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I reati tributari alla sfida della globalizzazione

Si può pensare di attrarre in Italia più investimenti esteri con l’attuale disciplina dei reati tributari? Non ricadono in ambito penale solo i comportamenti criminali, ma anche altri privi di caratteristiche fraudolente. 

REATI TRIBUTARI E INVESTIMENTI ESTERI

È bene precisarlo subito. Le considerazioni che seguono possono apparire come un invito ad attenuare la lotta all’evasione fiscale, che (con espressione di stampo bellicistico) è da tutti considerata l’obiettivo prioritario dell’azione politico–amministrativa in ambito tributario. Vale, tuttavia, la pena di correre questo rischio.
In un milieu in cui, da un lato, si cerca di attrarre investimenti esteri con approccio top down e, dall’altro, si constata (senza eccessivi clamori) che l’ordinamento italiano è istituzionalmente deficitario per un’impresa transazionale (che quindi – se può – sceglie altre giurisdizioni per disciplinare la propria attività e per tassare i propri profitti) è bene riflettere su quale influenza possa rivestire l’attuale assetto penale tributario nell’ottica dell’attrattività del sistema Italia. (1) E ciò, a maggiore ragione, se si tiene conto che il disegno di legge delega fiscale che ha appena terminato il proprio cammino parlamentare prevede anche una riforma del vigente decreto legislativo 74/2000.
Nessuno dubita dell’opportunità di sanzionare penalmente le ipotesi di criminalità fiscale come quelle che prevedono l’emissione e l’utilizzo di fatture false, l’attuazione di cosiddette frodi carosello in ambito Iva, la fraudolenta evasione a mezzo di impiego di documenti non veridici o ancora le false residenze in Stati dalla fiscalità accattivante. Tuttavia, l’attuale sistema penale tributario (anche nella sua interpretazione giurisprudenziale) non prevede la sanzionabilità penale soltanto di questo genere di condotte connotate da chiaro disvalore sociale. Sebbene l’approccio belligerante faccia premio e tenda a tacciare di lassismo giuridico ogni interpretazione differente, il decreto legislativo 74/2000 rischia infatti di trovare applicazione anche in ipotesi d’impatto più modesto e sprovviste di caratteristiche fraudolente. E così (pur con il presidio dell’elemento soggettivo rappresentato dal dolo) sono attratte all’ambito penalistico (quando si superano determinate soglie di punibilità, invero non particolarmente elevate), ad esempio, gli omessi versamenti dell’Iva annuale e delle ritenute certificate piuttosto che le infedeltà dichiarative (o presunte tali) quale che ne sia l’origine (e, quindi, anche in casi che non sembrano caratterizzati da particolare disvalore come la contabilizzazione di costi sprovvisti del requisito della competenza temporale o dell’inerenza ovvero le rettifiche che si basano su di una riqualificazione di sequenze negoziali esposte fedelmente nella contabilità). (2)

