L’Italia deve abbattere il debito pubblico e così tornano di moda le privatizzazioni. Ma non avremmo forse maggiori benefici da un aumento della partecipazione dello Stato nelle aziende sane? Una prospettiva solo contabile rischia di compromettere ulteriormente la nostra posizione in futuro.
TUTTI D’ACCORDO SULLE PRIVATIZZAZIONI?
L’Italia rischia di trovarsi al di fuori dei parametri del Patto di stabilità e crescita, per colpa del suo debito. (1) Infatti, l’elevato debito pubblico e la conseguente spesa per interessi non solo fanno del nostro paese uno degli elementi di criticità per l’Eurozona, ma contribuiscono a una pressione fiscale troppo alta, a una estrema rigidità del bilancio pubblico e a una maggiore difficoltà nell’accesso ai capitali.
Da qui la rinnovata spinta – per ora solo nelle parole – verso le privatizzazioni. (2) A dispetto dell’apparente consenso, confermato dall’esplicita menzione nella lettera della Bce al Governo italiano del 5 agosto 2011, il tema è più controverso di quanto possa apparire. (3) Infatti, mentre quasi tutti concordano, in teoria, sull’opportunità di cedere le società pubbliche attive nei servizi pubblici locali e gli immobili pubblici, ben pochi si spingono al punto di invocare la vendita delle grandi e redditizie partecipate dal Tesoro e dalla Cdp: Eni, Enel, Terna, e poi Poste, Trenitalia e così via.
Ovviamente, l’operazione di cessione è tanto più facilmente realizzabile quanto più gli “oggetti” in vendita sono valorizzabili senza bisogno di procedere a pesanti riorganizzazioni o addirittura riforme della disciplina dei settori di riferimento. In altre parole, gli asset più semplici da alienare sono le partecipazioni a società quotate attive in settori liberalizzati: Eni ed Enel. In tutti gli altri casi, prima di procedere alla privatizzazione è necessario operare forme di riorganizzazione societaria (per esempio l’unbundling della rete ferroviaria da Ferrovie dello Stato o la separazione di Bancoposta da Poste), liberalizzazioni che garantiscano condizioni concorrenziali eque per tutti e, in alcuni casi, addirittura censimenti e complesse operazioni finanziarie di riallocazione della proprietà (per gli immobili). (4)
Tuttavia, una comune obiezione è che le aziende in questione pagano dividendi, che non possono essere trascurati per capire l’effetto contabile delle cessioni. Se ne sono molto opportunamente occupati Mariano Bella, Silvio Di Sanzo e Luciano Mauro in un interessante intervento su lavoce.info.
Gli autori prendono le mosse dal confronto tra il rendimento dell’investimento in Eni ed Enel e il costo del debito, per giungere a una conclusione che può apparire contro-intuitiva: la privatizzazione “avrebbe effetti negativi sull’indebitamento netto”. Ne segue che “se è sbagliato vendere, è giusto comprare. Ma dove trovare le risorse per farlo? A debito, of course. Successivamente, con ciò che si guadagnerebbe in termini di indebitamento netto (si incassano più dividendi di quanto si paghi di interessi passivi), si investirebbe per la crescita che farebbe giungere il paese al 2016 con maggiore debito in valore assoluto, ma con un minore rapporto debito-Pil”.
LA CONCORRENZA CHE MANCA
Hanno ragione, Bella, Di Sanzo e Mauro? Ce l’avrebbero se il loro ragionamento non contenesse due insidie. Una, marginale, è che confrontano il rendimento dell’investimento in Eni ed Enel col costo medio del debito, il quale tuttavia riflette la sua composizione storica, inclusi i titoli venduti nel passato quando i tassi di interesse erano più contenuti e quelli a media o breve scadenza. Il senso contabile di una privatizzazione sta nel rinnovare una quota inferiore di debito, quindi il corretto benchmark non è il costo medio di tutti i titoli, ma il costo dei Btp a dieci anni. Se si svolge il confronto in questi termini, il ragionamento contabile resta valido, ma il beneficio atteso ne risulta assai ridotto (figura 1).
Figura 1 – Rendimento Eni-Enel vs. costo medio del debito e tassi di interesse sui Btp a 10 anni per anno di emissione (2007-2012) (%).
Fonte: Eni, Enel, Borsa italiana per i rendimenti Eni-Enel; Eurostat per il costo medio del debito; dipartimento del Tesoro per i rendimenti dei Btp a 10 anni.
