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La riforma delle province può funzionare

Sul disegno di legge Delrio sono piovute molte critiche. Se invece di guardare la riforma come una mera regolamentazione giuridica che produce risparmi, la si considera un processo di cambiamento che avvia forme di collaborazione istituzionale nei territori, i punti deboli diventano punti di forza.

DA PUNTI DEBOLI A PUNTI DI FORZA

Il disegno di legge sul riordino delle autonomie locali è stato oggetto di molteplici critiche, com’era forse inevitabile vista la rilevanza della questione. Tuttavia, se si guarda la riforma non come una mera regolamentazione giuridica volta al risparmio, ma come l’attivazione di un processo di cambiamento organizzativo, in grado di avviare forme di collaborazione istituzionale, allora quelli che i critici ritengono punti deboli diventano punti di forza.
Le critiche al disegno di legge sono sostanzialmente di tre tipi: non abroga le province; non consente risparmi certi; non è chiara nelle sua evoluzione futura.
Abrogazione, risparmi e chiarezza degli assetti sono stati perseguiti in modo fallimentare dalla precedente riforma del Governo Monti. È quindi opportuno non ripetere gli stessi errori e cercare di attivare processi di cambiamento nei territori. Vediamo allora come trasformare i punti di debolezza in possibili vantaggi.

LA (NON) ABROGAZIONE DELLE PROVINCE

Posto che le province sono abrogabili solo con modifica costituzionale, cosa accadrà se la riforma sarà approvata? Il problema fondamentale è capire come governare i servizi di livello intermedio in modo più efficace secondo la loro tipologia, senza elevati costi burocratico/politici e di conflittualità. La riforma risponde a questo problema facendo delle province il contenitore di associazioni di comuni, che dovranno riformare amministrativamente il territorio (assieme alle Regioni) e organizzare funzioni e servizi collaborando tra di loro. In questo senso, la riforma anticipa e accompagna l’ipotetica riforma costituzionale senza blindarla. Se le Regioni e gli enti locali non saranno soddisfatti degli assetti individuati tra il 2014 e il 2015, saranno sempre liberi di ridefinirli – insieme alle loro funzioni – in virtù dei poteri loro dati dall’attuale Costituzione e avranno luoghi istituzionali dove discuterne e decidere.

I RISPARMI INCERTI

Il problema dei risparmi è un tema importante, tuttavia non è possibile fare un calcolo dei costi differenziali se non si ha in testa la struttura dei servizi. Il Dld non definisce centralmente l’assetto futuro dei servizi, dunque non può calcolare i risparmi. Anche nel caso delle unioni di comuni è difficile valutare i risparmi a priori, tuttavia l’esperienza insegna che quelle di dimensione maggiore hanno realizzato sempre significativi risparmi (si veda per esempio l’unione della Bassa Romagna). È abbastanza chiaro, infatti, da dove si possono ottenere i risparmi in un determinato territorio. In primo luogo, nelle modalità di erogazione dei servizi per le funzioni dismesse. Servizi sociali, cultura e bene cultuali, sport e turismo sono funzioni dismesse che i comuni probabilmente non svilupperanno per esigenze economiche. I servizi più rilevanti (come per esempio musei e biblioteche) potranno essere facile oggetto di politiche d’innovazione attraverso riaggregazioni su aree vaste (per esempio, creando una rete provinciale di musei), sviluppando forme di gestione basate anche su sistemi di coproduzione che coinvolgano imprese, associazioni, fondazioni e cittadini, attirati dalla maggiore dimensione dell’attività.
Si può poi ottenere una razionalizzazione delle spese correnti per la produzione di servizi. In particolare, con la modifica dell’assetto istituzionale potranno esserci economie di scala laddove i servizi siano attribuiti ai comuni di grandi dimensioni o attuati in forma associata a livello provinciale. È il caso di attività quali i processi di acquisto, la gestione degli immobili e degli impianti, la gestione delle tecnologie informatiche, la gestione delle risorse umane, eccetera. Per il sistema delle agenzie di secondo livello, la creazione della provincia governata dai sindaci dei comuni del territorio dovrebbe fare venire meno l’esigenza di sussistere di molte forme societarie, consortili e così via create dai piccoli comuni singoli o associati.
Si ridurranno anche i centri di spesa. La generazione di fenomeni di accorpamento e semplificazione dei soggetti di spesa semplifica la complessità del processo di relazioni inter-istituzionali con un incremento della possibilità di controllo del sistema locale da parte di Regione e Governo. Quantificare questi risparmi è possibile soltanto di fronte agli specifici interventi, che solo le amministrazioni interessate possono fare. Se non saranno capaci di decidere è possibile che la situazione attuale deteriori ulteriormente? Oggi il sistema amministrativo locale è talmente frantumato che difficilmente si può fare peggio. Inoltre, il fenomeno delle unioni di comuni si sta sviluppando sempre di più, ma in un contesto istituzionale non favorevole. Il Ddl faciliterà le aggregazioni anche perché tende a incentivarle. La riforma poteva rendere obbligatori per legge i servizi associati? Sarebbe stato bello, ma in questo modo, usando la legge nazionale, avrebbe “riempito” e non “svuotato” le province a discapito dei comuni, con effetti istituzionalmente paradossali e controproducenti in caso di riforma costituzionale. L’idea fondamentale è che siano i territori a decidere.

