L’astensione continua a crescere in Italia. La questione si può risolvere imponendo l’obbligo di voto? L’esperienza degli stati che lo prevedono suggerisce che non è la strada da seguire. Meglio pensare a favorire chi vorrebbe votare e non riesce a farlo.

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Novembre elettorale in Italia e in Cile

Il 23 e 24 novembre 2025 si sono tenute le elezioni regionali in Veneto, Campania e Puglia. Il tasso di astensione, in coerente tendenza con il suo andamento degli ultimi anni, si è confermato in crescita. Pochi giorni prima, il 16 novembre 2025, si è svolto anche il primo turno delle elezioni presidenziali cilene. Il fatto che in Italia si eleggessero i presidenti di tre regioni e in Cile il presidente della repubblica non è l’unica differenza tra le due tornate elettorali. La nazione sudamericana è infatti fra quelle (non poi così) poche che prevedono l’obbligo del voto. 

Se la disaffezione per le urne continua a crescere, l’introduzione dell’obbligo anche nel nostro paese potrebbe risolvere il problema? L’esperienza degli stati che lo prevedono, qualche numero e anche un minimo di buon senso, suggeriscono che non sembra la strada migliore da intraprendere. 

Paesi dove votare è un obbligo

Gran parte della letteratura economica e politica più tradizionale spiega l’astensione come un banale effetto dei costi del voto, che possono essere tanto monetari quanto non monetari. Da un lato, infatti, recarsi alle urne potrebbe richiedere un viaggio, per chi studia o lavora lontano dal luogo ufficiale di residenza (e quindi di voto); dall’altro, votare richiede sicuramente tempo, da dedicare all’informazione prima e all’esercizio pratico del diritto poi (per esempio, per recarsi al seggio e fare la fila). Quando il costo diventa troppo elevato, quindi, non si vota. 

Ci sono, però, anche stati dove a sopportare un costo è, al contrario, chi non vota. Si tratta di 27 paesi (su un database che ne comprende 204) che, da subito o nel corso degli anni successivi all’introduzione del diritto di voto, hanno previsto sanzioni pecuniarie o amministrative per chi si rifiuta di recarsi alle urne. Tra di loro, come si vede nella tabella 1, ben dodici sono stati centro o sudamericani, cinque sono europee (Belgio, Bulgaria, Liechtenstein, Lussemburgo e Turchia), quattro sono asiatiche, tre africane e altrettante dell’Oceania. 

Il paese più popoloso dove l’obbligo è in vigore è il Brasile (oltre 200 milioni di abitanti nel 2024), seguito dal Messico (131 milioni di abitanti) e dall’Egitto (116,5 milioni di abitanti). 

Le sanzioni previste sono prevalentemente economiche: multe, nella maggior parte dei casi, che possono essere più o meno salate a seconda del paese. Ad esempio, Bulgaria, Costa Rica e Turchia non prevedono alcuna sanzione legale, annullando di fatto l’effetto dissuasivo dell’obbligo. In Australia, l’ammenda prevista è di appena 20 dollari australiani, mentre in Bolivia si sale al 5 per cento del salario minimo vigente per legge. Emblematico è il caso del Lussemburgo, dove la multa può (in teoria) arrivare anche a mille euro per coloro che si astengono ripetutamente. Tuttavia, nelle scorse elezioni legislative del paese, il numero di persone che hanno scelto di non recarsi alle urne ha toccato quota 37mila persone (equivalente al 18 per cento di astenuti): di fronte all’entità del fenomeno, il ministero della Giustizia ha deciso di non perseguire coloro che non hanno espresso il voto, semplicemente perché farlo sarebbe stato troppo oneroso. In genere sono comunque previste anche eccezioni, in alcuni casi molto numerose: distanza eccessiva dal luogo in cui si vota, che include anche il trovarsi all’estero, età (gli elettori più giovani o più anziani in Argentina, Bolivia, Brasile e Lussemburgo non sono obbligati a votare), impedimenti religiosi, motivi di lavoro o anche più generiche “cause di forza maggiore”. Brasile ed Ecuador prevedono l’esclusione dall’obbligo anche per coloro che non sanno leggere.

