Cosa deve fare l’Italia per mantenere vitale la sua industria dell’auto? Evitare di sostenere lo status quo con risorse pubbliche e invece incoraggiare le imprese del settore a investire in ricerca e innovazione. Per una trasformazione radicale della mobilità.
Lo scenario
In molte industrie si susseguono fasi che nel linguaggio economico sono definite “fluide” e fasi di maggiore “stabilità”.
Nella fase fluida le imprese esplorano nuove tecnologie, nuove modalità per soddisfare le esigenze dei consumatori, proliferano le alternative di prodotto, i consumatori sono in genere riluttanti a cambiare, salvo alcuni pionieri. L’emergere di un “design dominante” favorisce una stabilizzazione dell’offerta di prodotti, calano i costi e i prezzi, il mercato si amplia.
Dopo oltre cento anni di relativa stabilità, nell’industria dell’auto inizia a intravedersi un cambiamento e una turbolenza. È un cambiamento spinto dai nuovi stili di vita e di consumo soprattutto da parte delle fasce di popolazione più giovane che, in Europa, stanno portando alla stagnazione della domanda, dalle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni e dai nuovi drive-train elettrificati che stanno modificando il modo di progettare, produrre e sviluppare auto, da esigenze improcrastinabili di riduzione delle emissioni nocive all’ambiente e alla salute.
Quest’ultimo punto, forse il meno interessante e controverso dal punto di vista della sua ineluttabilità, è quello che in questi anni sta invece evidenziando il maggior livello di conflitto.
Il motivo è legato al fatto che il cambiamento, questa volta, non è guidato dalle imprese o dal mercato, ma è prodotto dalla regolamentazione (ad esempio, dal phase-out dei motori endotermici al 2035).
L’intervento del regolatore si è reso necessario per due ragioni:
1 – esiste un problema ambientale e di salute pubblica urgente;
2 – non vi è alcuna attitudine spontanea da parte dei produttori di auto e del mercato a investire per ridurre l’impatto ambientale e migliorare la salute dei cittadini. Anzi, i costruttori hanno sistematicamente destinato enormi risorse per condizionare le politiche europee, forti anche dell’immenso peso socio-economico e occupazionale che l’industria ha in Europa.
Proprio perché la transizione è frutto di una scelta politica, la discussione pubblica è diventata incandescente e le posizioni si contrappongono al pari degli enormi interessi di parte in gioco.
L’arma retorica più diffusa è quella di mettere in contrapposizione ambiente, salute e lavoro. Su questo punto si è fatta – e si continua a fare – molta confusione almeno a partire dal 2023, quando è iniziato un vero e proprio martellamento sui rischi occupazionali legati alla trasformazione dell’industria a causa del phase-out del motore endotermico in Europa al 2035.
L’impatto occupazionale della transizione green in Italia
Nel 2022 il Cami (Centre for Automotive and Mobility Innovation) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha condotto uno studio, durato un anno e che ha impiegato cinque ricercatori, che analizza il portafoglio prodotti di ciascuna delle circa 2.400 imprese che costituiscono la filiera italiana dell’auto. Lo studio è stato poi seguito dalle survey condotte dall’Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano (Otea).
Il presupposto concettuale era comprendere quali delle competenze legate alla produzione italiana di componenti sono riconvertibili in una filiera elettrificata. I dati suggeriscono che sulle 2.400 imprese italiane analizzate, 93 producevano componenti automotive esclusivamente destinati all’endotermico. Queste aziende occupano circa 14.139 lavoratori, che risulteranno ad alto rischio senza di azioni decise di riconversione in vista del 2035. Altre 199 imprese (8,3 per cento del totale) hanno nel proprio portfolio prodotti almeno un componente legato al powertrain endotermico. Occupano circa 29.372 persone e hanno prodotti e competenze già pronte per l’elettrificazione, ma dovranno ri-orientare la propria attività per tenere il passo imposto dal nuovo tipo di produzione. Le restanti 2108 imprese, che occupano circa 214.998 persone, hanno in portafoglio componenti che non subiranno variazioni sostanziali per la fornitura in auto full-electric.
