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Un sostegno contro la povertà

Il Sia è un nuovo schema contro la povertà, proposto dal ministero del Lavoro. È universale e selettivo in base alle condizioni economiche. Ha l’obiettivo di favorire un percorso di inclusione dei componenti del nucleo familiare. I costi e le ragioni per cui andrebbe introdotto gradualmente.

COS’È IL SIA
Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha proposto un nuovo schema contro la povertà, il Sia – sostegno per l’inclusione attiva(1). Per il momento, tutto è sulla carta. Non sappiamo se questo progetto si tradurrà in un nuovo istituto, operativo e dotato di risorse finanziarie adeguate. Molto dipenderà dalla prossima Legge di Stabilità.
Non si tratta di un reddito di cittadinanza, cioè di un trasferimento universale e incondizionato destinato in misura uniforme a ogni persona, ma di uno strumento che ricorda il reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni Novanta.
È un sussidio destinato alle famiglie povere, concesso purché soddisfino determinati requisiti in termini di comportamenti “virtuosi” come accettare i posti di lavoro disponibili, frequentare corsi di formazione e riqualificazione, svolgere compiti di cura.
L’istituto colmerebbe una carenza storica del sistema di welfare italiano, dove ancora manca un trasferimento monetario destinato a coprire le famiglie dal rischio di cadere in povertà. La crisi economica iniziata nel 2008 ha decisamente incrementato la diffusione della forma più grave di povertà, quella assoluta, e quindi reso più urgente una misura di questo tipo: mentre nel 2007 era in povertà assoluta il 4,1 per cento delle famiglie italiane, nel 2012 la percentuale è salita al 6,8 per cento, corrispondente a circa 1,7 milioni di nuclei.
A favore della introduzione di un sostegno contro la povertà vi sono ragioni sia di efficienza che di equità. Dal punto di vista dell’equità, l’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Senza un ammontare minimo di reddito non è possibile vivere in modo dignitoso. La garanzia di un reddito di base è ancora più importante per i minori, che non possono in alcun modo essere considerati “responsabili” della propria condizione. Trascorrere i primi anni di vita in povertà può avere inoltre conseguenze negative sull’intera esistenza delle persone, che non si vedono garantita neppure l’eguaglianza delle opportunità. Se passiamo all’efficienza, il Sia costituirebbe, per chi perde il lavoro, il livello finale di un sistema di protezione a cui si giungerebbe dopo avere terminato di usufruire degli ammortizzatori sociali. Garantirebbe quindi a tutti i disoccupati una rete di protezione, permettendo il superamento della cassa integrazione in deroga, iniqua e inefficiente, e favorendo una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Sarebbe inoltre disponibile anche per gli autonomi, e in generale, proprio in quanto rete di ultima istanza, potrebbe aumentare la propensione a intraprendere progetti rischiosi ma potenzialmente convenienti.
Le caratteristiche principali dello schema proposto dal ministero del Lavoro sono l’universalità (non è cioè destinato solo ad alcune categorie, come l’assegno sociale o la pensione di invalidità civile, ma a tutti i poveri), la selettività in base alle condizioni economiche, l’obiettivo di non fermarsi alla semplice erogazione monetaria ma di favorire un percorso di inclusione e attivazione dei componenti del nucleo familiare, la sua disponibilità per tutti i residenti legalmente in Italia da almeno due anni. In termini molto generali, e senza pretesa di anticipare cosa in pratica verrà fatto (sempre che il Sia veda la luce), il criterio di calcolo del trasferimento potrebbe essere così espresso:
Sia = linea di povertà assoluta – reddito disponibile della famiglia
La linea di povertà assoluta dovrebbe costituire il reddito necessario per vivere in modo dignitoso per una famiglia di date caratteristiche. L’Istat nel 2009 ha elaborato un complesso vettore di linee di povertà, variabili in base alla tipologia familiare e alla zona di residenza, che possono costituire la base per il calcolo dei livelli di reddito da raggiungere. Il reddito disponibile della famiglia dovrebbe essere integrato, per i nuclei proprietari dell’abitazione, di una componente di fitto figurativo per distinguere il loro tenore di vita da quello di chi vive in affitto. È poi opportuno introdurre, come si fa in quasi tutti i paesi europei, anche limiti di patrimonio finanziario e immobiliare, a esclusione, eventualmente, della prima casa. Il testo del ministero suggerisce di fissare le soglie patrimoniali sfruttando la disciplina dell’Isee patrimoniale, al lordo delle franchigie. In effetti, l’Isee, oggetto di una profonda riforma in fase di conclusione, può costituire la fonte informativa principale anche per la definizione del reddito famigliare.
