L’obiettivo del raddoppio dei dazi su acciaio e alluminio deciso da Trump è non lasciare alle imprese Usa altra alternativa che acquistare da fornitori americani. Il protezionismo nel settore è di vecchia data, ma non ha dato grandi risultati, anzi.
L’ennesimo annuncio di Trump
L’ultima puntata nella guerra commerciale che degli Stati Uniti hanno dichiarato al resto del mondo – non più soltanto alla Repubblica popolare cinese – è l’aumento dei dazi su acciaio e alluminio dal 25 al 50 per cento a partire dal 4 giugno. L’annuncio è avvenuto durante il comizio presso la fabbrica US Steel, quando il presidente Trump ha dichiarato di voler rendere i dazi così alti da non lasciare alle imprese statunitensi altra alternativa che acquistare da fornitori americani.
Gli Stati Uniti sono il più grande importatore di acciaio e alluminio al mondo, dopo l’Unione europea, e ricevono la maggior parte del metallo da Canada, Brasile, Messico e Corea del Sud. Oggi le importazioni coprono circa il 47 per cento del fabbisogno nazionale di alluminio e il 24,8 per cento di quello di acciaio.
Durante il suo primo mandato (20 gennaio 2017 – 19 gennaio 2021), Trump aveva già imposto dazi del 25 per cento sull’acciaio e del 10 per cento sull’alluminio, applicando una legge che conferisce al presidente Usa l’autorità di proteggere le industrie considerate vitali per la sicurezza nazionale.
A marzo di quest’anno, però, Trump ha dichiarato che non bastano, insoddisfatto soprattutto per il modo in cui le protezioni sono state indebolite dalle molte deroghe e accordi stretti con gli alleati, per rispondere alle richieste delle imprese. Ed è così che nel comizio alla US Steel ha annunciato, con toni da campagna elettorale, che ora “Nessuno riuscirà ad aggirare questa misura” – ovvero quella che porta l’aliquota al 50 per cento. E ha aggiunto: “Questo significa che nessuno potrà rubarvi l’industria. Al 25 per cento possono scavalcare la recinzione. Al 50 per cento, non possono più scavalcare la recinzione”.
La sicurezza nazionale protetta con le tariffe
Il settore siderurgico statunitense, spina dorsale delle infrastrutture, della difesa e dell’industria manifatturiera pesante, da decenni è in declino e incapace di soddisfare il fabbisogno nazionale di materie prime. Ciò spiega perché, nella storia commerciale degli Stati Uniti, l’industria siderurgica sia stata uno dei settori più protetti e le importazioni di acciaio siano da sempre al centro delle strategie tariffarie americane. Nel 1962, tra i timori di embarghi sovietici e la necessità di garantire le forniture di acciaio, il Congresso emanò la Sezione 232 del Trade Expansion Act per autorizzare il presidente a imporre o modificare le tariffe se le importazioni “minacciano di compromettere la sicurezza nazionale”. Quella legge rifletteva un cambiamento nella politica commerciale degli Stati Uniti, che ora includeva la sicurezza nazionale come giustificazione a sé stante per proteggere industrie come quella dell’acciaio.
D’altra parte, i dazi doganali sono stati storicamente uno strumento utilizzato per alimentare le industrie nazionali quando erano ancora in fase di sviluppo. All’inizio della storia americana, competere a livello globale con paesi che avevano già industrie consolidate era una notevole sfida. Nel suo Rapporto sulla Manifattura del 1791, Alexander Hamilton sosteneva che le nascenti manifatture americane – dai tessuti ai prodotti in ferro – necessitavano di uno scudo temporaneo dalle importazioni britanniche a basso costo attraverso dazi fino al 15 per cento, sussidi e misure di sostegno al miglioramento interno per raggiungere una scala competitiva. All’inizio del 1792, i dazi sulle manifatture importate passarono da quasi zero a un massimo del 12,5 per cento, gettando le basi per una strategia protezionistica negli Stati Uniti.