Può apparire una precisazione pedante, ma non lo è alla luce della tendenza verso il rialzo dei tassi di interesse chiesti dai mercati per finanziare il debito pubblico italiano. La dinamica è stata contenuta solo grazie all’intervento della Banca centrale europea – il fatidico “whatever it takes” di Mario Draghi – ma non si può assumere che questo tipo di supporto continui indefinitamente. Soprattutto, esiste una ovvia correlazione negativa tra il costo del debito pubblico e l’andamento delle aziende partecipate: è ben possibile che, in assenza di una sostanziale riduzione nel rapporto debito/Pil, l’Italia prosegua sulla sua traiettoria inerziale di incrementi della tassazione, produttività stagnante e bassa crescita, indebolendo ulteriormente la capacità di realtà come Eni ed Enel di erogare dividendi generosi (capacità già oggi al limite della sostenibilità). Va da sé che l’aumento, anziché la riduzione, del coinvolgimento diretto dello Stato nell’economia rischierebbe di amplificare questo effetto.
C’è però anche un’altra, e più sostanziale, insidia. L’obiettivo delle privatizzazioni è senza dubbio anche contabile – e specialmente lo è in una congiuntura come quella attuale – ma non è solo contabile; e probabilmente quello contabile è il minore dei benefici attesi da una privatizzazione ben fatta. Lo riconoscono nel loro intervento anche gli stessi Bella, Di Sanzo e Mauro.
Come sottolinea l’Ocse nella più recente edizione delle guidelines per privatizzare efficacemente, le considerazioni relative agli aspetti competitivi devono avere un ruolo preminente. (5)
Dal punto di vista del saldo contabile, questo implica la consapevole rinuncia a massimizzare il gettito. Infatti, se si vuole ottenere il massimo gettito possibile, la soluzione razionale è quella di cedere asset a condizioni monopolistiche, in modo tale – per così dire – da cartolarizzare una rendita. Purtroppo, quando si dice che nel passato le privatizzazioni italiane hanno fallito, si esprime molto probabilmente un giudizio eccessivamente negativo, ma si fa riferimento proprio a questo tipo di rischio. (6) Al contrario, il senso di una privatizzazione ben congegnata è quello di rendere contendibili asset e quote di mercato, allo scopo non solo di ricavare gettito da destinare all’abbattimento del debito pubblico, ma anche di innescare dinamiche competitive che, in prospettiva, contribuiranno a una maggiore crescita del paese. (7) Sebbene l’elemento determinante nell’attirare investimenti sia la liberalizzazione, anche la privatizzazione risulta fondamentale, specie nel lungo termine, in quanto in assenza della proprietà privata (e, ovviamente, di altri vincoli di natura politica), la mobilità degli asset non sarà mai pienamente garantita. (8)
Le privatizzazioni – al di là delle probabili conseguenze sull’efficienza delle aziende privatizzate – consentono poi di rompere il conflitto di interessi tipico dello Stato azionista e regolatore, con ciò avendo un effetto indiretto pure sulla qualità della regolamentazione, riducendo il rischio di cattura.
Il suggerimento – pur volutamente paradossale – di Bella, Di Sanzo e Mauro non tiene conto di questi aspetti. L’aumento delle quote azionarie di imprese “sane” in capo allo Stato potrebbe avere un saldo contabile positivo nel breve termine, ma nel lungo periodo rischierebbe davvero di compromettere ulteriormente la posizione italiana. Senza contare che, paradosso per paradosso, perché limitarsi a Eni ed Enel? Ci sono un sacco di aziende profittevoli, là fuori, che potrebbero far gola al Tesoro. Sfortunatamente, questa sorta di cream skimming istituzionalizzato non farebbe bene ai conti pubblici se non per un breve ed effimero momento, e rischierebbe di lasciare al paese, del latte, soltanto il caglio.
(1) https://www.lavoce.info/wp-content/uploads/2013/11/COMMISSION-OPINION.pdf
(2) Il primo annuncio di un “grande piano di privatizzazioni” risale a luglio 2013. Da allora si sono succedute molte proposte relative alla maggior parte delle aziende controllate dal Tesoro o dalla Cassa depositi e prestiti. Per una disanima dell’attività di Governo sul tema si veda ad esempio Alessandro Barbera, “Il governo cancella la seconda rata Imu”, La Stampa, 18 novembre 2013.
(3) http://www.corriere.it/economia/11_settembre_29/trichet_draghi_inglese_304a5f1e-ea59-11e0-ae06-4da866778017.shtml?fr=correlati
(4) http://www.investireoggi.it/economia/proposta-astrid-abbattere-il-debito-pubblico-in-sei-mosse/
(5) Oecd, “Privatisation in the 21st Century. Summary of Recent Experiences”, 2010, http://www.oecd.org/daf/ca/corporategovernanceofstate-ownedenterprises/43449100.pdf
(6) Giorgio Ragazzi, I signori delle autostrade, Il Mulino, Bologna, 2008.
(7) Nicolò Bragazza e Giovanni Gabriele Vecchio, “Debito pubblico e privatizzazioni”, in Ibl, Liberare l’Italia. Manuale delle riforme per la XVII Legislatura, Ibl Libri, Torino, 2013, pp.49-88.
(8) Vedi Alberto Alesina, Silvia Ardagna, Giuseppe Nicoletti e Fabio Schiantarelli, “Regulation and Investment”, Journal of the European Economic Association, vol.3, no.4, pp.791-825.
