Sembra raggiunto l’accordo di massima per la nuova legge elettorale. La proposta mira a un ritorno al proporzionale, alzando però la soglia di sbarramento, reintroduce le preferenze e prevede il rispetto di quote di rappresentanza di genere. L’impressione è che sia stata congegnata per impedire che dalle urne esca una chiara maggioranza e per giustificare la successiva formazione di un Governo di larghe intese. Eppure sarebbero bastati piccoli correttivi alla legge attuale per migliorare la qualità del personale politico. Garantendo però al paese la governabilità.

In queste settimane le forze politiche sembrano aver raggiunto un accordo di massima per una nuova legge elettoraleRoberto D’Alimonte sul Sole-24Ore e Gilberto Muraro su lavoce.info hanno già commentato alcune caratteristiche ed effetti tecnici specifici della cosiddetta “bozza Malan”. Qui cercheremo invece di rispondere alla domanda “cui prodest”. Vedremo che, malgrado tutti i suoi limiti, l’attuale legge elettorale è migliore della proposta di riforma e andrebbe quindi salvaguardata.

LA PROPOSTA DI RIFORMA MALAN

A cosa serve una legge elettorale? Ovviamente a eleggere dei rappresentanti. Ma quali caratteristiche dovrebbe avere la più desiderabile delle leggi elettorali? Innanzitutto, ci aspettiamo che sia in grado di ben rappresentare le preferenze degli elettori; poi, che permetta agli eletti di governare con una certa tranquillità; ancora, che permetta di selezionare tra i candidati i migliori rappresentanti possibili. Ovviamente, non si può chiedere a una sola legge elettorale di realizzare contemporaneamente tutti questi obiettivi. Per esempio, le leggi proporzionali rappresentano ottimamente le preferenze della società, ma sono quelle maggioritarie a offrire più garanzie di governabilità.
Per valutare dunque una legge elettorale, dobbiamo chiederci cosa serve maggiormente oggi al paese e stabilire se quella legge è in grado di realizzare l’obiettivo.
A differenza di altre materie, non si può proprio dire che in campo elettorale sia mancato l’impegno del legislatore: come si legge nel dossier del Senato, dall’inizio di questa legislatura sono state presentate e discusse quasi cinquanta proposte di riforma elettorale, alle quali vanno aggiunte venti petizioni popolari (e un referendum mancato). L’ampia discussione sembra quindi indicativa del fatto che quella emersa sia stata valutata come la migliore proposta tra le molte alternative possibili. O perlomeno quella politicamente più realizzabile.
La proposta di riforma elettorale mira a un ritorno deciso al proporzionale. Il premio di maggioranza (76 seggi alla Camera al primo partito o coalizione, 37 seggi al Senato) appare oggi troppo basso per poter pensare che una coalizione, e meno ancora un partito, sia in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Più precisamente, servirebbe un raggruppamento elettorale che raggiunga oltre il 40 per cento dei voti per riuscire a superare il 50 per cento dei seggi in Parlamento. Peraltro, la proposta non risolve nemmeno il problema delle maggioranze diverse tra Camera e Senato e, stanti i numeri attuali, prefigura un accordo post elettorale necessario e indipendente dalle coalizioni proposte in campagna elettorale.
Chi ama il proporzionale, in quanto ben rappresenta anche le forze minoritarie del paese, aspetti a festeggiare perché la bozza di riforma è ancora più severa del Porcellum nei confronti dei partiti piccoli. Aumenta infatti lasoglia di sbarramento: il 5 per cento per i partiti che non si coalizzano contro il 4 per cento del Porcellum; il 4 per cento per i partiti che si coalizzano contro il 2 per cento – e il ripescaggio del migliore sotto la soglia – del Porcellum, calcolata esclusivamente su base nazionale, e la ripartizione dei seggi avviene con metodo d’Hondt,cioè quello che punisce maggiormente proprio i partiti piccoli . (1)
Un’altra novità riguarda la possibilità di esprimere preferenze. Ogni partito è tenuto a presentare due liste in ogni circoscrizione elettorale. La prima deve comprendere un numero di candidati non inferiore a un terzo dei seggi assegnati alla circoscrizione e un genere non vi deve essere rappresentato per più dei due terzi dei candidati. All’interno dei nominativi di questa lista, è possibile esprimere una sola preferenza o, così come prevede qualche legge elettorale regionale, anche una seconda preferenza, se però accordata a un candidato di genere diverso. La seconda lista deve invece comprendere un numero di candidati non superiore a un terzo dei seggi assegnati alla circoscrizione e consiste in un listino bloccato (cioè senza la possibilità di esprimere preferenze) con alternanza obbligatoria di genere, salvo il capolista.
Chi pensa che ciò potrà migliorare la qualità della classe politica, si dovrebbe ricordare il dibattito che nel 1991 portò un referendum a cancellare proprio la possibilità di esprimere preferenze multiple. O i recenti scandali che hanno riguardato proprio consiglieri regionali campioni nella raccolta delle stesse. Naturalmente, la possibilità di esprimere una preferenza ha indubbia valenza positiva: tuttavia, la preferenza sembra funzionare meglio suterritori piccoli (la provincia o la città), dove davvero si conosce (quasi) personalmente il candidato e dove le spese per la campagna elettorale possono essere limitate. Dover competere su collegi molto grandi, come quelli per esempio previsti dalla riforma elettorale, avvantaggia gli insider (cioè i candidati uscenti) e chi dispone di grandi risorse da investire nella campagna elettorale. Discorso analogo per l’alternanza di genere: se davvero vogliamo dar voce agli elettori meno rappresentati, perché non partire dai giovani, costantemente eincolpevolmente sottorappresentati?