L’IMPREVEDIBILITÀ CHE FA PAURA ALLE IMPRESE STRANIERE

La pervasività (e, sotto molti profili, l’imprevedibilità) del rischio penale è una caratteristica del decreto legislativo 74/2000 (e della sua interpretazione giurisprudenziale) che concorre senz’altro a vulnerare l’attrattività del sistema Italia. (3)
Per un potenziale investitore estero, l’impossibilità di avere certezza preventiva non solo del livello di tassazione effettiva a cui sarà assoggettato il proprio investimento, ma anche delle conseguenze cui rischia di essere esposto in caso di challenge delle proprie scelte imprenditoriali costituisce un minus di assoluto rilievo nella comparazione dei singoli ordinamenti. La particolare sensibilità al cosiddetto rischio reputazionale che contraddistingue alcuni esponenti aziendali (in particolare modo di estrazione straniera) costituisce poi un ulteriore handicap di cui, spesso, si sottovaluta il rilievo. È inutile cercare di spingere sull’acceleratore degli investimenti esteri diretti  se poi l’attuale sistematica penale tributaria (enfatizzata da una certa vague giurisprudenziale) espone i vertici aziendali a possibili processi penali per (ipotetiche) condotte di evasione di opinione (rettifiche di competenza temporale, abuso del diritto, censura dei criteri di valutazione adottati in bilancio e così via). Si tratta di un quid che è impossibile da apprezzare per chi non abbia pratica con l’attività ispettiva fiscale nazionale e che – pur essendo in qualche modo comprensibile in base al vigente assetto normativo – è fortemente disincentivante per quanti vogliano investire in Italia. (4)
Il problema esiste e non è affatto trascurabile considerato che per un manager straniero è incomprensibile che si possa essere (anche solo) indagati perché una perdita su crediti dedotta in una certa annualità viene considerata di competenza temporale di un altro periodo d’imposta oppure perché i compensi del consiglio di amministrazione sono giudicati antieconomici e, quindi, fiscalmente indeducibili anche se sono stati realmente corrisposti. (5)

UN REGIME DA RIVEDERE

E qui si arriva ai difetti intrinseci dell’attuale regime penale tributario su cui occorre riflettere in un’ottica di possibile miglioramento.
In prima istanza v’è forse un vizio di ordine genetico. Il Dlgs 74/2000, pur correggendo molti dei profili patologici dell’infelice esperienza della cosiddette manette agli evasori, è l’esito di analisi risalenti agli anni Novanta. Ciò ha condotto, per un verso, a sottovalutare alcuni fenomeni criminosi di rilievo (ad esempio la cosiddetta evasione da riscossione) a fronte dei quali sono stati elaborati presidi repressivi del tutto inadeguati e, per altro verso, ha finito per focalizzare il momento punitivo sull’adempimento della dichiarazione annuale, aprendo così il varco alla possibile repressione penale di ogni condotta incidente sulla determinazione dell’imponibile di riferimento (è il rischio penale immanente alle rettifiche incentrate sulla competenza temporale ovvero alle contestazioni riguardanti l’affermata carenza del requisito dell’inerenza di costi in realtà effettivamente sostenuti).
In secondo luogo, v’è un difetto di natura concettuale. L’attuale sistema è contraddistinto da un’evidente sovrapposizione fra la sfera della sanzionabilità amministrativa e quella penale. Proprio la circostanza che anche la mera infedeltà dichiarativa possa a determinate condizioni –semplici da soddisfare – innescare un procedimento penale fa sì che le due sfere non siano concettualmente distinte. E ciò rappresenta – checché se ne possa pensare – un vizio di politica criminale. Se i due apparati punitivi (quello amministrativo e quello penale) insistono (almeno in parte) sul medesimo oggetto (l’infedeltà dichiarativa), non solo si svilisce il ruolo di extrema ratio della sanzione penale, ma si corre il rischio che semplici (vale a dire non fraudolenti) ma consapevoli comportamenti giudicati scorretti ex post dal fisco diano luogo a processi penali la cui tempistica e la cui imprevedibilità in termini di esito contribuiscono a connotare in termini di elevata incertezza l’intero sistema Italia. (6)
V’è poi un vizio (forse) prospettico. Il sistema dei rapporti fra procedimento penale tributario e procedimento di accertamento fiscale sono stati sempre ispirati a un principio che si è soliti definire del doppio binario. Ciò comporta il rischio (astratto ma non del tutto irreale) che la società riesca a dimostrare la propria correttezza fiscale, ma l’amministratore venga invece condannato in sede penale o viceversa. La comprensibilità di una tale dinamica (che ha origini e motivazioni giuridiche apprezzabili) per un investitore estraneo alle meccaniche del diritto punitivo tributario è molto limitata, se non nulla. E il difetto di comprensione diviene viepiù importante se si considera che nel corso del tempo il principio di rigida separazione si è andato affievolendo dando luogo ad ambiti di sovrapposizione parziale fra i procedimenti (basti pensare alla disciplina dei cosiddetti costi da illecito penale) che sminuiscono ulteriormente la razionalità del sistema;
Da ultimo, v’è senz’altro un vizio di attuazione giurisprudenziale. L’assetto delineato dal Dlgs 74/2000 (contrariamente a quanto previsto dalla manette agli evasori) ha reso possibile la criminalizzazione delle valutazioni. Ciò tuttavia ha finito per riflettersi nell’incremento dei procedimenti penali aventi a oggetto forme di ricchezza del tutto visibili ma interpretate in modo differente dalle parti del rapporto impositivo (e il discrimen fra ragionevolezza o meno di un’interpretazione è tanto più difficile da individuare quanto più sono complesse le dinamiche aziendali di riferimento). Un incremento non sempre giustificato visto che l’extrema ratio della sanzione penale dovrebbe essere riservata ai casi di criminalità fiscale e al contrasto alla ricchezza in nero e non alla reinterpretazione (più o meno fondata) della ricchezza visibile.
In conclusione, il panorama non è roseo. Non resta che sperare nelle sorti (non è dato sapere quanto progressive) dell’appena varata legge di delega del sistema fiscale e nella prefigurata riforma dell’intero assetto punitivo. Anche se – l’esperienza insegna – la fase di attuazione della disciplina è talvolta più vischiosa della stessa fase progettuale.

