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Vendere le imprese dello stato senza ripetere gli errori

Le prime privatizzazioni degli anni ’90 furono guidate dall’urgenza dei conti pubblici, senza una parallela liberalizzazione dei mercati. Oggi si riparla di vendita di una parte delle partecipazioni dello stato. Purché non si ricada negli stessi errori.
NON SOLO PER FAR QUADRARE I CONTI
Di fronte alle perplessità della Commissione europea sui contenuti della Legge di stabilità – e in particolare sulla timidezza delle privatizzazioni messe in cantiere – il presidente del Consiglio Letta ha reagito annunciando la presentazione di un piano apposito entro questa settimana.
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Tale piano si è concretizzato ieri in un programma di cessioni di quote per 10/12 miliardi, che riguarderà Eni, Stm e Enav (partecipazioni direttamente detenute dal Tesoro), Sace ,Fincantieri, Cdp Reti e Tag (partecipazioni indirette tramite Cassa Depositi e Prestiti) e Grandi Stazioni (partecipazione detenuta tramite Fs). Dopo un periodo piuttosto lungo durante il quale le privatizzazioni sono state di importo basso o “di facciata” – a motivo del fatto di avere la Cassa depositi e prestiti come acquirente -, la necessità è duplice: non solo intervenire in maniera quantitativamente decisa sul debito pubblico, ma anche offrire un segnale forte al pubblico degli investitori sulla serietà delle intenzioni del Governo italiano.
Un’obiezione importante al programma di privatizzazioni si basa sul confronto tra la redditività di aziende le cui quote si intendono vendere (nella fattispecie Eni ed Enel) e il costo del debito: secondo Bella, Di Sanzo e Mauro, se tale redditività è superiore al costo del debito, lo Stato dovrebbe piuttosto realizzare un arbitraggio finanziario e indebitarsi ulteriormente per accrescere la propria quota di proprietà. Un suggerimento che ci sembra abbastanza azzardato per un paese ad altissimo debito come l’Italia: un effetto rilevante di un programma di privatizzazioni consistente sta nel segnalare intenzioni robuste che vanno nella stessa direzione nel futuro, con la conseguenza che – se il programma è ritenuto credibile – lo spread richiesto sul nostro debito dovrebbe decrescere. In termini tecnici, non dobbiamo preoccuparci tanto del confronto marginale tra redditività degli asset da vendere e costo del debito, quanto piuttosto dell’effetto inframarginale di tale vasto programma sul costo del debito. Tanto per essere chiari: con effetto inframarginale intendiamo l’effetto sul tasso di interesse medio pagato sull’intero debito, il quale diminuisce se gli investitori aderiscono alle nuove emissioni di titoli di stato ad un tasso più basso. L’effetto leva è evidente, dati valori del debito lordo su Pil vicini al 134 percento e un rinnovo corposo di titoli di stato anno per anno.
Queste considerazioni guardano alle privatizzazioni come strumento per un riequilibrio dei conti pubblici attraverso una riduzione dello stock di debito. È la stessa prospettiva che nella seconda metà degli anni Novanta portò alla prima ondata di privatizzazioni, che toccò in primis alcune delle public utilities di proprietà pubblica, quali Telecom Italia, Enel e Eni. Guardando all’esperienza di allora, tuttavia, un giudizio diffuso, che ci sentiamo di condividere, è che le privatizzazioni vennero guidate dall’urgenza dei conti pubblici, ma non vennero realizzate in coerenza con il parallelo processo di liberalizzazione di quei mercati. Portando a soluzioni che potevano massimizzare gli introiti delle casse pubbliche, ma che spesso non configuravano un assetto di mercato funzionale alla sua apertura alla concorrenza. Il peso di queste scelte si è visto negli anni, con ritardi e distorsioni nella liberalizzazione dei mercati.
Non vorremmo che un simile errore si ripetesse oggi, associando alla medesima urgenza di allora per gli equilibri di finanza pubblica la stessa approssimazione già sperimentata nello scegliere cosa e come collocare sul mercato. Riteniamo che il payoff potenziale per il paese da queste privatizzazioni vada cercato non solo nella riduzione del debito, ma anche in uno sviluppo di mercati più aperti e capaci di innescare dinamiche di crescita e un allineamento dei prezzi a quelli degli altri paesi europei.
COSA E COME VENDERE