Il testo del ministero dedica ampio spazio anche alla fase attuativa, individuando nell’Inps il soggetto che verifica la prova dei mezzi, attraverso la dichiarazione Isee, ed eroga il trasferimento. Sarebbero invece i servizi sociali dei comuni a prendere in carico le famiglie e a stipulare con esse un progetto di inclusione e attivazione, fino alla verifica del suo rispetto.
I POSSIBILI PUNTI CRITICI
Un progetto così impegnativo presenta anche punti critici e molte possibili obiezioni. La principale forse consiste nell’idea che possa scoraggiare l’offerta di lavoro. La critica però sottovaluta il fatto che solo una minoranza delle famiglie in povertà assoluta hanno persone di riferimento prive di occupazione. I dati Istat sulla povertà assoluta, basati sul livello di consumi, ci dicono infatti che circa il 40 per cento delle famiglie in povertà assoluta hanno persona di riferimento occupata (si tratta soprattutto di famiglie operaie), mentre un altro terzo è costituito da famiglie di pensionati e solo un quarto circa ha capofamiglia disoccupato o in altra condizione non professionale. Le famiglie in povertà assoluta con membri che lavorano sono soprattutto nuclei con molti bambini. Questi dati ci dicono anche che una delle cause dell’elevata diffusione della povertà assoluta in Italia è la scarsità di trasferimenti alle famiglie con minori. Certo, anche chi già è occupato potrebbe essere spinto dalla presenza del Sia a ridurre l’offerta di lavoro, ma non sembra un caso molto probabile e provocherebbe comunque il ritiro del sussidio. Comunque, nelle varie esperienze di istituti simili nei paesi europei, i tassi di reinserimento lavorativo sono stati sempre bassi. Sarebbe già un grande successo se il 20-30 per cento dei beneficiari in povertà assoluta e al di fuori del mercato del lavoro fossero reinseriti in attività occupazionali. Va tuttavia tenuto presente che l’obiettivo principale del Sia è l’inclusione sociale dei beneficiari, che si può ottenere certo con il lavoro, ma anche in altri modi quando, per motivi vari (obblighi di cura, disabilità, mancanza di posti di lavoro disponibili, eccetera), ciò non sia possibile.
Una seconda obiezione afferma che il Sia può favorire l’economia sommersa e chi lavora in nero. Si tratta sicuramente di un problema da considerare con attenzione e che consiglia un’introduzione graduale dello strumento per favorire un monitoraggio e una valutazione attenta dei suoi primi effetti, aspetti ampiamente discussi nel testo del ministero. La gradualità sarà peraltro imposta anche dai vincoli di bilancio pubblico.
Un’altra critica si rivolge alle amministrazioni locali, che non sempre potrebbero essere in grado di gestire efficacemente questo istituto, a maggior ragione se pensiamo ai tagli di bilancio che hanno dovuto sopportare in questi anni. Anche questi dubbi suggeriscono un certo gradualismo, nonché un forte coordinamento in fase di predisposizione e attuazione del Sia, basato sul concetto di sussidiarietà tra i vari soggetti istituzionali coinvolti nel progetto di presa in carico.
L’ultima obiezione è il suo costo. A regime il Sia potrebbe infatti costare tra i 5 e i 9 miliardi di euro, cioè lo 0,4-0,6 per cento del Pil. (2) Una cifra ragionevole se consideriamo che in Francia per uno schema analogo si spende circa lo 0,5 per cento del Pil. Certo queste somme ora non sono disponibili, ma anche con importi molto inferiori si potrebbero raggiungere risultati significativi. Ad esempio, con 1,5 miliardi si porterebbe il reddito di tutte le famiglie povere al 50 per cento circa della corrispondente soglia di povertà. Nell’applicazione graduale dell’istituto, si potrebbe partire da una generalizzazione della nuova carta acquisti all’intero territorio nazionale e a tutti i tipi di famiglie. Si consideri inoltre che, data l’alta propensione al consumo delle famiglie beneficiarie del Sia, una parte della spesa sarebbe recuperata attraverso l’aumento dei consumi finali e che i percorsi di reinserimento lavorativo si tradurranno anche in maggiori redditi e consumi familiari.
 (1) Si veda a questo link. Chi scrive ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha elaborato la proposta.
(2) L’importo varia a seconda dell’evoluzione della crisi e di come viene definito il reddito familiare equivalente e le soglie di riferimento.

