza

Sarà difficile formare una maggioranza nel Parlamento europeo. Anche l’indebolimento dei governi di Francia e Germania non è una buona notizia per l’Europa. Probabili passi indietro sul Green Deal e più incertezza nell’applicazione delle regole fiscali.

Il nuovo Parlamento europeo

Non è facile ragionare su cosa succederà nel Parlamento europeo e più in generale sulle istituzioni dell’Unione europea dopo le elezioni appena concluse. Il funzionamento del sistema decisionale europeo è in effetti molto complesso, coinvolgendo sia i paesi membri nel Consiglio che la Commissione e il Parlamento europeo e il voto del 6-9 giugno (come le elezioni nazionali che si terranno nei prossimi mesi), per quanto limitato al solo Parlamento, influenza in realtà tutte le istituzioni europee.

Cominciando dal Parlamento, il voto di giugno 2024 ha identificato un chiaro vincitore, l’Epp, il partito popolare europeo, che sulle basi delle stime ancora provvisorie dovrebbe guadagnare 8 seggi (da 177 a 185). Ci sono poi alcuni chiari perdenti: i liberali (il gruppo Renew Europe che fa riferimento al presidente francese Emmanuel Macron), che dovrebbero perdere 22 seggi (da 101 a 79), e i verdi, che ne avrebbero 19 in meno (da 71 a 52). Si rafforzano invece i conservatori di Ecr, il gruppo presieduto da Giorgia Meloni (da 67 a 73 seggi), mentre più confusa è la situazione per Identità e Democrazia (che appare stabile a 58 seggi), anche a causa del fatto che Afd, il partito neonazista tedesco che ha ottenuto un buon risultato in Germania (è il secondo partito), è stato escluso dal gruppo (a cui appartengono sia il partito di Marine Le Pen, Rassemblement National, che la Lega di Matteo Salvini).

Al di là di quale sarà il conteggio definitivo dei seggi, il dato politico è chiaro: con il voto di giugno 2024 c’è stato uno spostamento a destra nell’orientamento del Parlamento europeo.

Gli effetti politici

Il risultato avrà effetti sia sulla scelta dell’esecutivo, a cominciare dal presidente della Commissione, che sulle politiche successive. Per capirlo, bisogna in primo luogo ricordare che il funzionamento del meccanismo democratico europeo non è assimilabile a un sistema parlamentare come quelli a cui siamo abituati nei contesti nazionali.

Il Parlamento europeo non ha poteri di iniziativa legislativa (che spetta alla Commissione, il Parlamento può soltanto emendarne le proposte), elegge ma non sceglie il proprio presidente (il candidato è nominato a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo, cioè dai capi di governo dei paesi membri) e non c’è un rapporto fiduciario tra l’esecutivo (la Commissione) e il Parlamento, per cui la Commissione non necessita della fiducia del Parlamento per governare.

Tutto ciò non significa comunque che il Parlamento europeo sia ininfluente. Al contrario, a partire dalle ultime revisioni dei Trattati, il suo ruolo è stato rafforzato e ora co-decide assieme alla Commissione e al Consiglio su un amplissimo insieme di materie (tutte, tranne quelle che sono rimaste di esclusiva competenza dei paesi membri). Significa che per diventare legge ogni proposta legislativa della Commissione deve essere approvata sia dal Parlamento che dal Consiglio.

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La scelta del presidente

Dati i risultati delle elezioni, la peculiare architettura istituzionale creerà problemi non da poco all’interno del Consiglio per la scelta del candidato per la carica di presidente. E successivamente, creerà problemi nel costruire una maggioranza sufficientemente coesa da sostenere l’agenda politica del nuovo presidente. Per esempio, da più parti si è affermato che anche con la nuova attribuzione di seggi, la maggioranza che nella passata legislatura ha sostenuto Ursula von der Leyen – composta da popolari, socialisti e liberali – è rimasta tale, con 401 seggi (stimati) rispetto ai 361 necessari. Ma questo non tiene conto del fatto che i gruppi parlamentari europei non sono molto coesi (e non c’è il meccanismo della fiducia a disciplinarli), per cui un numero considerevole di voti si disperdono durante la votazione per l’elezione del presidente (che oltretutto è a scrutinio segreto), così come accade poi quando si deve votare sulle singole proposte legislative. Per esempio, nel 2019, Ursula von der Leyen contava sulla carta su una maggioranza molto ampia, ma è stata eletta con soli 9 voti di scarto, oltretutto provenienti da partiti non dalla sua coalizione (compresi 14 parlamentari europei del Movimento 5 Stelle).

