Il disegno di legge approvato definitivamente dal Senato per la disciplina degli standard retributivi e il sostegno alla contrattazione, pur offrendo il fianco a critiche, consente la sperimentazione di un minimum wage là dove faccia difetto il contratto collettivo.

Il gran rifiuto dell’opposizione di centro-sinistra

L’atto n. 957-S contenente il disegno di legge approvato in via definitiva dal Senato il 23 settembre scorso “in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva” si apre con un’epigrafe assai inconsueta: i nomi dei 26 parlamentari di centro-sinistra che all’inizio della legislatura avevano presentato il progetto – da Giuseppe Conte a Elly Schlein, a Riccardo Magi, all’ex-ministro del Lavoro Andrea Orlando – sono accompagnati uno per uno da una nota a piè di pagina da cui si apprende che le loro firme sono state ritirate.

È accaduto, infatti, che il contenuto originario del disegno di legge delle forze di opposizione, con la previsione dei 9 euro orari come retribuzione minima universale (applicabile, cioè, a tutti i lavoratori dipendenti, su tutto il territorio nazionale), sia stato sostituito in blocco da un insieme di disposizioni elaborate dal governo e approvate dalla maggioranza. Donde il disconoscimento plateale della paternità del provvedimento da parte dei suoi promotori di centro-sinistra. Anche i sostenitori dell’introduzione in Italia del minimum wage, però, se lasciano che il polverone dello scontro politico si depositi ed esaminano senza faziosità il contenuto di questa delega al governo, possono riconoscere alcuni aspetti positivi in questo nuovo testo legislativo.

Il salario minimo viene riproposto nella stessa forma in cui era previsto nel Jobs Act

La prima cosa che salta all’occhio è che sul minimum wage governo e maggioranza sembrano avere, almeno in qualche misura, cambiato idea: nell’articolo 1, comma 2, lettera g, si prevede che “per i settori non coperti da contrattazione collettiva”, o per quelli il cui contratto collettivo sia scaduto e non sia stato tempestivamente rinnovato, il ministero del Lavoro stabilisca in via provvisoria il trattamento economico complessivo minimo dovuto ai lavoratori. La tecnica normativa adottata qui è esattamente la stessa della delega al governo che era contenuta nella legge n. 183/2014 (il cosiddetto Jobs Act), art. 1, c. 7, anche lì lettera g: delega – sia detto per inciso – che allora non venne attuata per il veto posto in proposito dalla Cgil. 

Il nuovo regime prevede in sostanza questo: dove le associazioni maggiormente rappresentative fanno tempestivamente e in modo efficace il proprio mestiere, la contrattazione collettiva sugli standard retributivi minimi è sovrana; ma dove la contrattazione non funziona a dovere o è in ritardo, provvede in via sussidiaria l’autorità statale. Non è un passo avanti da poco, rispetto al secco niet che governo e maggioranza avevano inizialmente opposto all’iniziativa legislativa delle opposizioni. E stupisce che queste non abbiano salutato la svolta come un proprio successo, sia pur parziale.

Fatto sta che la nuova disposizione consente ora, a ben vedere, l’introduzione di un minimum wage di settore stabilito in via sussidiaria dal governo non solo in tutti i casi (assai frequenti) di ritardo nel rinnovo di un contratto collettivo, ma – intendendosi il termine “copertura” come sinonimo di “protezione adeguata” – anche nei casi in cui il governo ritenga che il minimo stabilito dal contratto collettivo applicato non soddisfi il principio sancito dall’articolo 36 della Costituzione. Può essere questo un modo per evitare che il solo rimedio alle disfunzioni del sistema delle relazioni industriali sia il regime di ”supplenza giudiziaria” aperto con le sentenze della Corte di Cassazione n. 27711 e n. 27769 del 2 ottobre 2023.

Certo, la disposizione non predetermina uno standard unico – come i 9 euro orari inizialmente proposti dal progetto dei partiti di opposizione –, né definisce i criteri a cui il governo dovrà attenersi nell’istituirlo là dove manchi una pattuizione collettiva adeguata. Ma non è detto che questo sia un male: la flessibilità dell’apparato protettivo, in questo campo, è assai opportuna. E in un prossimo futuro potrebbe essere anche un governo di centro-sinistra ad aver bisogno proprio di un meccanismo come quello previsto in questa parte della legge-delega per la propria politica del lavoro.

Le nuove disposizioni per il rafforzamento della contrattazione collettiva

Un’altra parte cospicua della delega al governo contenuta nella nuova legge (articolo 2, lettere a, b e c) è mirata a estendere erga omnes l’efficacia degli standard retributivi previsti dai contratti collettivi. 

Qui suscita non poche perplessità la disposizione contenuta nella lettera a, tendente a sostituire il criterio selettivo della maggiore rappresentatività delle associazioni stipulanti con quello del maggiore numero di imprese e di lavoratori a cui il contratto si applica: appare davvero poco probabile che la disposizione possa superare il vaglio di costituzionalità, in riferimento all’articolo 39 della Carta.

Vedremo se e come la ministra del Lavoro Marina Calderone, nell’adempimento della delega, affronterà il rompicapo – irrisolto da quasi otto decenni – della verifica della rappresentatività dei sindacati stipulanti e della conseguente selezione del contratto collettivo la cui efficacia sia suscettibile di estensione erga omnes. Vorrei invece cogliere l’occasione di questo commento a caldo della nuova legge delega per proporre un suggerimento su come adempiere l’ulteriore delega contenuta nella lettera d dell’articolo 2: quella che mira a “favorire il progressivo sviluppo della contrattazione di secondo livello”. Il sistema italiano delle relazioni industriali ha urgente bisogno di questo stimolo, affinché una quota del monte-salari complessivo assai maggiore di quella attuale venga di regola negoziata al livello della singola impresa per essere destinata a premiare l’aumento della produttività: si incentiverà così la migrazione della forza-lavoro dalle imprese meno capaci a quelle più capaci di valorizzarla e retribuirla.

Legare una parte maggiore delle retribuzioni alla produttività aziendale

Il decreto delegato emanato in adempimento della delega contenuta nella lettera d potrebbe incentivare con una agevolazione fiscale rafforzata l’istituzione da parte dei contratti nazionali di settore di un cospicuo monte-premio da distribuire ai dipendenti di ciascuna azienda non inferiore a una percentuale – determinata secondo le caratteristiche strutturali del settore – dell’eventuale aumento del margine operativo lordo (Mol) aziendale registrato nell’ultimo anno rispetto a quello precedente. Il Mol (nel linguaggio del management: Ebitda) è un dato molto grezzo di cui necessariamente dispone qualsiasi impresa, anche non soggetta all’obbligo di bilancio. Esso è inoltre un dato molto facilmente suscettibile di controllo da parte del collettivo dei lavoratori di un’azienda. Ma – qui sta lo stimolo alla diffusione della contrattazione aziendale – questo meccanismo deve poter essere sostituito da un meccanismo di determinazione del premio anche totalmente diverso, mediante un contratto aziendale stipulato da una coalizione che abbia una rappresentatività maggioritaria nell’azienda, verificata secondo i criteri degli accordi interconfederali del 2013-2014.

In questo modo la norma di sostegno alla contrattazione decentrata contribuirà anche all’effettività dell’attuazione della legge 15 maggio 2025 n. 76 sulla partecipazione: perché quanto maggiore sarà la parte della retribuzione agganciata all’andamento dell’impresa, tanto maggiore sarà l’interesse dei lavoratori a controllare l’andamento stesso.

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