L’Europa vive oggi in un’economia di guerra? Potrà dotarsi di un efficace sistema di difesa senza rinunciare al suo modello di sviluppo economico e sociale? Sono alcune delle domande affrontate in un libro di Balduzzi e Bignami. Ne pubblichiamo un estratto.
Che cos’è un’economia di guerra
L’11 marzo del 2022, mentre Mario Draghi, allora presidente del Consiglio, si trovava a Versailles, un riacceso conflitto tra Russia e Ucraina turbava il panorama internazionale. Dopo quasi una decade di tensioni intermittenti, il rapido avanzamento delle truppe russe nei territori ucraini risvegliava preoccupazioni profonde. La stampa internazionale e l’opinione pubblica iniziavano a interrogarsi se l’Europa fosse sull’orlo di un periodo indefinito dominato da una cosiddetta “economia di guerra”.
In questo clima di incertezza crescente, Mario Draghi trovava l’occasione di parlare ai giornalisti a margine di un incontro informale con i leader europei. Con fermezza, chiariva che nonostante le sfide emergenti, l’Europa non si trovava in uno stato di economia di guerra, né vi si stava inevitabilmente dirigendo. Sottolineava, inoltre, che gli allarmismi propagati da alcuni media erano grandemente esagerati e poco rappresentativi della realtà europea.
A distanza di tre anni da quelle dichiarazioni, emerge la necessità di una riflessione critica: l’Europa e l’Italia hanno mantenuto quella stabilità economica lontana dal concetto di economia di guerra così come affermato da Draghi? E in che misura i recenti sviluppi geopolitici, inclusi nuovi conflitti come quello tra Israele e Hamas, hanno influenzato questa percezione? Non solo: quali conseguenze avrà il piano di investimenti per la difesa, nominato ReArm Europe prima e Readiness 2030 in seguito, sulle economie degli stati membri dell’Unione?
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L’impatto della guerra sui dati economici
Possiamo identificare alcuni indicatori chiave per valutare l’impatto economico di un conflitto: il livello di produzione industriale, il tasso di occupazione, l’inflazione, e varie componenti del bilancio pubblico, come entrate, uscite, deficit e debito pubblico. […]
Per quanto riguarda la produzione industriale, le possibili conseguenze di un conflitto sono variegate. Da un lato, potrebbe verificarsi un incremento produttivo dovuto alla crescente domanda di materiali bellici e altri beni necessari allo sforzo di guerra, beneficiando così l’industria della difesa. Dall’altro, la necessità di reindirizzare uomini e capitali verso la produzione bellica potrebbe limitare la produzione di altri beni, causando un calo in altri settori. Di conseguenza, l’impatto complessivo sulla produzione rimane incerto. […].
La guerra può avere un impatto significativo anche sul tasso di occupazione: l’impiego di risorse umane in attività belliche implica inevitabilmente una riduzione del numero di individui disponibili per il lavoro civile. Il tasso di occupazione, che riflette la percentuale di persone attivamente impiegate o in cerca di lavoro rispetto al totale della popolazione in età lavorativa (dai 15 ai 65 anni), tende a diminuire quando le forze armate richiamano uomini e donne al fronte. A meno di perdite umane su vasta scala, che ridurrebbero drasticamente la forza lavoro disponibile, la mobilitazione per il conflitto dovrebbe teoricamente abbassare questo indice. Ovviamente, in Italia, l’analisi dei dati recenti non mostra variazioni significative del tasso di occupazione attribuibili ai conflitti in corso. Mentre gli effetti della lunga recessione economica tra il 2009 e il 2013, così come quelli della pandemia di Covid-19 nel 2020, sono chiaramente evidenziabili (e verranno approfonditi nei capitoli dedicati), dal febbraio 2022 non si registrano cambiamenti apprezzabili. La tendenza all’incremento del tasso di occupazione che aveva preso avvio nel 2013 prosegue senza sosta, eccezion fatta per il significativo impatto negativo del Covid-19.
