Il 2000 è un anno di svolta per Alitalia. In un mercato oramai liberalizzato dovrebbe trovare un partner industriale che le permetta di crescere. L’idea dell’aggregazione con Klm però fallisce, così come falliranno tutti i successivi tentativi di alleanze.

Prima di Ita-Lufthansa: gli effetti della liberalizzazione

Col via libera definitivo della Commissione europea, avvenuto l’ultimo giorno di mandato di quella uscente, l’ingresso di Ita Airways, successore di Alitalia, nel gruppo tedesco Lufthansa è destinato a realizzarsi: finisce così un quarto di secolo di ripetuti fallimenti industriali del vettore di bandiera, inframmezzati da tentativi di integrazione internazionale anch’essi falliti.

Nel trasporto aereo le dimensioni contano, nonostante le economie di scala non appaiano così evidenti. Se per raddoppiare i voli occorre in sostanza raddoppiare la flotta, gli equipaggi e i consumi di carburante, è pur vero che chi si presenta dai grandi costruttori, Boeing o Airbus, con un ordine consistente, ad esempio cento aerei dello stesso modello, ottiene sconti sul prezzo di listino che arrivano anche al 50 per cento e che non sono conseguibili da chi domanda solo una decina di velivoli o poche unità.

La liberalizzazione europea del trasporto aereo, completata nel 1997 con l’apertura alla concorrenza per tutti i vettori comunitari anche delle rotte interne di ogni singolo paese, ha velocizzato la crescita del mercato e imposto alle compagnie di crescere almeno altrettanto per poter sopravvivere. Chi non è stato in grado di farlo, come Alitalia, ha incontrato subito difficoltà.

La liberalizzazione ha prodotto quattro effetti principali:

1) la nascita e l’espansione di vettori low cost transnazionali, creati ex novo, come Easyjet, o a seguito della trasformazione di vettori regionali, come Ryanair, o charter. Il loro punto di forza è il vantaggio di costo originato principalmente dall’uso di grandi flotte, totalmente nuove e omogenee, formate da un solo modello di un solo costruttore, che permettono bassi consumi e limitate manutenzioni in aggiunta agli sconti sul prezzo d’acquisto;

2) una crescita notevole dei processi concorrenziali, favorita proprio dai vettori low cost, con conseguente abbattimento delle tariffe e accelerazione dello sviluppo dei mercati nazionali;

3) un progressivo disimpegno dei vettori di bandiera dal breve e medio raggio, caratterizzato dalla crescente penetrazione dei low cost, e il loro spostamento verso il meno concorrenziale e più remunerativo lungo raggio, non liberalizzato ma ancora soggetto in gran parte ad accordi bilaterali tra gli stati e a regimi di duopolio amministrato;

4) la progressiva uscita degli stati dall’azionariato delle compagnie di bandiera, motivata dalla necessità di reperire sui mercati i capitali necessari per sostenere la crescita e far fronte alla maggiore concorrenza e dalla consapevolezza di dover abbandonare le prassi gestionali delle vecchie gestioni pubbliche monopoliste.

L’alleanza con Klm

In questo periodo, la fine degli anni Novanta, Alitalia è guidata da Domenico Cempella, manager dalla carriera quasi tutta interna al vettore di bandiera. Dopo aver riportato l’azienda all’utile, Cempella cerca di prevenire i cambiamenti attraverso un progetto completamente nuovo nel panorama dell’aviazione commerciale, quello dell’aggregazione con un altro vettore, l’olandese Klm, che è perfettamente complementare ad Alitalia, in quanto privo del segmento nazionale ma robusto nel lungo raggio, il contrario della compagnia nazionale. 

L’aggregazione avrebbe permesso quattro obiettivi: (i) il salto dimensionale, col nuovo vettore che si sarebbe posto al vertice delle compagnie europee; (ii) una notevole crescita dell’offerta di lungo raggio; (iii) il disimpegno dello stato italiano da azionista di controllo; (iv) un adeguato utilizzo di Malpensa 2000 come hub di riferimento dell’aggregazione in aggiunta a Fiumicino e Amsterdam. L’aggregazione, però, fallisce, soprattutto per le resistenze italiane, politiche e sindacali, e ad aprile 2001 Klm si ritira dall’accordo, accollandosi una penale da 250 milioni che avrebbe prodotto l’ultimo bilancio in utile del nostro vettore.