Alla fine del XIX secolo, l’impatto positivo delle precedenti misure protezionistiche sulla crescita industriale, in particolare in settori come l’acciaio, ha reso necessario trasformare l’argomentazione a favore delle tariffe da “protezione di un’industria nascente” a mantenimento dei salari dei lavoratori e a sostegno delle imprese nazionali.
Negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno registrato un costante aumento delle politiche protezionistiche, con un notevole incremento delle richieste di un commercio “equo” per controbilanciare la concorrenza straniera. Numerosi i casi in cui le industrie nazionali accusavano i produttori stranieri di praticare il dumping dell’acciaio. Questi eventi hanno portato all’attuazione di tariffe come parte di una strategia più ampia per salvaguardare le industrie locali da prezzi predatori. Alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, le importazioni di acciaio sono aumentate notevolmente, scatenando un’ondata di petizioni antidumping, dazi compensativi e clausole di salvaguardia, poiché la produzione statunitense ha lottato per competere con l’acciaio straniero a basso prezzo. Iniziato con le restrizioni alle importazioni nel 1969-1970, il protezionismo siderurgico degli Stati Uniti è proseguito con l’introduzione di prezzi limite nel 1978 e con gli accordi di restrizione volontaria delle esportazioni da parte dei partner nel 1984. In particolare, l’introduzione degli accordi di restrizione volontaria (Ver) tra la metà e la fine degli anni Ottanta ha esemplificato una politica commerciale strategica volta a sostenere l’industria siderurgica nazionale nonostante i sentimenti di libero scambio all’interno del governo.
Dagli anni Novanta, poi, sono state utilizzate ampiamente le misure antidumping e i dazi compensativi, soprattutto nei confronti di Pechino. Infatti, dal 2007 la Cina è il principale esportatore di acciaio e nel 2023, con 94,3 milioni di tonnellate esportate, ha superato tutti gli altri paesi, compreso il Giappone, al secondo posto con 32,2 milioni di tonnellate.
Un declino nato dalle richieste di protezione?
Le misure protezionistiche hanno perseguito lo scopo di stabilizzare i prezzi e dare respiro ai produttori statunitensi di fronte alla crescente concorrenza delle importazioni. Alla prova dei fatti, il protezionismo siderurgico non sembra aver raggiunto il suo obiettivo politico di sostenere i prezzi per i produttori. Per ironia della sorte, il declino dell’industria siderurgica potrebbe essere in parte proprio il risultato delle sue persistenti richieste di protezione. Infatti, l’introduzione a intermittenza di misure protezionistiche contestualmente al controllo dei prezzi (attraverso l’imposizione di prezzi massimi), spesso giustificate dalla necessità di mantenere la stabilità economica e proteggere i posti di lavoro, hanno in realtà indebolito il settore. Spendendo tanto capitale politico in una protezione commerciale inefficace, l’industria siderurgica potrebbe aver perso l’opportunità di concentrarsi su questioni più sostanziali, che avrebbero potuto contenere il costo dei fattori e migliorare la sua capacità competitiva.
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Pietro Della Casa
La mia impressione è che le generalizzazioni non portino a nulla, se non a discussioni circolari.
Il protezionismo è uno strumento che funziona bene o male, come infiniti altri, a seconda di come, quando e perché lo si usa. Come il liberalismo, l’economia pianificata ed il cacciavite.
Se l’industria siderurgica non è competitiva, si tratta semplicemente di esaminare la struttura dei costi in USA (o in Italia) ed all’estero, diciamo per esempio in Cina, i motivi reali vengono fuori…
Giancarlo Degli Esposti
Ben detto. La recinzione sarà così alta che nessuno potrà scavalcarla e così quelli che saranno dentro al recinto non saranno indotti a confrontarsi col mondo e a migliorarsi. La strada del declino assumerà una pendenza maggiore.