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L’EVOLUZIONE FUTURA

Una politica pubblica deve essere governata e valutata. Occorre di conseguenza prevedere come gestire la riforma (come fa in parte l’articolo 23 comma 9 del Ddl), anche al fine di anticipare ed evitare fenomeni distorsivi e negativi sempre presenti in questi casi, anche perché non ci sono esperienze simili di auto-riforma delle autonomie locali nel mondo.
Occorre perciò sviluppare alcune precise azioni, utili anche a contenere i costi. Ad esempio, come avviene per ogni ristrutturazione aziendale, è opportuno che le nuove province definiscano un proprio piano industriale dove, accanto alla ristrutturazione dei servizi, individuino i risparmi e razionalizzazioni di spesa a questa correlati. I piani dovrebbero essere trasmessi al commissario per la spending review o al programma nazionale per l’attuazione delle riforme.
Occorre anche avere una totale trasparenza e confrontabilità delle scelte territoriali. I piani industriali dovrebbero essere pubblicati sul sito del Governo con i diversi programmi di risparmio e i report sugli effettivi stati di avanzamento concreti, certificati dai revisori dei conti. Il meccanismo dovrebbe permettere ai cittadini di conoscere realmente cosa accade nei diversi territori e di favorire un confronto virtuoso tra le diverse realtà locali e le loro best practice.
Infine, è opportuno che i risparmi ottenuti abbiano ricadute positive sul territorio, rimanendo a disposizione degli amministratori delle comunità che li hanno conseguiti realmente. La destinazione delle risorse, tuttavia, dovrebbe essere vincolata a due voci (per evitare nuova spesa pubblica): la riduzione del carico fiscale (cuneo fiscale tramite addizionale Irpef o detrazioni Iuc per soggetti bisognosi o per soggetti portatori di comportamenti virtuosi, welfare aziendale ecc.) e gli investimenti in innovazione tecnologica e ammodernamento d’impianti ed edifici sul territorio, con contestuale esenzione dal patto di stabilità.

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  1. Massimo Matteoli

    Il problema vero del testo approvato dalla camera è che non dice praticamente nulla sulla gestione dei servizi di area vasta fino a oggi gestiti dalle Province, troppo piccoli per la Regione, ma troppo grandi per i singoli comuni. La questione non è accademica, perché riguarda questioni fondamentali per la vita di tutti noi (dai piani per i rifiuti agli investimenti per le scuole superiori, solo per ricordarne alcuni). Non sappiamo ancora chi li gestirà né come saranno disciplinati e, visto come vanno le cose in questo nostro paese, corriamo contemporaneamente il pericolo della polverizzazione tra i singoli comuni e di un nuovo e deleterio neocentralismo regionale. In entrambi i casi è facile prevedere maggiori spese e/o disservizi. Purtroppo l’opinione pubblica è così stravolta dalla critica alla “casta” che viene contestata perfino la realizzazione delle Città metropolitane, una delle poche norme positive nel testo approvato. Sarebbe stato sicuramente meglio se la legge avesse analogamente disciplinato le unioni obbligatorie dei Comuni su ambiti territoriali più grandi e più razionali di quelli che attualmente caratterizzano gli oltre 8.000 campanili d’Italia.

  2. giorgio

    Con la tentata riforma Monti le Province non venivano abrogate totalmente, ma ridotte di un terzo,il risparmio era conseguente e il disegno estremamente chiaro, Si può condividerlo o meno ma non si può dire che è stata una riforma che ha perseguito in modo fallimentare questi obiettivi. Purtroppo la riforma non è mai neppure diventata operativa, essendo stata affossata dal Parlamento in vista delle elezioni politiche. Quella che viene ora proposta è sicuramente assai più confusa e indeterminata, anche se apparentemente più radicale e non risponde all’obiettivo di fondo che ogni riforma dovrebbe avere: semplificare i livelli locali di governo (obiettivo che non si persegue ipotizzando molteplici forme di aggregazioni), definire con chiarezza i compiti di ogni ente (è la prima esigenza del cittadino), avere un’assetto istituzionale abbastanza omogeneo su tutto il territorio nazionale. Se in ogni area ci si può organizzare in modo diverso, è il caos assicurato per cittadini e imprese.