Inoltre, durante i conflitti, l’acquisto dei beni può diventare più complesso e costoso, a causa di diversi fattori. Il primo è l’effetto diretto che si verifica quando i beni provengono da aree colpite dal conflitto. Un esempio evidente è rappresentato dal grano ucraino e dai combustibili fossili russi, i cui prezzi sono sensibilmente aumentati. Nel caso del grano ucraino, la difficoltà risiede nei problemi tecnici legati all’approvvigionamento; per il gas e il petrolio russi, invece, l’incremento dei costi è dovuto principalmente a ritorsioni e sanzioni imposte tra la Russia e i paesi europei che supportano l’Ucraina. L’impatto sui prezzi può manifestarsi anche in modo indiretto, influenzando beni che non sono direttamente collegati ai paesi in guerra. Questo si verifica soprattutto quando i beni direttamente influenzati sono materie prime o beni intermedi utilizzati nella produzione di altri prodotti, come nel caso di alimenti e risorse energetiche. […] Salta subito all’occhio – ma del resto chiunque se ne è accorto in questo periodo – l’impennata dei cosiddetti beni energetici. […]
Infine, è cruciale investigare se la guerra ha influito sul bilancio pubblico, specialmente per quanto riguarda l’incremento delle risorse dedicate alla difesa e i metodi adottati per finanziare questi aumenti, tra cui maggiori entrate fiscali o un aumento del debito pubblico. Per quanto riguarda la spesa pubblica, solo in Italia, lo scoppio della guerra ha portato all’impegno di aumentare le risorse dedicate alla difesa di circa 8 miliardi a partire dal 2022, incrementando la spesa dal 1,4 al 2 per cento del Pil. Benché significativo, questo aumento non risulta così rilevante all’interno del contesto del bilancio pubblico totale. Per mettere in prospettiva, l’intero bilancio dello stato italiano nel 2021 ammontava a circa 900 miliardi di euro. Pertanto, un incremento di 8 miliardi, sebbene non trascurabile, rappresenta meno dell’1 per cento del bilancio totale, dimostrando come le priorità di spesa non siano drammaticamente mutate in risposta alla guerra. […]
Le guerre, di solito, hanno un impatto maggiore sul debito pubblico piuttosto che sulle entrate fiscali. Si preferisce far pagare alle generazioni future il costo dei conflitti piuttosto che direttamente alla generazione contemporanea, sia per motivi di ricerca del consenso (o almeno di non volerlo perdere), sia perché, in caso di guerre che interessino direttamente il territorio o la popolazione, il costo pagato da questi ultimi è già alto in altri termini. […]
Il debito pubblico italiano, che nel 1914 era circa il 70 per cento del Pil, nel 1919 aveva già raggiunto quello che ancora oggi è il suo massimo valore (circa il 160 per cento), un primato messo in discussione solo nel 2020 (158 per cento). Tuttavia, a differenza di quanto accade oggi, negli anni successivi al conflitto, l’Italia riuscì a ridurre significativamente il rapporto debito/Pil. Questo risultato, che oggi sembra irripetibile, fu reso possibile grazie a una combinazione di fattori. Innanzitutto, l’inflazione ebbe un ruolo cruciale. […] Oltre all’inflazione, l’economia italiana, durante gli anni Venti, conobbe una fase di crescita sostenuta, che contribuì ad aumentare il Pil e, di conseguenza, a diminuire il rapporto tra debito e prodotto interno lordo appunto. Le politiche fiscali adottate dal governo ebbero anch’esse un impatto significativo: l’aumento delle entrate, sia attraverso nuove imposte sia mediante una più efficiente riscossione dei tributi, permise di destinare maggiori risorse al servizio del debito, cioè a pagare gli interessi sul debito stesso. Un altro elemento importante fu l’utilizzo di parte delle riparazioni di guerra ricevute dalla Germania. […] Anche la seconda guerra mondiale ebbe un impatto rilevante ma in due direzioni opposte. Fino al 1943, infatti, l’indicatore seguì un andamento più atteso e intuitivo, raggiungendo valori elevati, ma comunque lontani da quelli del primo dopoguerra; dopo il 1943, invece, si osserva un cosiddetto effetto denominatore molto ampio, dove è il prodotto interno lordo che cresce e quindi riduce il rapporto, ma questa esplosione fa riferimento solo al valore nominale del Pil, influenzato da un aumento del livello dei prezzi.
Venendo ai nostri giorni, nel marzo del 2025 la Commissione europea ha presentato un piano per rafforzare la capacità di difesa del continente. L’iniziativa, inizialmente battezzata ReArm Europe e poi ridenominata Readiness 2030, arriva in un momento in cui la sicurezza europea non può più essere data per scontata e cerca di dare una risposta strutturata a una crescente vulnerabilità. Il conflitto in Ucraina ha reso evidente quanto l’Europa fosse impreparata ad affrontare una minaccia militare diretta alle sue porte e quanto dipendesse, ancora oggi, dallo scudo statunitense per la propria protezione. Ma la consapevolezza maturata negli ultimi tre anni è anche quella di una vulnerabilità che non riguarda solo l’aspetto militare in senso stretto. Difesa, approvvigionamenti energetici, tecnologie critiche e protezione delle infrastrutture digitali: tutto ciò che una volta sembrava esterno alla sfera della sicurezza è oggi parte integrante della difesa europea. […] Così la domanda, oggi, non è più se l’Europa debba dotarsi di una propria capacità di difesa, ma come farlo senza compromettere il proprio modello economico e sociale. Ed è una domanda che ci accompagna ben oltre le logiche militari, fino a interrogare il futuro stesso dell’Unione”.
* Il testo è un estratto dal capitolo 1 del libro di Paolo Balduzzi e Andrea Bignami Il prezzo della guerra. Le conseguenze economiche delle crisi internazionali, Paesi Edizioni.
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Si laurea all’Università Cattolica di Milano e consegue M.Sc. e Ph.D. in Economics presso la University of Edinburgh. Dopo una breve esperienza presso l’Università di Milano-Bicocca, diventa ricercatore in Università Cattolica, dove insegna Scienza delle finanze ai corsi diurni e serali, triennali e magistrali. Ha insegnato anche al Dottorato in Economia e Finanza delle Amministrazioni Pubbliche dell’Università Cattolica, all’Università di Milano-Bicocca e alla Scuola Superiore di Economia e Finanza. I principali interessi di ricerca riguardano la political economy, con particolare riferimento al ruolo delle leggi elettorali, il federalismo fiscale, la finanza pubblica, le pensioni e la disuguaglianza intergenerazionale. Ha contribuito a libri e pubblicato articoli su riviste internazionali. E’ membro e Segretario generale dell’associazione ITalents. È stato membro della Commissione tecnica per la revisione della spesa guidata da Carlo Cottarelli per i capitoli di spesa sui costi della politica. È stato Consulente tecnico per la Presidenza del Consiglio al tavolo delle trattative con le Regioni per la concessione di maggiore autonomia ex art 116 comma 3 della Costituzione.
Da novembre 2017 è editorialista presso "Il Messaggero"
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