Se lo studio mostra, in estrema sintesi, che i problemi occupazionali della filiera in Italia non deriveranno prevalentemente da un problema legato alle competenze tecnologiche, da cosa dipende la crisi?
Le peculiarità della situazione italiana e le cause della crisi
La crisi che affligge i fornitori in Italia dipende sostanzialmente da un calo delle commesse. Basti il dato che l’Italia è passata dal produrre circa 2 milioni di autovetture e veicoli commerciali nel 1990, a 1,7 milioni del 2000, a quasi 850mila nel 2010, alle circa 500mila del 2022 e le 542mila del 2023 (intorno agli 800 mila se si considerano anche i veicoli commerciali leggeri).
Quest’ultimo dato è particolarmente significativo soprattutto se comparato con la produzione complessiva di autoveicoli di altri paesi europei: nel continente nel 2023 sono stati prodotti 12,126 milioni di veicoli.
I principali paesi produttori sono: la Germania con 3,959 milioni di vetture grazie alla produzione negli stabilimenti di Bmw, Mercedes, VW, Stellantis, Ford e Tesla; la Spagna con 1,869 milioni di vetture prodotte negli stabilimenti di VW, Ford e Stellantis; la Francia con 959 mila vetture nelle fabbriche di Renault, Stellantis e Toyota; il Regno Unito con 900 mila vetture prodotte negli stabilimenti di Nissan, Jaguar Land Rover, Bmw, Stellantis, VW, Honda e Geely. La produzione europea è localizzata anche nell’Europa dell’Est. Anche qui paesi come Repubblica Ceca con 1,395 milioni di vetture prodotte da VW, Toyota e Hyunday, Slovacchia con 1 milione di vetture producono più dell’Italia, ma anche di Francia e Regno Unito.
Dai dati e dall’elenco di produttori operanti in Europa, emerge come l’Italia, seconda manifattura europea, sia divenuta fanalino di coda nella produzione di auto, perdendo oltre il 20 per cento degli occupati negli ultimi venti anni in concomitanza con l’essere l’unico paese industrializzato a ospitare gli stabilimenti di un solo produttore.
La formazione nel gennaio 2021 del gruppo Stellantis, frutto della fusione tra Fca e Psa, preceduta dalla cessione da parte di Fca di Magneti Marelli a Calsonic Kansei, trasforma nuovamente i destini industriali dell’Italia spostando i centri di ingegneria e decisionali lontani dal paese.
La filiera italiana, che per lunghi anni aveva beneficiato di una crescita dell’export e della diversificazione di mercati e clienti (nel 2021, il valore dell’export cresce di +9,9 per cento, più che in Germania (+7 per cento) e Francia (+3 per cento) ed era riuscita a tenere sul piano occupazionale, si è trovata negli ultimi anni stretta in una morsa.
Da un lato, il ridimensionamento delle attività di Stellantis in Italia, dall’altro la caduta della produzione in Europa, anche legata alla crisi Covid-19, e in particolare nell’area che ruota intorno alle produzioni tedesche.
La combinazione dei due fatti ha generato una crisi profonda che ha evidenziato alcuni elementi di criticità:
- Stellantis rimane destinataria del 50 per cento, in media, del fatturato della componentistica italiana che è da essa di fatto dipendente;
- circa il 50 per cento dei fornitori italiani ha un numero di dipendenti inferiore a 50, mentre le aziende più grandi (il 13 per cento delle imprese, che impiegano più di 250 addetti) sono in prevalenza filiali di gruppi esteri;
- i fornitori italiani investono meno rispetto alle loro controparti europee in R&S (circa la metà dei colleghi tedeschi). Il trend dipende anche dalla riduzione degli investimenti in R&S e dalle commesse Stellantis;
- la componentistica italiana dipende fortemente dall’export verso produttori tedeschi e, in misura minore, francesi, in un contesto in cui la produzione tedesca si è ridotta di circa il 30 per cento in cinque anni, da 5,6 milioni del 2017 ai 3,9 del 2023 ed è destinata a decrescere.
La filiera si trova quindi soggetta alle scelte di localizzazione produttiva di Stellantis e delle case madri situate in altri paesi (si pensi ai casi, ad esempio, degli stabilimenti italiani di Bosch e Magneti Marelli).
