I produttori di auto dicono di non essere pronti a rispettare i limiti alle emissioni previsti nel 2025, 2030 e 2035 e paventano scenari drammatici. Ma l’Europa non è chiamata a scegliere tra sopravvivenza dell’industria e lotta al cambiamento climatico.
Perché diminuire le emissioni
I limiti sulle emissioni CO2 dei veicoli servono per contenere i pesanti danni che il cambiamento climatico procura a livello globale. Le emissioni di CO2 sono infatti il primo fattore del cambiamento climatico, e il settore dei trasporti è uno dei maggiori responsabili della sua produzione.
In Europa, il settore produce circa il 29% delle emissioni totali di gas serra e causa inquinamento atmosferico, acustico e frammentazione degli habitat. In più, le sue emissioni sono aumentate dal 1990. Alla crescita del volume delle attività di trasporto, infatti, non ha fatto da contraltare una crescita dell’efficienza energetica dei veicoli. Dagli anni Novanta a oggi, l’Europa ha cercato di ridurre la CO2 emessa dai veicoli, con una serie di leggi fino a prevederne l’azzeramento per i nuovi veicoli venduti a partire dal 2035.
I piani europei di decarbonizzazione si scontrano oggi con la minaccia di una profonda crisi dell’industria automobilistica. Si è sviluppata una narrativa secondo la quale le case automobilistiche sarebbero state colte impreparate dai limiti stringenti e l’elettrificazione della mobilità imposti da un regolatore europeo che si oppone agli interessi dell’industria. Il corollario è che l’unica soluzione alla perdita di competitività del settore auto europeo sia uno slittamento dei limiti alle emissioni dal 2025 al 2027, o un abbassamento delle sanzioni per chi risultasse inadempiente. La stessa cosa è già successa in passato, quando per volere dei produttori sono state azzerate le proposte di una stretta sulle emissioni di CO2 e polveri sottili nel passaggio dalla normativa Euro 6 a quella Euro 7. Anche ora, i produttori non solo suggeriscono che le regole e le sanzioni porterebbero a un danno per lavoratori (chiusura di fabbriche) e cittadini (costi più alto di acquisto delle auto), ma affermano che distoglierebbero dagli investimenti per l’elettrificazione.
Ma cosa significa che l’industria automobilistica è impreparata a rispettare leggi emanate anni fa? Quali sono le cause di questa situazione? E cosa dovrebbe fare il regolatore?
Ricostruire l’evoluzione storica della normativa sulle performance CO2 dei veicoli aiuta a capire perché la narrativa “regolatore contro industria” è per molti versi artificiale. È vero che il contesto sociale e politico europeo potrebbe indurre un passo indietro nel percorso segnato dal “Green deal” su decarbonizzazione e trasporti, e spostare sulla collettività il costo di scelte strategiche dei costruttori che si sono rivelate fallimentari nel tempo. Ma il regolatore europeo non dovrebbe far slittare gli obiettivi fissati o ridurre le sanzioni. Come accaduto in passato, ciò porterebbe solo a disincentivare l’innovazione con conseguente perdita di competitività e a mettere in discussione la solidità di un impianto normativo che, con il Green deal, aveva l’ambizione di coniugare salute, ambiente e sviluppo sociale ed economico.
La genesi della normativa europea per il controllo delle emissioni CO2
Nel 1998 l’industria automobilistica assumeva l’impegno volontario di ridurre le emissioni di CO2. A partire dal 2007, alla luce del fatto che le emissioni prodotte dai trasporti continuavano ad aumentare, la politica europea cambia passo e introduce le prime misure sui veicoli leggeri. Il primo atto è la direttiva (EC) 443/2009 che sancisce che a partire dal 2015 le auto vendute in Europa non devono emettere più di 130 gCO2/km. La direttiva (EU) 510/2011 decreta poi che i veicoli commerciali leggeri non debbano superare i 175 g/km a partire dal 2017. Nel 2014 gli standard vengono aggiornati e nuovi regolamenti stabiliscono che entro il 2020 le auto devono arrivare a emettere 95 gCO2/km, 147 per i veicoli commerciali leggeri.
Ed effettivamente tra il 2007 e il 2015 si verifica una riduzione delle emissioni CO2 dei trasporti. Non era obbligo di legge prima del 2015, ma l’introduzione delle nuove politiche ha incentivato i costruttori a sviluppare prodotti che raggiungessero i target previsti.