  3. Luigi Oliveri

    Sul tema sono intervenuto molte volte, dunque non mi dilungo. Osservo che i ragionamenti proposti scontano almeno due rilevanti vizi. Il primo: l’articolo evidenzia tutt’altro che un punto di forza nel sottolineare le aggregazioni associative dei comuni. Non si chiede, nè risponde alla domanda che senso ha formalmente ridurre (per poi eliminare) un ente già esistente di area vasta, per creare complessi indefiniti e indefinibili aggregativi, sempre per curare l’area vasta? La risposta, trattandosi di domanda retorica, è ovvia: nessun senso. Il secondo gravissimo vizio è ritenere che i centri di spesa si ridurranno. E’ esattamente corretto affermare l’opposto. Anche ammettendo che alle province possano sostituirsi le unioni di comuni (cosa non vera, perchè si tratta di aggregazioni inter e non sovra comunali), esse sono ad oggi 370, quasi 4 volte di più delle 107 province. Se subentrassero i comuni, sarebbero 8100 nuovi centri di spesa, nuovi almeno nelle funzioni ex provinciali ad essi assegnate. Solo per le scuole superiori, da 107 centri di spesa, si passerebbe a circa 1600 nuovi centri di spesa, pari al numero dei comuni che ospitano le sedi.
    Infine, se una riforma viene fatta senza sapere, nè poter sapere, se comporta risparmio o se addirittura costi di più (e la Corte dei conti ha due volte affermato che è certa l’assenza di risparmio, come certi, anche se non quantificabili ad oggi, i maggiori costi), non può certo essere una buona riforma. L’ottimismo sul fatto che possa funzionare passa solo per una revisione totale e assoluta del testo del ddl Delrio. I principi generali, infatti, debbono scontrarsi con i fatti, che ci confermano un disegno di legge caotico, debole, confuso di bassa qualità, i cui risultati non possono essere quelli auspicati.

  4. Ettore

    Sono d’accordo con l’analisi,questa riforma e’stata ingenerosamente criticata. E’un primo passo nella giusta direzione, a cui dovrà seguire la riforma costituzionale. Comunque bisognava fare qualcosa, altrimenti in Italia non si muove mai niente; per fare una riforma Costituzionale (necessaria, ripeto, per le province ed il resto) ci vogliono due anni se va bene; nel frattempo che facciamo? Continuiamo a tenerci le Province cosi come sono e a distribuire prebende, poltrone e posti ai politici di turno che stavano già scaldando i motori per il prossimo turno elettorale primaverile? Possibile che in Italia non si possa avviare alcuna riforma senza gridare allo scandalo; senza che il benaltrista di turno si alzi con il ditino alzato e dica che ben altro bisognerebbe fare per eliminare gli sprechi e gli enti inutili! Vi porto un esempio concreto. Lavoro nella giustizia: è stata riformata la geografia giudiziaria che risaliva al 1860! Sono stati giustamente soppressi tribunali e sezioni distaccate obsolete. Ebbene, nonostante le levate di scudi da parte di quasi tutti i partiti politici, benaltristi di turno, avvocati, etc. la riforma sta funzionando, si stanno riorganizzando le funzioni, il personale viene utilizzato meglio realizzando economie di scala. Ovviamente ogni riforma scontenta sempre qualcuno, in questo caso gli avvocati che vorrebbero fare sempre più cause (abbiamo l’indice di contenziosità più alto d’Europa dopo dopo la Russia) per cui vorrebbero il tribunale sotto casa. Però occorre far prevalere l’interesse generale; la buona politica è questo: gli interessi dei molti contano più degli interessi dei pochi.

    • Paolo

      Però un conto è una riorganizzazione, come nel caso citato della Giustizia, altro è un intervento che cambia delle istituzioni con organi elettivi, presenti in Costituzione: se si vuole modificare l’assetto istituzionale, e la cosa certamente va fatta, non si può cominciare da un punto qualsiasi! Si dovrà pure avere in mente un assetto da raggiungere, quanti livelli decisionali sono necessari, qual è il livello ottimo per ogni tipo di gestione e di decisione, etc. Altrimenti potrei dire che anche le Regioni sarebbero da rivedere: la Val d’Aosta sta in un quartiere di Milano, il presidente della Provincia autonoma di Bolzano ha un’indennità superiore a quella della Merkel, etc. Oppure si potrebbero ridurre i Comuni ad almeno 30.000 abitanti e qualcuno direbbe subito: perché non 50.000? Questo modo di fare, opposto al benaltrismo è il “qualcosismo”: facciamo qualcosa, non importa cosa.

