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Nel piano tante buone intenzioni, ma pochi numeri

Il Piano strutturale di bilancio ha aspetti positivi, come il fatto che il percorso di aggiustamento sia più incisivo di quanto richiesto dalla Commissione. Mancano però i numeri su come ottenere i risultati. E le ipotesi fatte potrebbero non realizzarsi.

Le nuove regole Ue

Dopo la riforma delle regole fiscali europee, approvata ad aprile 2024, il governo ha presentato nei giorni scorsi il suo primo “Piano strutturale di bilancio di medio termine” che nelle intenzioni dovrebbe guidare la politica fiscale italiana per i prossimi sette anni, o almeno fino al 2027, la data delle prossime elezioni politiche.

Il Piano è espresso sotto forma di un impegno da parte del governo a mantenere la spesa pubblica (al netto di interessi, entrate discrezionali, finanziamenti e co-finanziamenti europei e alcune spese legate al ciclo economico) all’interno di determinati tassi di crescita annuali, con lo scopo, alla fine del periodo, di mettere il rapporto debito su Pil su un percorso stabilmente decrescente. A tutti i paesi che dovevano presentare il Piano (cioè, tutti quelli con o un debito su Pil maggiore del 60 per cento o con un deficit maggiore del 3 per cento o entrambi) a giugno la Commissione ha offerto traiettorie di riferimento per la spesa netta, cioè percorsi che, se seguiti, sulla base delle stime della stessa Commissione, avrebbero consentito di raggiungere l’obiettivo. Il Piano contiene anche impegni e strategie di politica economica. In particolare, la condizione per poterne presentare uno su sette anni, dunque più morbido che su quattro o cinque (in linea generale, il Piano dovrebbe essere di legislatura) è che il governo si impegni credibilmente a un insieme di riforme e investimenti che sostengano la crescita economica futura.

Spesa netta e deficit

Su questa base, la lettura del Piano del governo italiano suscita alcuni commenti, sia positivi che negativi. In primo luogo, il percorso di aggiustamento è per i primi anni più incisivo di quanto richiesto dalla Commissione a giugno e ancora più incisivo di quanto il governo avrebbe potuto chiedere utilizzando la stessa metodologia della Commissione sulla base della revisione dell’Istat, che ha certificato a settembre un Pil più alto nel 2024 e conseguentemente un minor deficit e debito di quanto risultasse a giugno 2024 sia al governo che alla Commissione. A giugno, la Commissione aveva suggerito una crescita della spesa netta pari all’1,6 per cento nel 2025 e nel 2026, per poi ridurla negli anni successivi (con una media nel periodo 2025-2031 pari all’1,5 per cento all’anno). Il governo si è invece impegnato a non far crescere la spesa netta più dell’1,3 per cento nel 2025 e dell’1,6 per cento nel 2026, con un percorso più graduale negli anni successivi, pur risultando a fine periodo sostanzialmente in linea con le richieste della Commissione. In particolare, il governo intende uscire dalla procedura di infrazione (lanciata sempre a giugno dalla Commissione), portando il rapporto deficit su Pil sotto il 3 per cento, già nel 2026, mentre la Commissione, sulla base anche delle sue stime degli impatti del processo di aggiustamento sulla crescita del Pil prevedeva un percorso molto più graduale, che avrebbe portato il deficit su Pil sotto il 3 per cento solo nel 2029 o nel 2030.

È una buona notizia, perché un processo di aggiustamento più rapido, se il governo riuscirà a ottenerlo, migliorerà la reputazione del paese e condurrà certamente a minor spread e interessi da pagare. Anche perché nonostante l’aggiustamento, è previsto che il rapporto debito su Pil continui a crescere nei prossimi anni, una legacy del superbonus. Sia per i mercati sia per i nostri partner europei è importante che un debito crescente sia controbilanciato da un aggiustamento più rapido del deficit.

