Populismo fiscale dietro le nuove tasse sulle banche

Il governo ha varato una complessa manovra che nel 2026 costerà alle banche svariati miliardi tra nuove tasse e anticipi di liquidità. Ma a preoccupare sono le distorsioni che così si producono tra minori accantonamenti e maggiori costi della raccolta.

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Tre anni di prelievi dalle banche

Per il terzo anno consecutivo il governo ha deciso di tassare le banche. Difficile definire il provvedimento un “contributo volontario”, poiché nulla è stato voluto dal sistema bancario. Né possiamo chiamarlo una tassa sui profitti, poiché i meccanismi di prelievo sono tra i più disparati e, in ogni caso, poco hanno a che vedere con il risultato dell’esercizio. Tanto meno si può parlare di tassa sugli “extra-profitti”, giacché il termine implica un carattere di eccezionalità di cui non si scorge traccia.

Da tempo, infatti, gli alti tassi d’interesse – che tre anni fa erano serviti a combattere l’inflazione – si sono fortemente ridotti, così come i loro effetti sugli spread tra tassi sugli impieghi e quelli sui depositi, e conseguentemente sul margine d’interesse.

Comunque sia, nel 2023 e nel 2024 era stata varata una tassa “sugli extraprofitti”. Nel primo anno non portò alcun gettito, poiché era stata offerta alle banche la possibilità di evitarla accantonando una quota dei profitti al fine di rafforzarne il patrimonio. Nel secondo anno il prelievo si è presentato nella veste di un prestito, giacché era stato disposto un ritardato utilizzo dei crediti fiscali che le banche avevano accumulato a fronte degli impieghi andati in sofferenza. In termini tecnici, sono state congelate per un paio d’anni le cosiddette Dta (Deferred Tax Assets).

Questa volta il governo sembra, tuttavia, fare più sul serio. Il prelievo, con uno sforzo di fantasia senza precedenti, si compone di ben cinque interventi, forieri di effetti distorsivi rilevanti, che vanno a intaccare la stabilità degli enti creditizi e i costi dei servizi offerti a imprese e consumatori.

L’affrancamento delle riserve 

L’articolo 20 del disegno di legge di bilancio prevede un affrancamento – sulla carta volontario ma di fatto obbligatorio – degli accantonamenti effettuati nel 2023, pari a 6,2 miliardi, che potrà essere distribuito come dividendo dopo aver pagato un’aliquota “agevolata” del 27,5 per cento se la distribuzione avviene nel 2026 (in luogo dell’aliquota del 40 per cento altrimenti dovuta). L’aliquota sale al 33 per cento se il dividendo è distribuito nel 2027. 

L’affrancamento è solo apparentemente facoltativo poiché la legge introduce la presunzione che qualsiasi dividendo pagato dopo il 2027 si considera prelevato dalla riserva in questione. Le banche possono dunque evitare l’imposta solo cessando di distribuire dividendi dal 2028 in avanti; se lo faranno dovranno pagare l’imposta straordinaria del 40 per cento. In alternativa potranno, tuttavia, affrancare la riserva in questione pagando l’imposta sostitutiva del 27,5 per cento nel 2026 ovvero del 33 per cento nel 2027. La misura complessiva vale circa 1,65 miliardi, nell’ipotesi realistica che tutte le banche affranchino le riserve nel 2026.

Non si è mai visto in nessun paese al mondo un governo indurre le banche a ridurre le proprie riserve e distribuire dividendi al più presto, aumentando così la fragilità del sistema, al solo fine di raccogliere gettito fiscale.

Aumento dell’Irap

L’articolo 21 prevede invece, per il triennio 2026-2028, un aumento dell’Irap dal 4,65 al 6,65 per cento per le banche e gli altri intermediari finanziari, e dal 5,90 al 7,90 per cento per le assicurazioni. La misura dovrebbe valere 1,2 miliardi nel 2026 (e 1,3 nel 2027).