Due sono le principali mancanze dal lato italiano: (i) il non aver rispettato la promessa di riduzione della partecipazione statale al di sotto del 50 per cento, con la conseguente perdita di controllo statale dopo l’aggregazione; (ii) i gravi ritardi nei collegamenti infrastrutturali di Malpensa 2000, che porteranno a un suo debutto problematico e all’impossibilità di concentrarvi i voli sino a quel momento realizzati su Linate. Senza Klm, Malpensa diviene, per la sola Alitalia, un secondo hub dispersivo e costoso, disponendo di una flotta di lungo raggio limitata e in contrazione, che dovrà oltretutto essere ripartita tra i due hub senza disporre di una massa critica in nessuno dei due.

Archiviato il matrimonio con Alitalia, due anni dopo Klm convola a nozze con Air France. Invece già nel 2001, appena dopo le dimissioni di Cempella e prima delle Torri Gemelle, la nostra compagnia di bandiera entra nell’alleanza mondiale Skyteam, promossa da Delta e Air France, pagando, come pedaggio, una disastrosa contrazione di quasi un terzo della sua capacità di lungo raggio in favore dei nuovi alleati. In questo modo si indebolisce ancora di più nei già insufficienti collegamenti intercontinentali, proprio dopo aver inaugurato il secondo hub di Malpensa e diviso in due la flotta, mentre le più grandi compagnie di bandiera, concorrenti e alleate, si muovono strategicamente in direzione opposta.

Arrivano le low cost

Dopo l’11 settembre, che penalizza soprattutto il lungo raggio e dunque i vettori tradizionali, i low costentrano in massa anche nel mercato italiano, dapprima sulle rotte di medio raggio dall’Unione europea e successivamente su quelle domestiche. Trovano terreno fertile grazie a due cambiamenti istituzionali avvenuti nel frattempo in Italia. Il primo è che negli anni Novanta le gestioni aeroportuali, in precedenza statali (ad eccezione di Sea-Milano, controllata dal comune, e di AdR-Aeroporti di Roma, azienda Iri), sono state privatizzate singolarmente in favore di azionisti locali, quasi sempre pubblici (come comuni e Camere di commercio). Si tratta di gestioni deboli, che faticano spesso a trovare livelli soddisfacenti di traffico ed equilibrio gestionale e divengono interlocutore ideale dei maggiori vettori low cost, disposti a portare traffico in cambio di sovvenzioni, arrivate, negli ultimi anni, sino a un livello complessivo stimato tra i 500 e i 600 milioni di euro. Il secondo cambiamento riguarda l’Iri, sin dalla fondazione di Alitalia suo promotore e attento azionista di controllo: viene posta in liquidazione a metà dell’anno 2000 e le residue aziende partecipate sono trasferite direttamente in capo al ministero dell’Economia e delle Finanze, che non aveva all’epoca, né sembra aver acquisito in seguito, le necessarie competenze di carattere industriale per gestirle.

La gestione Mef

Con la chiusura dell’Iri cade anche la capacità di indirizzare strategicamente e monitorare la gestione dell’azienda, tanto che nel 2008, alla fine dell’Alitalia pubblica, si scoprirà che l’80 per cento delle perdite realizzate in tutta la sessantennale storia dell’azienda si è verificato negli ultimi otto anni a gestione diretta del Mef. Per porre rimedio proprio a queste perdite, che crescono in maniera incontrollabile, alla fine del 2006 il governo Prodi avvia la privatizzazione dell’azienda. Il processo si protrae sino alla primavera del 2008, quando alla vigilia del voto anticipato, la strana alleanza tra sindacati aziendali e centrodestra politico fa naufragare la generosa offerta d’acquisto di Air France. La strana alleanza produce il curioso esperimento sovranista dei “capitani coraggiosi” i quali riusciranno a fare anche peggio, da un punto di vista gestionale, dell’ultimo stato imprenditore, come potremo vedere nella seconda parte di questa storia.

Esiste una spiegazione del doppio fallimento con Klm nel 2001 e con Air France nel 2008 ed è tipicamente una ragione “public choice”: convertire Alitalia a comportamenti di mercato, rinunciando a un controllo statale in realtà solo nominale, e privatizzandola, avrebbe sottratto le consistenti risorse da essa gestite alla creazione di benefici privati destinati ad apparati politici, burocratici e sindacali, stabilmente coalizzati per il mantenimento dello status quo, il quale, se poteva reggere col monopolio, non era tuttavia più in grado di farlo dopo la liberalizzazione del mercato.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!