Il “dovere civico” dell’Italia

In Italia il voto non è considerato “obbligatorio”. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 48 della Costituzione prevede che il suo esercizio sia un “dovere civico”. Ma cosa significa nella pratica? La legislazione ordinaria si è occupata della questione per la prima volta con decreto del Presidente della Repubblica (Dpr) 361 del 1957 (“Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati”). Innanzitutto, l’articolo 4 stabiliva che “l’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il paese”. Questa previsione rimase in vigore fino al 1993, quando il comma fu sostituito dal seguente: “Il voto è un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica”. In questo modo, venne totalmente cancellato il riferimento tanto all’“obbligo” quanto al meno forte “dovere civico”; una scelta su cui tuttavia il legislatore ritornò nel 2005. Da allora, il principio è stabilito in questo modo: “Il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica”. 

Si è parlato di principio perché, in assenza di pene, è chiaro che prevedere o meno un dovere o un obbligo non crea alcun tipo di conseguenza. Per questo, bisogna fare invece riferimento all’articolo 115 del medesimo Testo unico, che, nel 1957, prevedeva una pena a dir poco simbolica: “L’elenco di coloro che si astengono dal voto nelle elezioni per la Camera dei deputati, senza giustificato motivo, è esposto per la durata di un mese nell’albo comunale”. Peraltro, si nota la presenza di un “giustificato motivo” che era a discrezione del sindaco. La pena, in altre parole, non sarebbe nemmeno stata necessariamente automatica. A scanso di equivoci, nel 1993 l’articolo fu abrogato e mai più sostituito.

Tra astensione e schede bianche

Se l’obbligo di voto è una strategia per diminuire l’astensione, è chiaro che si tratta di una opzione poco efficace. Certo, i tassi ufficiali di astensione si abbasserebbero, ma è molto probabile che potrebbero moltiplicarsi le schede bianche o quelle nulle. In un precedente contributo è stato in effetti evidenziato come negli ultimi venti anni sia aumentato l’astensionismo e, per contro, siano diminuite le schede bianche o nulle. Troppo poco per dimostrare una relazione causale, ma l’argomento logico sembra convincente. Bisogna sottolineare, inoltre, che votare scheda bianca o nulla rappresenterebbe il male minore rispetto a votare “a caso” solo perché si è obbligati a farlo. E non si può escludere che qualcuno si comporti esattamente in questo modo. 

Un po’ di evidenza empirica più robusta mostra come il tasso di partecipazione al voto medio nei ventisette paesi dove il voto è obbligatorio sia in effetti più elevato di quello medio in quelli dove non lo è. Tuttavia, oggi, la differenza non è enorme (poco più del 7 per cento) e il tasso di astensionismo, in aumento ormai da metà degli anni Sessanta del secolo scorso, ha raggiunto un livello medio del 30 per cento anche in quei paesi. Complice, probabilmente, la difficoltà di imporre gli obblighi o una imposizione solo formale e non sostanziale. 

D’altro canto, l’esperienza cilena, per quanto limitata, mostra che almeno nell’immediato l’introduzione dell’obbligo di voto possa avere effetti sensibili. L’obbligatorietà venne infatti reintrodotta nel 2022: nel 2021, il primo turno delle elezioni presidenziali registrò un tasso di astensionismo superiore al 50 per cento; nel 2025, al contrario, è risultato del 15 per cento. Bisogna comunque osservare che i voti non validi (schede bianche o nulle) erano l’1,2 per cento del totale di quelli validi nel 2021 e sono schizzati a oltre il 17 per cento nel 2025. 

I numeri non potranno mai misurare la serietà con cui ci si accosta al diritto di voto. La dialettica politica su questo argomento, peraltro, appare molto scadente: basta fare attenzione ai commenti che seguono i risultati elettorali per notare come vincerebbe la democrazia solo quando a trionfare fosse la propria parte mentre, in caso di sconfitta, i vincitori sarebbero invitati a riflettere sulla scarsa rappresentatività del proprio risultato. Forse, invece che perdere tempo su discutibili obblighi elettorali, bisognerebbe cominciare a risolvere il problema di quei cittadini che vorrebbero votare ma non possono farlo.

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