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Voluntary disclosure in salsa italiana

La legge sulla collaborazione volontaria non riguarda solo chi detiene capitali all’estero in modo illegittimo, ma anche chi possiede in Italia patrimoni frutto di evasione fiscale. È una sanatoria accettabile sia dal punto di vista pratico sia sotto l’aspetto etico?

EVASIONI MADE IN ITALY

Sta facendo ampi passi avanti la versione italiana della voluntary disclosure (per i non anglofoni: “collaborazione volontaria”). E li sta facendo nel senso che ciò che era stato pensato per i soli capitali detenuti illegittimamente all’estero viene ora esteso anche ai capitali occultati al fisco, ma detenuti in Italia. Capitali, cioè, depositati presso banche italiane o investiti in immobili italiani o tramite intermediari finanziari italiani, ma incompatibili, per le loro dimensioni, con i redditi nel frattempo dichiarati. Più concreti ed estesi non sono solo i poteri indagatori derivanti dal Facta o dalle innovate disposizioni bancarie svizzere (richiamati nell’articolo di Giampaolo Arachi) che interessano le attività possedute all’estero, ma lo sono anche i poteri di accesso – ormai pressoché totale e con insignificanti freni inibitori – varati dai più recenti provvedimenti antievasione, che obbligano gli intermediari finanziari operanti in Italia a mettere a disposizione del fisco italiano le informazioni più significative ordinate nelle loro banche dati. Insomma, una maggior trasparenza informativa è emersa in questi ultimi tempi sia sul piano internazionale che domestico. E il fisco italiano sta facendo passi da gigante nell’apprendere come avvalersene.
Ma se questo è l’antefatto che rende credibile la volontà di collaborare (per il timore di essere scoperto) per chi i capitali li ha all’estero, non c’è motivo perché non avverta il fiato sul collo anche chi i capitali (e i patrimoni ingiustificati) li ha sempre detenuti, ma in modo un po’ più casareccio, solo in Italia.
La versione della voluntary disclosure varata dalla commissione Finanze della Camera il 9 luglio, e che debutterà a breve in aula, al comma 1-bis dell’articolo 1, fa proprio questo: estende il regime della collaborazione volontaria «anche ai contribuenti diversi da quelli» che non hanno dichiarato le attività possedute all’estero; ma che, tuttavia, possedendo attività (ingiustificabili) in Italia, intendono «sanare le violazioni degli obblighi di dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi, dell’Irap e dell’Iva». Il che vuol dire: coloro che possiedono patrimoni in Italia, ma che ne sono in possesso avendo evaso imposte e violato così i propri ordinari obblighi dichiarativi.
Per quale ragione costoro dovrebbero sentirsi indotti ad avvalersi della collaborazione volontaria che comporta il pagamento di tutte le imposte evase con l’aggiunta di qualche modesta sanzione? Ma per l’evidenza della incompatibilità fra i redditi dichiarati e il valore delle attività possedute. E, quindi, per la consapevolezza che la trasparenza portata dai più recenti provvedimenti antielusivi e la collaborazione degli intermediari finanziari rende ormai precario un occultamento che magari ha marciato indisturbato per anni, ma che oggi presenta crescenti pericoli di accertamento. Si pensi a coloro che hanno acquisito immobili o quote di fondi comuni in anni in cui dichiaravano redditi di pura sopravvivenza.

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PERCHÉ CONVIENE PATTEGGIARE

Ma allora è davvero un condono, gridano alcuni. Non basta graziare quelli che i capitali li detenevano all’estero dove erano più facilmente occultabili; ora graziamo anche quelli che i capitali li detengono addirittura in Italia e che sono, quindi, più facilmente aggredibili.
Comprensibile la reazione istintiva: ma le cose non stanno, purtroppo, così. Intanto perché un conto è avere accesso a informazioni significative e anche minacciose; altro conto è trasformare le stesse in strumenti di riscossione. L’iter burocratico relativo può presentare inciampi di diversa natura e l’impegno dell’amministrazione finanziaria ha comunque un costo per il sistema. Poi, perché lo strumento di riscossione può essere variamente contestato e tre gradi di giudizio costano, mantengono un certo livello di incertezza e spostano nel tempo l’incasso effettivo. E a volte (o forse anche un po’ più spesso) accade che, quando tutto è pronto per riscuotere, il tesoretto atteso si è volatilizzato. Certo, ci sono i sequestri, le azioni revocatorie, ma non sempre sono efficaci. E ancora perché se certe posizioni vengono chiarite si scongelano possibili immissioni rettilinee di capitali di cui l’impresa medio-piccola italiana ha davvero grande bisogno. E infine perché questa è la logica della premialità, peraltro largamente diffusa in ambito penalistico: si fa una valutazione realistica dei pro e contro – per il sistema – di offrire vie d’uscita a chi ha la coscienza sporca, ma vorrebbe interrompere lo stato antigiuridico in cui versa e rimettersi sulla retta via. Le sanatorie sono sempre in qualche misura ingiuste: tuttavia, ci si muove fra una ingiustizia insopportabile (condoni e scudi a prezzi di saldo) e una ingiustizia disturbante ma non stravolgente (qui lo sconto vale solo per le sanzioni). Non a caso misure analoghe sono state adottate dagli Stati ai quali spesso ci ispiriamo come simboli di giustizia tributaria e di efficienza delle relative amministrazioni finanziarie.
Ha più senso, semmai, la critica che fa perno sull’impegno dell’amministrazione finanziaria: perché le sanatorie portano soldi, ma anche lavoro straordinario per l’amministrazione e qualche ulteriore contenzioso (perché non tutte le ciambelle riescono col buco). Consegue che riducono per un certo tempo – non trascurabile – l’attività di controllo e contrasto ordinaria che è la base, vera e solida, di una politica tesa a far onorare costantemente gli obblighi tributari ordinari.
Saranno l’ultima sanatoria e, poi, le inasprite pene – vedi l’introduzione del reato di autoriciclaggio – a stroncare definitivamente l’evasione fiscale? Non ci facciamo illusioni. La collaborazione volontaria è, oggi, appropriata; non particolarmente immorale; aiuta a migliorare il quadro informativo per un più efficace contrasto dell’evasione. Ma il perno resta l’azione ordinaria dell’amministrazione finanziaria. In bocca al lupo, allora, a Rossella Orlandi, neo-direttore dell’Agenzia delle Entrate.

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Nomine con cv: un rito inutile?

  1. Piero

    Per valutare il provvedimento occorre comprendere la misura delle imposte e la misura delle sanzioni. Se le imposte sono applicate con le aliquote attuali o quelle passate in vigore al momento in cui è stato prodotto il reddito e le sanzioni sono in linea con i provvedimenti attualmente in vigore di ravvedimento operoso, è tutto corretto, si tratta di un ravvedimento operoso che può retrocedere senza limiti. Se al contrario si avrà un’aliquota per l’imposta in modo forfettario di gran lunga inferiore alle aliquote previste dalla legge, il provvedimento è un condono tributario.
    Per l’auto riciclaggio è la solita cosa all’italiana. Se si vuole punire in misura più pesante l’evasione, si doveva aumentare le pene previste nei reati tributari, naturale che la cosa era più complicata e quindi i burocrati inseriscono l’auto riciclaggio, normativa che alla fine sarà dichiarata incostituzionale.

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