Per sostenere il nuovo presidente la coalizione dei tre partiti dovrà essere con tutta probabilità ampliata, o a sinistra (verso i verdi) o a destra (verso i conservatori europei, il gruppo presieduto da Giorgia Meloni). Entrambe le coalizioni sarebbero sufficientemente larghe da consentire l’elezione di un candidato. Comunque, nessuna delle due ipotesi appare semplice da costruire sul piano politico.

La presidente del Consiglio italiano ha dichiarato più volte che non sosterrà un governo con dentro i socialisti e viceversa; e i verdi non hanno perdonato alla presidente uscente il chiaro spostamento a destra e l’abbandono di alcune richieste del Green Deal nel suo ultimo periodo di governo. Nonostante le dichiarazioni dei vari leader dei gruppi parlamentari, è dunque possibile che la rielezione di von der Leyen (il candidato prescelto dai popolari, il partito di maggioranza relativa) che sembrava certa fino a poche settimane fa, risulti più controversa, spingendo il Consiglio a optare per un altro nome, meno compromesso dalle scelte politiche effettuate e con un’agenda almeno in parte diversa.

Altre maggioranze, sebbene sulla carta possibili (come un governo di centro destra che escluda i socialisti e inglobi oltre ai conservatori anche i parlamentari di Identità e Democrazia), sembrano politicamente insostenibili (difficile immaginare che Macron e la Le Pen sostengano lo stesso presidente) e comunque sarebbero ancora più risicate di quella uscente.

I paesi

Ma il voto non ha avuto effetti solo sul Parlamento europeo. Il risultato più eclatante è la sconfitta dei partiti che sostengono il governo sia in Germania (guidato da un socialista) che in Francia (con il presidente francese che ha reagito sciogliendo immediatamente il parlamento e indicendo nuove elezioni). Poiché i due paesi sono tradizionalmente il motore del processo europeo, è facile prevedere che la debolezza dei loro governi blocchi ulteriori progressi nel processo di costruzione europea. La frenata avverrà quasi certamente se, come possibile, il governo francese che uscirà dalle urne tra un mese sarà guidato da un esponente di Rassemblement National, un partito fortemente nazionalista e che solo da poco ha rinunciato a ipotesi di uscita dall’euro e dalla Unione.

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Le politiche

Per concludere, mentre è molto difficile prevedere cosa succederà in termini di maggioranze politiche, è abbastanza facile immaginare quali saranno gli impatti sulle politiche europee. Anche se verrà formata una maggioranza parlamentare in linea con quella uscente, bisognerà vedere se sarà abbastanza coesa da sostenere le proposte della Commissione, con il rischio di rallentare e rendere meno efficace l’attività legislativa dell’Unione. Dato lo spostamento politico a destra del Parlamento, che queste politiche deve votare, è comunque ragionevole immaginare che una parte del Green Deal verrà accantonato o comunque reso meno esigente in termini di tempistiche. Viceversa, ci sarà un’attenzione più forte sui confini dell’Unione, ma probabilmente solo nel senso di introdurre politiche ancora più restrittive sull’immigrazione. Proposte di maggiore “federalizzazione” dell’Unione, con l’indebolimento del suo maggiore sostenitore politico (il presidente francese), verranno probabilmente accantonate, inclusa la possibilità di emettere ulteriore debito europeo per sostenere progetti comuni. Si investirà sulla difesa, per esempio, ma è difficile immaginare che il percorso vada nella direzione della “difesa europea comune”.

Per quello che riguarda le nuove regole fiscali, appena introdotte, la situazione è più incerta. I partiti di destra sono tradizionalmente più rigorosi nel rispetto dei conti. Uno spostamento a destra della Commissione (e del Consiglio) potrebbe dunque spingere verso una attuazione più rigorosa del nuovo Patto di stabilità e crescita. D’altra parte, due paesi importanti come l’Italia e (verosimilmente) la Francia, che sono anche i paesi che più pesantemente dovrebbero correggere i propri conti pubblici, avrebbero governi più in sintonia con il nuovo orientamento politico. Potrebbe condurre la Commissione ad avere una maggiore “comprensione” nei loro confronti. Vedremo.

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Dove soffia il vento dell’Europa

  1. Jk

    Nel 2035 l’europarlamento non esistera’ piu’.

  2. Savino

    Meloni in pole position per dare una mano alla sua amica Ursula e governare con tutti, socialisti compresi, contrariamente alle sue promesse. La pacchia e’ finita, ma per gli italiani non per le combine in Europa.

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