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(1) Esempi di tentativi di attrarre più investimenti esteri sono il Dl 83/2012 (decreto sviluppo) o il più recente Dl 145/2013 (Destinazione Italia). Per converso, la localizzazione di Fiat Crysler Automobiles al di fuori della Repubblica italiana, benché abbia suscitato reazioni di vario genere (si veda, ad esempio, l’intervento di R. Prodi “Il rilancio passa per ricerca, efficienza ed una politica industriale attiva. Non per il taglio dei salari”, ne Il Messaggero del 31 gennaio 2014) sembra essere stato già metabolizzato dall’opinione pubblica e ricondotto (con una certa mesta rassegnazione) a un mero problema di contabilizzazione della possibile riduzione di gettito fiscale (allo stato assai contenuta se non nulla in ragione delle rilevanti perdite conseguite negli anni più recenti dalle entità del gruppo). Il caso, invece, avrebbe dovuto porre interrogativi di ben altro spessore sistematico rappresentando un indizio significativo della scarsa competitività generale dell’ordinamento italiano. Su lavoce.info in proposito si vedano, a diverso titolo, le considerazioni di J. Alworth e G. Arachi (Perché Fiat ha scelto il Regno Unito, 4 febbraio 2014) e quelle di F. Schivardi (Fiat – Crysler, il difficile arriva ora, 7 gennaio 2014).
(2) Come avviene, ad esempio, quando viene prefigurata una contestazione basata sul fenomeno dell’abuso del diritto o ancora quando viene censurata la transfer price policy nelle operazioni infragruppo.
(3) In particolare modo, le contestazioni basate sulla figura dell’abuso del diritto sono quelle che – fatte salve le ipotesi su cui la prassi e la giurisprudenza sono già stratificate – appaiono di difficile inquadramento preventivo. In tali casi, infatti, le condotte non sono contrarie ad alcuna disposizione normativa, ma vengono qualificate abusive con un giudizio ex post che talvolta contraddice (in modo più o meno diretto) l’insieme dei pareri professionali di cui un management attento è solito dotarsi per giustificare la ragionevolezza dell’operazione che s’intende da realizzare. Sussiste, quindi, una sostanziale imprevedibilità del rischio penale (in particolare modo allorquando si realizzano operazioni straordinarie la cui rilevanza determina senz’altro il superamento delle soglie di punibilità previste dal Dlgs 74/2000) e le stesse opinioni professionali acquisite in corso di processo decisionale sono spesso assunte quale argomento a contrario, ossia come prova indiziaria della consapevolezza (almeno in termini di dolo eventuale) delle conseguenze della condotta realizzata.
La giurisprudenza sembra oscillare fra incertezze interpretative e atteggiamenti draconiani giustificati dal clima di emergenza economica. Da un lato, infatti, è come se i giudici penali stentassero a misurarsi con le dinamiche aziendali più sofisticate (ne sono prova le alterne vicende penali – incomprensibili per un investitore straniero – della presunta evasione di Dolce e Gabbana (si veda L. Ferrarella, “Trasferirsi in Lussemburgo libera scelta industriale. Assolvete Dolce e Gabbana”, in Il Corriere della Sera del 26 marzo 2014, pag. 17); dall’altro, poi, alcune interpretazioni (come l’affermata criminalizzazione delle condotte asseritamente elusive) appaiono motivate più che da considerazioni di natura giuridica (la compatibilità di tale tesi con il principio di legalità è tutt’altro che cristallina) da un atteggiamento emergenziale e dalla necessità di generare un rilevante effetto di prevenzione generale.