Leggi anche:  Se la povertà diventa una "questione settentrionale"

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  1. Dario

    A mio parere ci sono altre obiezioni.
    La prima è che il sistema deve far sì che i beneficiari arrivino ad ottenere beni e servizi significativamente minori di un nucleo familiare che arrivi alla soglia di povertà lavorando, altrimenti che senso ha lavorare?
    La seconda è che a tutti quelli che abitano in case popolari, con il fitto pagato praticamente dai contribuenti, deve essere attribuito un costo del fitto a valori di mercato e non per quanto poco pagano!
    La terza è che devono essere smattellati tutti i vari supporti dati da i più svariati enti, inclusa l’esenzione dal ticket medico, la vacanze praticamente gratis ecc. Ora i furbi della povertà riescono a vivere praticamente meglio di quelli che lavorano e ciò è annaccettabile!
    Queste considerazioni vengono da esperienze di persone a me vicine le quali hanno vissuto tutta la vita lucrando con i suddetti sistemi e vivendo bene senza lavorare pur potendo.

    • Tommaso

      Se da un lato ci sono i furbi della povertà, dall’altro ci sono persone veramente povere e che non hanno nessun sostegno, tra i quali chi ha perso il lavoro senza poter accedere alla pensione, alla cassa integrazione o a qualsiasi tipo di sostegno da parte dello Stato.
      La maggiore difficoltà la vedo nel reinserimento in un posto di lavoro, visto che senza una politica industriale precisa e un mercato del lavoro mal regolato, le possibilità occupazionali per una persona over 50 sono praticamente nulle.
      In ogni caso si parla di proposte che non verranno attuate né ora né nei prossimi anni visto che l’unica priorità del governo è quella di mantenere il rapporto deficit/PIL sotto il 3%.

  2. Diego Alloni

    A parte che sono solo parole, ma sono anche le solite. Es: criteri universalistici per i soliti protetti e protette. Non un cenno alle nuove povertà: gli ex-autonomi (gli hanno tolto anche la p. IVA), i papà-separati (2 milioni di esclusi sociali di stato, cui ripropinano l’ISE per casa di proprietà requisita indefinitamente ed assenza di figli che mantengono per decenni), le famiglie numerose (genitori penalizzati sugli assegni familiari perchè devono ammazzarsi di lavoro e su IMU/succedanei perchè devono avere abitazioni adeguate al numero di figli). Come da sempre, premialità al fare niente.

  3. AM

    Aiuti ai poveri anche se sono stranieri? E in caso affermativo, come ritengo giusto, quali requisiti sono necessari? Oggi il passaparola con Africa, Balcani e altri paesi poveri di Asia e America latina potrebbe far aumentare la massa dei rifugiati in Italia.

    • Dario

      Non trovo ne’ giusto ne’ opportuno dare sostegno ai poveri extracomunitari, se diamo questo sostegno il passaparola farà sì che le masse povere del mondo si indirizzino verso l’Italia perchè otterranno quì (senza lavorare) molto più che a casa loro.

  4. giancarlo

    Direi che Tommaso abbia ragione. Aggiungo, sulla base della, mia personale esperienza, che le politiche attive di reinserimento sono quanto di più lontano dall’assistenzialismo cattolico italiano. Prendiamo l’ottima esperienza del fondo europeo EPMF del programma progress. Concede fondi a persone in difficoltà per finanziarie persone/progetti che vogliono costruire una microimpresa. Nel 2012 questo Fondo ha dato sostegno a 6000 persone. Quante in Italia ?? UNA-1 !!! Solo la Banca di Credito cooperativo della Lucania si è costituita partner del Programma. Interpellai il ministero del lavoro del Governo Monti. Non ne sapevano niente.
    Buona fortuna.

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