Peraltro, il bancario è già oggi più tassato degli altri settori produttivi: l’aliquota Ires, generalmente pari al 24 per cento, è maggiorata di 3,5 punti percentuali per intermediari finanziari, assicurazioni e banche; l’Irap, applicata al 3,9 per cento nella generalità dei casi, è invece al 4,65 per cento per le banche (5,90 per cento per le assicurazioni). A ciò si aggiungono addizionali e imposte di bollo specifiche sui conti correnti, sui depositi titoli e sulle transazioni finanziarie, oltre ai contributi al fondo di risoluzione e al fondo interbancario di tutela dei depositi. Da notare che la legge delega per la riforma tributaria prevede, all’art. 8, la progressiva abrogazione dell’Irap.

Riduzione della deducibilità degli interessi passivi

All’ultimo momento, all’articolo 33, è spuntata anche una riduzione della deducibilità degli interessi passivi delle banche dal 100 per cento al 96 per cento nel 2026; al 97 per cento nel 2027; al 98 per cento nel 2028; al 99 per cento nel 2029. La misura che vale, ma a partire dal 2027, circa 0,5 miliardi. Si applica già oggi ad assicurazioni e Sgr (società di gestione del risparmio) con effetti limitati, data la trascurabilità degli interessi passivi in quei settori. Diversamente, per le banche gli interessi passivi rappresentano il vero e proprio costo della materia prima. Si tratta, quindi, di una misura fortemente distorsiva, perché potrebbe indurre le banche a ridurre gli interessi pagati ai depositanti.

Anticipo di liquidità

Come l’anno scorso, all’articolo 22, è previsto un ulteriore anticipo di liquidità. Per il 2026 l’effetto sarà maggiore, poiché l’aliquota per la compensazione delle perdite e delle eccedenze Ace scenderà dal 54 per cento (già concordato lo scorso anno, rispetto all’ordinario 80 per cento) al 45 per cento. Nel 2027 e nel 2028 tornerà al 54 per cento. Da tale misura si attende un gettito di circa 1,2 miliardi.

Deducibilità delle svalutazioni dei crediti

Per il quadriennio 2026/2029, infine, all’articolo 19, il disegno di legge dispone la deducibilità in cinque anni – mentre attualmente opera nell’esercizio di contabilizzazione – delle svalutazioni dei crediti “del primo e secondo stadio di rischio di credito” per chi utilizza il modello di rilevazione del fondo a copertura perdite. Si tratta di crediti considerati “non deteriorati”. Anche in questo caso, la norma (che vale 0,16 miliardi) incentiva minori accantonamenti e comportamenti meno prudenti.

Gli effetti che produrrà

Nel complesso la manovra nel 2026 costerà alle banche 3,6 miliardi di nuove tasse e 1,2 miliardi di anticipi di liquidità non remunerati. Tuttavia, sono le distorsioni che produce in termini di minori accantonamenti e maggiori costi della raccolta che ci preoccupano di più. Nel breve periodo, tali costi graveranno sugli investitori italiani e stranieri. Nel lungo periodo, invece, è probabile che le banche riducano gli accantonamenti, i tassi sui depositi e gli impieghi alle imprese italiane per far fronte al minor capitale accumulato.

Ma che importa, poi, avere un settore bancario forte, anche se questo rappresenta un prerequisito fondamentale per la crescita e la stabilità del paese e anche se le banche italiane sono uno dei pochi comparti in grado di competere ed espandersi a livello internazionale?Questo è il prezzo da pagare al populismo fiscale, che si propone di rottamare le cartelle esattoriali, posticipare l’entrata in vigore dell’età pensionabile nonostante l’aumento dell’aspettativa di vita e svuotare di significato l’Isee – l’indicatore che ha cercato onestamente di valutare la situazione economica e finanziaria delle famiglie italiane. Così, potremmo finalmente proclamare anche noi, come fece Carlo III di Spagna a molti scontenti che reclamavano un titolo: “Todos caballeros”.

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