I fornitori italiani indipendenti si trovano invece vittima di una congiuntura che ha prodotto un drastico ridimensionamento del mercato (e della liquidità) in una situazione di forte cambiamento tecnologico, cui a causa della piccola dimensione hanno grandi difficoltà a rispondere attraverso gli investimenti in R&S, essenziali per un rapido riposizionamento tecnologico e di mercato.
Nell’analisi delle prospettive di sviluppo dell’industria italiana dell’auto si intrecciano, quindi, due temi, uno relativo al mercato e ai volumi produttivi e uno legato alle competenze per l’innovazione che gli attori dell’industria dovranno sviluppare.
Da un punto di vista di mera sopravvivenza, se i volumi produttivi di auto rimarranno ai livelli attuali o il mix di prodotto scelto da Stellantis per l’Italia non dovesse favorire veicoli a trazione elettrica di successo, sarà difficile immaginare una ripresa a breve dell’industria italiana.
Tuttavia, una strategia industriale da parte italiana che si limiti a favorire l’aumento dei volumi di Stellantis sarebbe del tutto insufficiente, anche nel breve periodo.
Le azioni di politica industriale sull’auto
La transizione verso l’elettrificazione si completerà nei prossimi anni con l’arrivo di una offerta di prodotto accessibile e più attraente rispetto all’endotermico. Ciò avverrà indipendentemente dalla normativa europea, dal momento che Usa e Cina procedono a tappe forzate verso l’elettrificazione del parco circolante. L’Italia deve, quindi, attivare azioni di politica industriale che siano ad ampio spettro e in grado allo stesso tempo di:
(1) sostenere in modo selettivo le imprese della fornitura italiana che hanno dimostrato di saper fare innovazione per rendere i loro investimenti in R&S e in produzione competitivi rispetto a quelli delle loro controparti internazionali. Questa misura porterebbe a creare poli di eccellenza nazionali, anche sfruttando network di ricerca pubblici, capaci di “trainare” l’innovazione dei fornitori italiani di secondo e terzo livello, troppo piccoli per competere nelle catene globali del valore;
(2) colmare velocemente il ritardo che sta accumulando negli investimenti in componenti o sistemi collegati con le produzioni di veicoli elettrificati, anche alternativi alle auto. In Italia, come evidenziato nella ricerca di Ca’ Foscari, esiste un sistema industriale che opera nei servizi, nella componentistica e nelle infrastrutture collegate all’elettrificazione (e della micro-mobilità elettrica). Tuttavia, la ritardata partenza dell’elettrificazione rischia di danneggiare irreversibilmente un settore che invece potrebbe crescere in modo esponenziale e competere a livello internazionale;
(3) avviare un piano nazionale che orienti la formazione della forza lavoro in modo selettivo e coordinato per realizzare in tempi rapidi la conversione delle competenze dei lavoratori alla luce dell’evoluzione della tecnologia e del mercato; il piano dovrebbe rispecchiare le molteplici specializzazioni geografiche che caratterizzano l’industria italiana; altri paesi europei, in vista della modifica della regolamentazione europea che avrebbe imposto il phase-out dei veicoli endotermici, hanno predisposto i piani da diversi anni;
(4) investire risorse nel rilancio della produzione di mezzi per il trasporto pubblico locale. Oggi, pur in presenza di aziende ad alto potenziale di sviluppo come Industria Italiana Autobus, anche per questo settore strategico per la mobilità sostenibile, l’Italia dipende dalle importazioni per soddisfare la domanda;
(5) favorire la diversificazione produttiva attraverso l’attrazione in Italia di fornitori indipendenti e produttori diversi da Stellantis alla stregua di quanto già fatto nel resto d’Europa, ponendo vincoli e garanzie sia di natura occupazionale sia di qualificazione dell’investimento (in particolare rispetto agli investimenti in ricerca e sviluppo), per avviare un percorso di rafforzamento del posizionamento internazionale e di riduzione dei rischi dell’attuale dipendenza da Stellantis.
Per fare questo è necessario che il governo e alcune parti della rappresentanza delle imprese superino la narrazione auti-europeista e sblocchino le risorse stanziate nel “fondo automotive” per colmare il gap competitivo che l’Italia ha accumulato nella transizione verde.