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A COSA SERVE?

L’impressione è dunque che la proposta di nuova legge elettorale sia stata pensata esattamente per impedire che dalle urne esca una chiara maggioranza in Parlamento e per giustificare la formazione di un governo di coalizione ex post e di larghe intese, esattamente come quello che ha retto il paese in questo ultimo anno. Al contrario, con il Porcellum, la coalizione vincente avrebbe una solida maggioranza. Che poi questa maggioranza sia in grado di resistere o meno nel tempo sarà un problema politico interno alla stessa maggioranza. Nulla vieterà, un domani, di ricorrere ancora ad accordi ex post, così come avvenuto circa un anno fa. In altre parole, le coalizioni ex post sono sempre possibili, con o senza riforma elettorale. Quanto all’ipotesi di maggioranze diverse a Camera e Senato, resta presente anche con la proposta di riforma.
A chi giova un risultato che non esprime una chiara maggioranza? Probabilmente i primi a trarne vantaggio sarebbero i partiti di centro, che potrebbero continuare a mantenere un’influenza sulla linea del Governo pur raccogliendo un consenso limitato. Potrebbe giovarsene anche il centrodestra, ancora alla ricerca di un leader in grado di tenere unito lo schieramento dopo l’uscita di scena (definitiva?) di Silvio Berlusconi. Non si capisce invece che interesse potrebbe avere il Pd a un’intesa simile: al momento è il primo partito in Italia, almeno secondo i sondaggi, e dovrebbe fare di tutto per mantenere in vita una legge elettorale che gli permetterebbe di governare con una certa tranquillità. A meno che anche lo stesso Pd non preferisca “essere costretto” a un’alleanza ex post col centro che compensi quella ex ante ormai “obbligata” con Sel: in questo modo, riuscirebbe a continuare a lavorare sull’agenda Monti nonostante le posizioni estreme più volte ribadite da Nichi Vendola.
O, più in generale, a meno che tutto il dibattito non sia pensato per mascherare quelli che dovrebbero essere i veri temi della campagna elettorale, vale a dire la posizione del nostro paese nei confronti dell’Europa e dei vincoli che questa pone alla politica economica degli Stati membri.
Si tratta dunque di una riforma che serve dunque ai partiti maggiori, quelli stabilmente sopra la soglia. E che dopo un’esperienza di appoggio esterno a un governo tecnico sembrano temere sia di perdere sia, paradossalmente, di vincere.

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È POSSIBILE MIGLIORARE IL PORCELLUM?

È possibile migliorare il Porcellum? La risposta è sì: un paio di piccoli correttivi all’attuale legge potrebbe permettere di migliorare la qualità del personale politico. Innanzitutto, si dovrebbe eliminare la possibilità di candidare la stessa persona in più collegi elettorali. In questo modo si toglierebbe al candidato eletto in più circoscrizioni il potere, ingiustificabile, di decidere chi far eleggere al suo posto esprimendo ex post l’opzione per il collegio di appartenenza. Un’altra proposta poco radicale lascerebbe ai partiti la determinazione ex antedell’ordine di lista, rendendo però obbligatorie le primarie per riempire le caselle corrispondenti alle posizioni così individuate. Per esempio, nella circoscrizione Lombardia 2, Pier Luigi Bersani potrebbe decidere che alla provincia di Varese spettano il primo, il decimo e il ventesimo posto: ebbene, saranno poi le primarie svolte sul territorio provinciale a determinare chi otterrà quelle posizioni. Una proposta più radicale – e naturalmente più equa – potrebbe invece prevedere un algoritmo che permetta di tramutare il voto delle primarie, sempre da tenersi su base provinciale (o inferiore), anche in ordine di posizione nella lista. Fanno davvero così paura le primarie da non poter pensare a una semplice riforma di questo tipo?

(1) In base al metodo D’Hondt, il numero di voti ottenuti dalle singole liste viene diviso per 1, 2, 3,…, n, dove nindica il numero di seggi in palio in ogni circoscrizione. A questo punto, si ordinano i risultati ottenuti in ordine decrescente e si assegna un seggio ciascuno ai primi n risultati. Vale per la Camera, per qualche bizzarro motivo, al Senato è invece previsto un metodo diverso di ripartizione dei seggi.

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