(4) A maggiore ragione se si considera il sempre più diffuso ricorso in ambito processuale penale all’adozione di misure cautelari reali (o al prodromico sequestro preventivo) di somme e altri beni commisurati all’imposta asseritamente evasa. Una situazione che espone il patrimonio dei vertici aziendali (in quanto potenziali soggetti attivi del reato) a forme di immediata decurtazione per condotte riferite all’impresa amministrata. Il che fa sì che il manager di una multinazionale cui sia contestata una infedeltà dichiarativa corre il rischio di vedersi espropriato (più o meno in maniera definitiva) dei propri beni per ipotetiche evasioni (che, di norma, divengono di opinione e perciò oggetto di contesa interpretativa quanto più sono rilevanti e spersonalizzate le dimensioni aziendali) da cui, in ogni caso, non hanno tratto alcun vantaggio pecuniario diretto. Una dinamica sostanzialmente incomprensibile per un operatore straniero e che mina l’appeal del sistema Italia tanto quanto il differenziale di aliquota fra l’Ires e la corporation tax di altri Stati dell’Unione europea.
(5) Ma analogo stupore è ravvisabile in tutti i casi in cui si paventa il rischio che possibili riqualificazioni di operazioni alla luce del sole possano dare luogo a responsabilità penali addirittura con riferimento alle ipotesi delittuose più afflittive (si pensi alla sequenza della scissione parziale di una società e alla successiva alienazione della beneficiaria che viene giudicata equivalente – e quindi riqualificata – alla cessione di un compendio aziendale da parte della società scissa).
(6) Chiunque (a vario titolo) abbia una frequentazione professionale dei processi penali sa bene come sia spesso difficile fare transitare in nozioni semplici e intelligibili dinamiche complesse e di carattere empirico quali quelle tipiche della grande impresa. Il rischio che si corre spesso è che la complessità sia avvertita come indizio di fraudolenza e che, quindi, il contribuente di dimensioni importanti debba fronteggiare una sorta di aura di sospetto ingenerata dalla non sempre immediatamente apprezzabile ratio delle sue decisioni.

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Il Punto

  1. AM

    Oggi in un’economia globale hanno assunto importanza particolare anche delocalizzazioni che riguardano fasi della filiera produttiva. Il passaggio di semilavorati da un impianto all’altro ubicati in differenti paesi attribuisce criticità al problema dei transfer prices all’interno di un gruppo e aumenta i rischi di un contenzioso fiscale.

  2. Cincera

    Una soluzione: trattato universale sulle responsabilità fiscali e cioè se un capitale emigra in Francia e se questo paese è firmatario del Trattato Universale, l’Italia può tassare il capitale emigrato in Francia e così via…

    • IC

      Ci si dimentica che può prendere la residenza all’estero anche il proprietario del capitale. Ovviamente per la nuova residenza non opterà per un paese ad alta tassazione come la Francia, un paese dove la spesa pubblica non è alimentata dalla corruzione della politica come in italia, ma dalla ricerca assillante di grandeur.

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