L’esigenza di un cambio di prospettiva
L’industria dell’auto italiana ha una importanza chiave per lo sviluppo tecnologico, economico e sociale del paese e vanno fatti tutti gli sforzi possibili perché la produzione e la progettazione di auto in Italia sia preservata e sviluppata. Tuttavia, le risorse pubbliche per la transizione verso la sostenibilità ambientale andranno indirizzate alla salvaguardia delle prospettive dei consumatori, dei lavoratori e dell’ambiente e non necessariamente alla salvaguardia dell’industria dell’auto così com’è.
Infatti, gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra non saranno raggiungibili se alle misure di salvaguardia dell’industria, non si affiancherà un cambio di paradigma nella mobilità. E ciò difficilmente accadrà se il dibattito rimarrà dominato dalla “concezione” di industria di chi produce e vende auto. La decarbonizzazione, infatti, non passa dalla trasformazione del parco circolante attuale con uno a trazione elettrica, ma da una radicale riduzione delle auto in circolazione.
A tale scopo (1) andrà moltiplicato l’investimento nel trasporto pubblico portandolo ai livelli dei paesi europei più sviluppati; (2) va accelerato lo sviluppo di infrastrutture che siano alternative alla mobilità basata sull’auto privata, che liberino spazio per forme di mobilità a zero impatto ambientale e azzerino il consumo di suolo; (3) andranno favorite per la popolazione con redditi più bassi iniziative di “social leasing” che, a complemento del servizio pubblico, garantiscano l’accessibilità alla mobilità individuale a tutti i cittadini. Queste forme di investimento sono un sottoinsieme delle misure da poter realizzare per raggiungere gli obiettivi ambientali ed esemplificano come sia possibile coniugare mobilità sostenibile con istanze di natura sociale e di sviluppo economico.
L’Italia, che oggi è meno dipendente della Germania dalla produzione di auto, ha un’opportunità storica per realizzare uno sviluppo industriale sostenibile nelle diverse accezioni. Ma deve cambiare passo sul fronte degli investimenti.
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Savino
Per rivoluzionare la mobilità ci volevano, già 50 anni fa, i mezzi pubblici.
Con una cultura dei mezzi pubblici tutto sarebbe stato diverso, non sarebbe stato necessario per tutti l’acquisto di un’automobile ( di qualsiasi specie e classe energetica) e la circolazione delle persone da qualsiasi forma urbana o rurale, verso il territorio regionale, nazionale o estero, sarebbe stata più agevole, con meno inquinamento, costi ridotti nel tempo per il settore pubblico e costi ridotti (fino alla gratuità) per gli utenti.
bob
senza banalizzare nel 1974 usciva la leggendaria attualissima Golf in Italia un accordo scellerato ( si sa tra chi) progettò l’ Arna un fallimento totale antitesi dell’auto stessa.
Il Paese a cui fa comodo non avere memoria inevitabilmente farà sempre i conti di chi ti presenta il conto.
Paolo
La memoria fa comodo scegliersela. La golf fu il risultato di un tentativo della VW di fare un auto come la 128. Cioè, letteralmente, la grande golf nacque perché i grandissimi ingegneri tedeschi presero un designer italiano e fecero un’auto all’italiana. L’industria automobilistica italiana è stata ed è eccellenza tecnologica, basti pensare a common rail e Multijet, tecnologie che i tedeschi si sono comprati da noi.
Certo, la parabola fiat è tragica e parla di una dirigenza di industriali mediocri, incapaci, miopi, che hanno portato all’agonia tutte le aziende che hanno toccato, spolpandole per estrarne il valore aggiunto (sempre minore). Ultima prova ne è lo squallido piagnisteo di Tavares sul mancato sostegno, arrivato in un periodo in cui sono stati staccati dividendi record (oltre 20mld negli ultimi anni).
Paolo
Tutto giusto. Certo, puntare il dito contro la scarsità degli investimenti pubblici richiederebbe quanto meno mettere in discussione le regole che li hanno impediti e continuano ad impedirli. La miopia è di tutta l’UE, e gli stati che hanno fatto “meglio” di noi chiedono maggiore austerità.