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Sergio Ascari
Non ho sufficienti competenze per entrare nella discussione generale, ma come esperto dei mercati energetici mi sento di affermare che definirli ingessati oggi è eccessivo. Nel caso del gas ENI ha perso in dieci anni circa metà della propria quota di mercato all’ingrosso, e oggi lotta senza particolare vantaggi (anzi) con altre imprese. In Italia nel gas&power perde (toh, come la Fiat, sarà un caso…) e fa utili altrove. Quanto al mercato elettrico, dicono tutti che è ancora più concorrenziale, e a perdere oggi sono in parecchi.
rob
Il problema vero è la concorrenza che manca.
Mi può spiegare quale alternativa ho per andare da Milano a Roma in Autostrada? Grazie
ANDREA
Mi scusi, vorrei precisare alcune cose che sono state a mio giudizio omesse:
1) Un paese sviluppato cresce in media del 3% l’anno con un tasso di inflazione del 3% la crescita reale si azzera. Un paese sviluppato ha una economia solida, un paese sviluppato, dovrebbe pagare sul debito meno del tasso di inflazione. Dovrebbe pagare di meno perché è uno stato sviluppato, che non rischia di fallire, politicamente evoluto e democratico, che garantisce sicurezza agli investimenti, di banche ed assicurazioni, che sono libere di arricchirsi lavorando nello stesso.
Dobbiamo inoltre dire che il debito equivale alla moneta circolante nella nazione, e se il tasso è superiore all’inflazione, si rischia che il debito salga esponenzialmente, mentre il pil viene frenato da una ricchezza complessiva che cresce meno del debito, per effetto della minor inflazione.
Credo che un paese sviluppato, padrone della sua moneta, sia in grado di gestire il tasso di inflazione ed i tassi sul debito in modo da avere tassi reali sul debito pubblico negativi. Lei si chiederà perché? Ovviamente perché la ricchezza della nazione, sarà dirottata sul debito, per ovvi motivi di sicurezza, ed i cittadini baratterebbero volentieri la sicurezza con un tasso leggermente inferiore all’inflazione.
2) Le privatizzazioni, soprattutto di beni strategici, causano un indebolimento politico del paese, la politica perde il suo potere, ed il paese finisce in mano all’eterodirezione del potere economico.
Privatizzare oggi, anche 100miliardi di euro, con tassi di interesse sul debito di 90miliardi l’anno, ci permette di ridurre il debito oggi, come è avvenuto nel 1992, e di riacquistarlo nei 10 anni successivi di euro-idiozia.
Andrea
A mio avviso, una corretta analisi dovrebbe quantomeno citare/stimare il rendimento (dividendi) di eni-enel futuri, magari guardando al consensus di mercato. Il passato è utile ma, appunto, è passato ed è difficile immaginarsi rendimenti simili all’ultimo decennio soprattutto per Enel.
Vincesko
In recessione, la riduzione del debito non è una priorità, anzi è esiziale, salvo che a) non sia finalizzato alla riduzione consistente degli interessi passivi, per liberare risorse congrue da destinare alla crescita; e b) non ricada esclusivamente sui ricchi.
In ogni caso, le opzioni per ridurlo sono essenzialmente tre:
1. come decisero Prodi e Padoa-Schioppa, gradualmente contenendo l’aumento di spesa entro, poniamo, il 50% della variazione del PIL o dell’inflazione, ma occorrono molti anni;
2. vendendo asset pubblici oppure, in alternativa, conferendoli ad un fondo che si finanzi sul mercato, a tassi più vantaggiosi, per una cifra importante (almeno 150-200 mld), ma i beni pubblici: a) sono di tutti, ricchi e poveri; b) sono a garanzia del debito pubblico; e c) in passato, la loro vendita spesso si è risolta in una svendita;
3. varando (come hanno proposto alcuni, anche ricchi) un’imposta patrimoniale e/o un prestito forzoso su una platea selezionata (la meta del decile più ricco, che possiede una ricchezza di oltre 2.000 mld e si è ulteriormente arricchita con l’attuale crisi), per un ammontare di 150-200 mld.
La stragrande maggioranza delle proposte dei ricchi è per l’opzione 2; io sono per la terza opzione. Non bisognerebbe dividersi tra i non ricchi e fare ammuina.
rob
Ma quale confronto si adotta per definire ” le aziende di Stato fallimentari e da privatizzare?”. Il confronto con la privata Fiat? Oppure con la privata Autostrade? O quella miriade di elemosinanti travestiti da “imprenditori” che tutti i giorni fanno la fila in Via Veneto al Ministero dello Sviluppo? O i ” fatturifici” di certi distretti industriali rivolti dove sorge il Sole? Prima di parlare di privatizzazioni dobbiamo creare la cultura di mercato e dell’impresa. In Italia non ce l’ha lo Stato e neanche gli elemosinieri patetici.