  5. giorgio

    La lettura dell’articolo mi convince ancora di più che i punti di debolezza del disegno di legge Del Rio sono davvero punti di debolezza. Che cosa vuol dire, in concreto e operativamente parlando, che le Province diventano contenitori di associazioni di Comuni che organizzeranno come vorranno le funzioni di livello intermedio? La Provincia governata dai Sindaci è una idea fascinosa, ma poco operativa, non fosse altro perché i Sindaci sono già piuttosto impegnati nello svolgere il loro ruolo e come troveranno il tempo per dedicarsi ad assemblee di unioni, associazioni, consorzi? Quanto ai risparmi, certo si potranno ottenere
    se, come sembra ipotizzare l’autore, certe funzioni verranno dismesse e certi servizi non più erogati. Ma non mi sembra la soluzione. Singolare considerare i servizi sociali come di secondaria importanza: chi assisterà gli anziani e i disabili presenti in ogni territorio? Difficile poi capire come economie di scala maggiori si possano realizzare se si passa da una dimensione più grande, come quella provinciale, a più gestioni di dimensioni minori, come associazioni di Comuni. Né si capisce perché le agenzie avrebbero più probabilità di non essere più necessarie in un sistema con funzioni gestite fra comuni associati rispetto ad un sistema con gestione centralizzata delle funzioni a livello di Provincia. La realtà è che le funzioni attualmente svolte dalle Provincie hanno un costo intrinseco che rimarrebbe tale anche se le stesse venissero svolte dai Comuni, singoli o associati. La manutenzione di un edificio scolastico, ad esempio, ha un suo costo, che non diminuisce certo se ad occuparsene non è la Provincia ma una associazione di Comuni! Difficile infine capire come possano ridursi i centri di spesa e semplificarsi le relazioni istituzionali, come sostenuto nell’articolo, se si passa da un unico ente (la Provincia) a più strutture istituzionali come le varie aggregazioni di Comuni, ciascuna con la propria autonomia decisionale. La frantumazione e le relazioni istituzionali sarebbero inevitabilmente destinate ad aumentare, al contrario di quanto ipotizzato nell’articolo.

  6. giorgio

    Mi preoccupa l’idea di queste cento Province che, in attesa di essere definitivamente cancellate, elaborano complessi piani di ristrutturazione (ma perché chiamarli “industriali”?) con i quali, in maniera diversa una dall’altra, riorganizzano le funzioni di secondo livello nel proprio territorio e le mandano a Roma (a che scopo?) Cosi non si semplifica, ma si complica il quadro istituzionale locale e la confusione non cambia, anche se è possibile prenderne nota sul web. I cittadini e, soprattutto, le imprese hanno bisogno di riferimenti istituzionali certi, che non cambino a distanza di pochi chilometri, con il passaggio da una Provincia all’altra e che sono resi possibili solo se è una legge nazionale a stabilire l’assetto gestionale delle funzioni sovracomunali. Se, come ricorda l’articolo, in nessuna altra parte del mondo è stata tentata una autoriforma delle autonomie locali come quella che si vuole sperimentare in Italia ci sarà pure un motivo, e non credo che sia quello che i nostri riformatori sono i più bravi!

    • Renato Ruffini

      Caro Giorgio,
      Nelle poche battute dell’articolo è difficile spiegare tutto e comunque la riforma si presenta “aperta” e quindi può preoccupare. Rispondo ad alcune perplessità. Piano industriale è una dizione come un’altra che mi è venuta, si tratta di fare un piano di ristrutturazione dei servizi che dalla provincia tornano alle regioni o ai comuni, e il piano deve essere anche economico. Perchè mandarli a Roma? semplicemente per costringere i soggetti ad operare secondo certe logiche, rendere pubblico ciò che le provincie faranno e monitorare l’andamento della riforma.
      Dal punto di vista istituzionale i riferimenti sono certi: le regioni hanno certe funzioni, i comuni altre, le provincie quelle tre fondamentali di coordinamento. E’ omogeneo a livello nazionale. Poi date le funzioni, come si intende articolare i servizi questo anche oggi dipende dalla regione e dalle autonomie locali. Anche oggi ogni regione ha regole diverse, ogni provincia ha strutturato come credeva i servizi e i comuni restavano fuori o subivano le scelte. Al limite la riforma può criticarsi perché cambia poco, toglie organi e alcune funzioni. Ma la speranza è che questo cambiamento ne porti altri di riassetto del sistema pubblico, comunque ad oggi eccessivo e poco efficiente.

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