Procedendo quindi a una disamina dei principali settori potenzialmente interessati, possiamo partire da quelli energetici, dove lo Stato detiene ancora una quota di Eni e Enel e, attraverso la Cassa depositi e prestiti, una quota azionaria di controllo sulle società di rete, Snam Rete Gas e Terna. In molti casi queste società hanno generato negli anni utili che, nella forma di dividendi, hanno contribuito alle entrate dello Stato. E che, in prospettiva, potrebbero costituire un implicito freno a una maggiore apertura del mercato, laddove una accresciuta concorrenza ridurrebbe profitti e dividendi. La posizione dello Stato proprietario e al contempo custode dell’interesse pubblico potrebbe entrare in conflitto. D’altra parte, la posizione delle società infrastrutturali, Snam Rete Gas e Terna, appare da questo punto di vista diversa da quella di imprese che operano nei segmenti a monte o a valle potenzialmente in concorrenza con altri operatori, come oggi in gran parte avviene per Eni e Enel. Nel caso delle prime, infatti, sono in agenda nei prossimi anni ingenti investimenti di potenziamento delle infrastrutture, che consentano guadagni di efficienza e una maggiore apertura nei segmenti concorrenziali. E risultano cruciali, per il finanziamento sul mercato degli investimenti, un quadro regolatorio stabile e rendimenti adeguati sul capitale. Il mantenimento di una quota pubblica, attenta ai benefici di dividendi adeguati, potrebbe rappresentare la miglior garanzia che revisioni delle tariffe al ribasso non vengano attuate una volta che gli investimenti siano stati messi in campo. Una vendita delle quote di Snam Rete Gas e di Terna, al contrario, rendendo i poteri pubblici meno vincolati a un quadro regolatorio stabile e sufficientemente remunerativo, potrebbe comportare un aumento del costo del finanziamento e un impatto negativo sugli investimenti. Diversa la situazione per le società che operano nei segmenti in concorrenza, dove l’esigenza pubblica dovrebbe essere maggiormente orientata allo sviluppo della concorrenza, e in cui quindi la quota azionaria pubblica attenta ai dividendi potrebbe frenare il processo, suggerendone quindi la cessione.
Nelle telecomunicazioni, oggi, lo Stato non ha più nulla da cedere; casomai, sembra ciclicamente affacciarsi la prospettiva di una nuova entrata nel capitale di Telecom Italia per finanziare gli investimenti nella rete broadband. Abbiamo discusso di questi temi recentemente, e a quel contributo rimandiamo.
Le due grosse voci che potrebbero essere invece oggetto di privatizzazione sono rappresentate dalle poste e dalle ferrovie. E tuttavia in entrambi i casi la struttura attuale dell’impresa pubblica richiede, assieme alla privatizzazione, un profondo intervento di ridisegno dei confini, delle attività e del regime di erogazione dei servizi. In assenza di questo, finiremmo per creare dei monopoli privati fortemente distorsivi.
Poste Italiane oggi opera con diverse funzioni e su una pluralità di mercati. Promuove la raccolta del risparmio postale, alimentando le attività della Cdp; svolge un servizio pubblico per alcuni dei servizi postali; è entrata in modo aggressivo nei servizi bancari, assicurativi e di telefonia mobile. Per il comparto bancario e assicurativo, le specificità dell’operatore Poste Italiane l’hanno sottratta a una serie di vincoli ed esclusa da alcuni servizi. Ma difficilmente l’anomalia potrebbe permanere a valle di una privatizzazione. Né, d’altra parte, è chiaro per quali ragioni tutte le attività dovrebbero rimanere integrate in un unico gruppo multiservizio. Senza affrontare questi temi, appare difficile procedere a una privatizzazione.
Per le ferrovie il discorso è analogo: il gruppo Ferrovie dello Stato opera attraverso diverse società per la parte infrastrutturale (Rete Ferroviaria Italiana, Grandi Stazioni, quest’ultima “in odore” di privatizzazione secondo le ultime notizie di cui sopra) e per i servizi (Trenitalia, Trenitalia Cargo), con una integrazione verticale del tutto inadatta all’apertura alla concorrenza di alcuni segmenti di servizi (alta velocità, merci). È inoltre di recentissima istituzione una Autorità di regolazione, tuttora in fase di start up, e manca completamente una separazione contabile tra attività di monopolio e attività in concorrenza, che rappresenta la precondizione per evitare comportamenti distorsivi e predatori dell’impresa dominante. Insomma, anche per le ferrovie una privatizzazione precipitosa rischierebbe di compromettere le prospettive di liberalizzazione del settore.
Ovviamente, questo pezzo non deve essere interpretato come una serie di buone ragioni per non fare nulla. Ma, al contrario, come un invito a mettere nel giusto ordine i passaggi di una politica di liberalizzazione e di privatizzazione, che sono intimamente legati, ma debbono rispettare una rigorosa gerarchia. L’urgenza di un riequilibrio dei conti pubblici deve spingere a mettere mano rapidamente a un riassetto delle imprese per renderle compatibili con la liberalizzazione, in modo da predisporre le condizioni per una privatizzazione che non generi mostri.