Gli anni del “dieselgate”
Nel 2015 l’industria automobilistica è scossa dal cosiddetto “dieselgate”, lo scandalo Volkswagen, che ha svelato che i costruttori europei falsificavano i test sulle emissioni inquinanti diverse dalla CO2. Per anni, i produttori hanno fatto credere al regolatore di produrre veicoli che rispettavano gli standard Euro 5 ed Euro 6, quando non era così.
Il regolatore europeo ha reagito allo scandalo cambiando il sistema di controllo delle emissioni. Innanzitutto, cambia il modo in cui le emissioni CO2 sono misurate: nel 2017 si passa dal New European Driving Cycle al Worldwide harmonized Light-Duty vehicles Test Procedure (Wltp) che prende in considerazione un profilo di guida più vicino alla realtà quotidiana rispetto al precedente standard Nedc. Per intendersi, il Wltp rende molto più difficile l’introduzione sul mercato di “defeat device” come quello montato sui motori EA189 della Volskwagen, capaci di “ingannare” i test di laboratorio.
L’evoluzione della normativa Europea per il controllo delle emissioni CO2
Da dove deriva il limite di media di 93,6 gCO2/km dal 2025 di cui tanto si discute oggi? Il 17 aprile 2019 viene approvata la regulation (EU) 2019/631 che definisce le riduzioni di CO2 dalla sua entrata in vigore nel 2020 fino al 2030. In particolare, stabilisce gli obiettivi di 95 gCO2/km per il periodo 2021-2024, con una riduzione del 15 per cento nel 2025 rispetto alla baseline del 2021, e del 37,5 per cento nel 2030 rispetto alla stessa baseline.
Quindi, al contrario di quanto si vuol far credere, oggi, il limite medio alla CO2 al 2025, è frutto di una lieve riduzione rispetto al periodo 2021-2024. E si tratta di una riduzione che i produttori conoscono da parecchi anni, approvata nel 2019 e proposta dalla Commissione già nel 2017.
Quando il regolamento del 2019 è stato emendato nel 2023 per introdurre il phase-out del motore endotermico al 2035, il regolatore si è focalizzato sulla riduzione delle emissioni al 2030 e al post-2030, con il famoso limite di 0gCO2/km a partire dal 2035. Ma ha lasciato invariate le emissioni al 2025, con l’apprezzamento, all’epoca, dei produttori europei
Perché allora, per loro stessa ammissione, i produttori di auto oggi non sono pronti? La risposta è nella strategia scelta per raggiungere gli obiettivi di emissione.
La scommessa sull’elettrico
Gli obiettivi della normativa europea sono da raggiungere a livello di media parco auto venduto nel periodo e i produttori che affermano oggi di non riuscire a rispettare i limiti previsti per il 2025 e il 2035, in linea generale, sono quelli che hanno deciso di raggiungerli guadagnando quote di mercato nell’elettrico senza innovare nell’endotermico. Questa scelta ha portato l’industria automotive “europea” a seguire due traiettorie tra loro in conflitto: da un lato, i produttori hanno smesso di investire sulla riduzione delle emissioni dei motori endotermici per dedicarsi alla crescita della quota dell’elettrico, dall’altro, hanno ritardato gli investimenti nella gamma prodotto elettrificata per sfruttare al massimo la maggiore marginalità sui prodotti endotermici.
A renderlo possibile, sono stati da una parte i “successi” ottenuti dai produttori, come l’annacquamento dello standard Euro 7, che ha limiti allo scarico identici all’Euro 6. Se fosse passato l’Euro 7 voluto dalla Commissione, il rispetto degli obiettivi al 2025 sarebbe a un passo.
D’altra parte, seguendo questa strategia, la quota dell’elettrico in Europa non ha raggiunto i valori attesi, soprattutto per la bassa quota in paesi come Italia e Spagna. Anche in questo caso le ragioni sono riconducibili a scelte dei produttori: l’interesse a vendere auto endotermiche per la loro maggiore marginalità e l’assenza di auto full electric economicamente accessibili nelle fasce A e B del mercato, ovvero modelli di piccole dimensioni e poco energivore.
In queste condizioni è chiaro che la strada verso il rispetto dei limiti previsti è tutta in salita. Ora si prospetta il rischio di pagare sanzioni molto salate, che è il vero motivo per cui i produttori auto chiedono di allentare i limiti. A partire dal 2025, coloro che non riescono a rispettare i valori medi per flotta dovranno pagare 95 euro per ogni g/km oltre l’obiettivo per ogni auto venduta in Europa in un anno: se per esempio, una casa automobilistica dovesse mancare il suo obiettivo di 5 g/km e vendesse 100mila auto nel 2025, dovrebbe pagare una multa di 47,5 milioni di euro.