La seconda osservazione è che nel formulare il suo Piano il governo si è discostato dalla metodologia della Commissione e ha utilizzato invece i suoi usuali strumenti di programmazione. Nel dibattito che ha accompagnato la revisione delle regole europee, si era temuto che le traiettorie proposte dalla Commissione diventassero vincolanti per i paesi, così rimettendo in discussione il carattere “nazionale” del Piano. Sarebbe stato un problema perché la metodologia della Commissione (debt-sustainibility analysis) è tecnicamente soddisfacente, ma si basa su ipotesi comuni per tutti i paesi europei, che per ciascuno di essi possono risultare fallaci. Il fatto che il governo proponga una propria metodologia e che questa apparentemente sia stata accettata dalla Commissione è dunque un elemento positivo e di chiarezza.

L’impatto sulla manovra

Le buone notizie però finiscono qui. Il Piano è pieno di buoni propositi, in particolare sulla parte relativa alle politiche per il futuro, ma curiosamente privo di stime e dati quantitativi che consentano di valutarlo in dettaglio.

Per esempio, per quanto riguarda il 2025, il governo nel Piano si impegna a mantenere gli sgravi sul cuneo fiscale garantiti nel 2024 e la diminuzione dell’Irpef (sempre quella garantita nel 2024, nulla si dice sull’annunciato alleggerimento dell’imposta per i redditi sopra i 50mila euro). I due provvedimenti, insieme ad altri da rinnovare costano circa 18 miliardi. Se si aggiungono i propositi di accrescere la spesa sanitaria più della spesa netta, finanziare la revisione dei contratti per il pubblico impiego, sostenere la maternità e mantenere lo stesso livello degli investimenti anche dopo il 2026 (cioè, dopo la conclusione del Pnrr), la cifra potrebbe lievitare di parecchio.

Per dare un’idea delle cifre in gioco, basta ricordare che il Documento di economia e finanza ad aprile 2024 prevedeva per il 2025 un deficit su Pil a legislazione vigente al 3,7 per cento e un deficit a politiche invariate al 4,6 per cento. In altri termini, secondo le stime dello stesso governo, finanziare anche nel 2025 le politiche introdotte solo per il 2024 sarebbe costato lo 0,9 per cento del Pil, cioè circa 20 miliardi. Grazie alla rivalutazione dell’Istat di settembre 2024 e assumendo che l’incremento di entrate (circa 14 miliardi di entrate tributarie e più di 2 miliardi di altre entrate correnti) del 2024 sia strutturale e si realizzi anche nel 2025, il deficit a legislazione vigente nel 2025 è ora stimato al 2,9 per cento del Pil. Nel programmatico, il governo intende invece portarlo al 3,3 per cento, liberando dunque risorse per lo 0,4 per cento del Pil, cioè circa 8 miliardi. Ma solo per garantire le politiche introdotte nel 2024 ne servono 20. Il piatto piange.

Se poi il governo intende finanziare anche solo in parte gli altri buoni propositi del Piano, le risorse da trovare potrebbero essere superiori ai 12 miliardi che ancora mancano all’appello. Senza contare che, se davvero si intende rendere permanenti queste politiche, le risorse da trovare dovrebbero essere stabili, anche per gli anni futuri. D’altronde il Piano prevede un incremento di entrate ancora più consistente nel 2026 e 2027, che dovrebbe essere quindi strutturale. Proprio tali previsioni portano ad una profonda revisione dei deficit tendenziali per il 2026 e 2027, aprendo uno spazio (come documentato dal Psb nella tabella a pagina 74) per l’incremento di deficit – utile a finanziare le relative manovre – senza sforare il vincolo del 3 Per cento.

Tutta l’impalcatura del Piano strutturale di bilancio si regge sulla previsione di avere sostanziali incrementi di entrate strutturali a legislazione vigente. Se si scoprisse che ha qualche falla, tutto il castello potrebbe cadere.

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Piano strutturale di bilancio, un tema ancora da svolgere*

  1. Savino

    L’impalcatura del bilancio sono le tasse e i tagli alla spesa sociale che subiranno gli italiani. Come governano loro può governare davvero chiunque a sorteggio, quando i conti non tornano tasse e tagli.

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