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  1. rob

    “…In assenza di questo, finiremmo per creare dei monopoli privati fortemente distorsivi.”
    Passera PP TT ha dimostrato benissimo che l’azienda pubblica può funzionare e fare da contrappeso al privato e al mercato stesso. Se vogliamo essere onesti Moretti FF SS idem ( almeno rispetto a prima). Per non parlare del livello qualitativo in genere. Una sola cosa deve retrocedere: la politica e i livelli di potere. Riportare le competenze alla Stato che deve dettare le linee guida e non lasciare decisioni strategiche in mano a 21 “signorotti” locali che insieme ai loro “bravi” si rifugiano in politica perchè altrimenti andrebbero alla fame. Non è possibile sentire un consigliere di circoscrizione dire ” sono stato eletto con 50 voti, sai con i gettoni di presenza aggiungo al mio stipendio altri 4-500 euro”. Questa cultura è deleteria. Un Governo detta le linee strategiche ma una azienda pubblica deve essere gestita da un manager e i concorsi si fanno con il cv come con i privati. (imprenditore privato)

  2. Michele Garulli

    Non capisco. Se una partecipazione è detenuta dalla CDP (che formalmente non rientra nel calcolo del debito pubblico) la sua cessione non va a ridurre il debito, piuttosto va ad incrementare la liquidità del soggetto “privato” CDP.

    • Davide

      Dato che lo stato è azionista di CDP l’incremento di utili di quest’ultima si riflette sulle entrate dello stato in positivo, avendo così la possibilità di ridurre il debito

  3. ago.manni

    Andiamo pianino con queste dismissioni e pensiamoci bene. Letta, che non è stato eletto primo ministro da nessuno, deve andarci piano perché sta vendendo patrimonio di tutti; men che meno Saccomanni. E adesso facciamo un po’ di rumore su questi 12 miliardi. Lavoce.info dovrebbe fare un po’ ora la Vocegrossa.info. 98 miliardi di penali (con contratti liberamente sottoscritti) alle società delle slotmachine da rateizzare ora in comode rate per 10 anni con cartelle Equitalia: perché Letta gliele vuole abbonare e vendere invece il patrimonio pubblico? Pregasi fornire motivazione, una qualunque. 50 miliardi dell’accordo fiscale con la Svizzera (Sole24Ore): pregasi fare la vocegrossa, perché questi sono arretrati che già alcuni paesi stanno incassando e da Monti a Letta invece niente (escluso Renzi che ce l’ha nel programma). Le pensioni d’oro: quanti miliardi? Pregasi fare stima di quelle sopra ai 3000 euro. Corruzione e bustarelle in denaro contanti (esclusi gli scambi di favore) = 60 miliardi minimo stimati dalla Corte dei Conti: pregasi indicare un piano concreto per il recupero di almeno il 20% = 12 miliardi. Compensi parlamentari e dirigenti pubblici: vedi lavoce.info (Perotti) + Ocse qualche giorno fa. Mi fermo qui perché sono “items” che conosciamo tutti a memoria. Perché allora accanirsi a svendere proprietà comuni, alcune delle quali rendono di più degli interessi pagati sul debito? E’ l’affare di un certo “Tanan”, che tagliava il ramo su cui era seduto. Quelli seduti sul ramo sono i giovani di oggi.

    • Libero Pensiero

      ‘S’vendere? Apodissi circolare: domanda, commento e risposta in uno.
      Direi perchè: perchè il settore pubblico e’ contestualmente arbitro e giocatore (gioca male e privatizza peggio, vedere Alitalia).
      Non solo una svendita del patrimonio pubblico, bensi’ fare uscire la politica dall’economia…
      Le fondazioni bancarie – creativo ircocervo domestico – sono ancora lì. A cosa servono?

  4. fabio

    A mio avviso lo Stato dovrebbe mantenere il controllo delle reti infrastrutturali necessarie alla distribuzione dei servizi (gas, telefonia, energia elettrica e ferrovie), investire in esse affinché siano più che idonee allo scopo e farne pagare l’utilizzo (perseguendo il profitto) dai gestori dei servizi in un mercato completamente liberalizzato a cui lo Stato non partecipa.

  5. Roberto

    Ok svendiamolo questo paese! Devo dire al mio barista di vendere la sua macchina per fare i caffè visto che ha qualche rata in sospeso con la banca,ah giusto lo dico anche al mio dentista che comincia ad avere qualche problema di vendere il suo riunito tedesco per pagare i vari F 24.
    Io rimango basito,ma questa è la soluzione di eminenti economisti.io sono impreparato in materia , faccio il medico da trent’anni ma sono certo che se applicassi il vostro ordine mentale ed il vostro approccio ai miei pazienti molti non sarebbero più tra di noi.
    Roberto

  6. Luigi Biagini

    Basterebbe fare il confronto tra Poste senza i servizi bancari e con. Se le banche non permettessero a Poste di intaccare il loro mercato a quest’ora Poste SpA sarebbe un bel buco per lo stato da compensare ogni anno con i soldi pubblici.
    Poi vogliamo parte anche del TPL? (Trasposti pubblici locali) solo ATAC in dieci anni ci è costata più di 1 bln€! Se avessimo privatizzare la società sarebbe stata la stessa cosa (mantenendo il servizio pubblico)

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