Il falso dilemma per l’Europa
La richiesta di alcuni governi e produttori (non tutti per la verità) di rivedere le sanzioni al ribasso è quantomeno tardiva e si basa sull’introduzione di un falso dilemma per il regolatore europeo: controllare la minaccia di licenziamenti di massa e delocalizzazioni in caso di pagamento di sanzioni rispetto a controllare le emissioni di CO2 e di altri fattori inquinanti.
La questione è mal posta per due ragioni. La prima è che le conseguenze drammatiche per l’industria sono in parte esagerate e in parte evitabili. Lo mostrano le traiettorie di produttori che hanno accettato la sfida della sostenibilità, ad esempio Volvo che ha investito a tempo debito sull’elettrico e sullo sviluppo di motori endotermici poco inquinanti. Per altre case automobilistiche, la gamma prodotto e le nuove uscite nel 2025 fanno pensare che probabilmente l’ammontare delle sanzioni non sarà troppo alto. E non è da escludere che in un solo anno si possano ottenere riduzioni significative della CO2: è già accaduto in passato, come mostra nella figura 1 il grafico dell’International Council on Clean Transportation; più in generale le prestazioni del settore non dovrebbero essere giudicate in base alla situazione di mercato nell’anno precedente all’obiettivo.
La seconda ragione è che i bilanci dei produttori auto non sono oggi in perdita, mentre il cambiamento climatico e l’inquinamento sono problematiche con cui fare i conti immediatamente. Esistono margini per recuperare il gap di competitività verso la Cina. Per i produttori di auto la vera scelta è tra investimenti, lavoro e nuovi prodotti e dividendi. Finora hanno preferito distribuire i secondi. L’Europa dovrà senz’altro semplificare e integrare meglio il quadro normativo. Non si tratta solo di abbattere la CO2 e gli inquinanti (di per sé un’esigenza concreta, a protezione della nostra salute), si tratta anche di evitare di perdere terreno nella tecnologia. In passato, la regolamentazione europea ha favorito gli attori locali in quanto imponeva tecnologie molto avanzate. Il problema di oggi è che i produttori europei hanno rallentato nel corso degli anni gli investimenti.
Figura 1
Interessi di parte e nazionalismi
Oggi, il rischio concreto è che i produttori in ritardo sull’elettrico decidano di ridurre i volumi di produzione delle auto endotermiche per rispettare la media delle emissioni al 2025. Per farlo, potrebbero agire sui listini delle auto. Con l’aumento dei prezzi, i consumatori acquisterebbero meno auto e si avrebbe una contrazione della produzione che potrebbe portare a licenziamenti o alla cassa integrazione dei lavoratori, soprattutto lungo la filiera. Una situazione di questo tipo salvaguarderebbe i profitti dei produttori, a scapito di fornitori (orfani di volumi e commesse) e cittadini (lavoratori o consumatori).
In un gigantesco Truman Show, finiamo per considerare pragmatiche posizioni che intendono fare un passo indietro sugli obiettivi del Green deal. I giornali e il dibattito pubblico sono pervasi da posizioni che vedono il phase-out del motore endotermico come il suicidio industriale dell’Europa, testimoniato dai licenziamenti, crisi della filiera di fornitura e listini delle auto in crescita. E le posizioni “pragmatiche” dei governi sono spesso adottate sotto la minaccia di interessi di parte: quelli dei produttori auto o delle imprese petrolifere, pronti a punire le posizioni progressiste con la delocalizzazione delle produzioni e degli stabilimenti in paesi che sostengono i loro interessi.
Il risveglio dal Truman Show rischia però di essere molto più duro delle sanzioni che forse graveranno nel 2025 sui bilanci dei produttori auto. Il primo mercato al mondo, la Cina, procede a tappe forzate verso l’elettrificazione, metà dei 30 milioni di veicoli prodotti e venduti dal gigante asiatico è full electric. Negli Stati Uniti l’Inflation Reduction Act ha prodotto una enorme mole di investimenti nell’elettrificazione, che difficilmente saranno abbandonati. L’unica possibilità di rimanere competitiva per l’Europa – e i suoi stati – è cercare una posizione coesa a difesa degli interessi dei cittadini (per l’aria che respirano e il lavoro in cui sono occupati) e dell’ambiente, che porti i produttori di auto ad accelerare nella direzione tracciata dal Green deal,tornando a reinvestire i profitti nell’innovazione di prodotto, per la crescita della competitività industriale.
* Parte delle argomentazioni qui presentate sono frutto della ricerca realizzata nell’ambito del progetto Horizon Europe REBALANCE.
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