Sull’onda dell’indignazione popolare per gli episodi di malaffare che hanno coinvolto i politici di alcune Regioni, il Governo ha presentato un progetto di riforma costituzionale del Titolo V. Ma quelle norme non sono la radice di tutti i mali e una loro revisione non sarà la panacea. Soprattutto, non risolverà il vero problema dell’Italia: la scarsa qualità della classe politica, a tutti i livelli. E della supposta esplosione della spesa locale non c’è traccia. Eppure il Titolo V va riformato, per rimediare alla moltiplicazione dei legislatori negli stessi ambiti pubblici.
Le tumultuose vicende degli ultimi tempi hanno messo in luce seri fenomeni di malaffare nelle Regioni italiane, e il governo ha approfittato dell’abbrivio offerto dall’indignazione popolare per cercare di intervenire più seriamente sulle dimensioni dei consigli regionali e sul costo della politica regionale. Visto che c’era, ha anche presentato un progetto di riforma costituzionale del Titolo V (già riformato nel 2001), sebbene le possibilità di approvarlo entro la fine della legislatura siano assai scarse. L’abbinata ha generato sulla stampa una sorta di comun sentire, secondo cui il Titolo V è la radice di tutti i mali, dalla corruzione all’esplosione della spesa delle amministrazioni locali, a causa delle diffusa irresponsabilità che ha creato a livello regionale.

Ma è davvero così?

LA SELEZIONE DELLA CLASSE POLITICA

Appare sempre più evidente che il paese soffre di un gravissimo problema di bassa qualità della classe politica, sia in termini di competenze che di semplice onestà nei comportamenti. Ma che di tutto questo sia responsabile il titolo V sembra difficile da sostenere. Le cronache dell’ultimo anno mostrano come il malaffare sia diffuso a ogni livello di governo e a ogni latitudine; e c’entrano poco anche le regole elettorali, nonostante il gran parlare che se ne fa in questi giorni: i quattro livelli di governo che caratterizzano l’Italia e le sue venti Regioni hanno sistemi elettorali diversi fra loro. Ma tutti hanno problemi simili di selezione della classe politica.
Come se ne esce non è ovvio; ma è evidente che piuttosto che la revisione del Titolo V, una strategia più efficace è quella di tagliare retribuzioni, rimborsi e discrezionalità nell’uso delle risorse per la politica, a tutti i livelli, e introdurre leggi più severe sulla corruzione. Il Titolo V non impedisce interventi di questo tipo, tant’è vero che nessuno ha palesato eccezioni di incostituzionalità rispetto ai recenti provvedimenti di riforma del governo. Se questi provvedimenti non sono stati adottati prima, dunque, è esclusivamente per mancanza di volontà politica.

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LE SPESE LOCALI

Un altro argomento della vulgata mediatica è che la devoluzione di responsabilità e competenze alle autonomie introdotte dal Titolo V abbia generato un’esplosione incontrollata delle spese regionali e locali. La tabella 1 non supporta questa affermazione: la crescita della spesa primaria delle autonomie nel decennio è stata solo di poco superiore di quella registrata dal centro, anche al netto della previdenza e del servizio del debito.

1
Non solo, ma la crescita più elevata della spesa locale rispetto a quella statale è stata dovuta unicamente alla dinamica accentuata della spesa sanitaria, che costituisce da sola l’80 per cento delle spese delle Regioni e circa la metà del totale delle spese delle autonomie (tabella 2).
2
Certo, la sanità è una responsabilità dalle Regioni, ma attribuire solo a loro e alla loro inefficienza la “colpa” dell’incremento sembra eccessivo. Primo, perché con una popolazione che invecchia, il problema del contenimento della spesa sanitaria è comune a tutti i paesi sviluppati. E da questo punto di vista, come ricorda continuamente l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Italia fa meglio della maggior parte dei paesi, sia in termini di livello della spesa a parità di servizi, sia in termini di dinamica (v. “La virtù sanitaria” di Gilberto Turati) , anche nei fatidici anni Duemila. Secondo, perché la sanità è in realtà una funzione condivisa tra Stato e Regioni, ed è il primo che definisce i livelli essenziali dei servizi da offrire.
Naturalmente, ciò non significa che la spesa sanitaria sia quella “giusta” o anche che possiamo permettercela. È del tutto legittimo sostenere che l’evoluzione della spesa pubblica italiana (locale, regionale e di previdenza) sia stata negli anni Duemila comunque eccessiva rispetto alla dinamica del prodotto. Solo non c’è traccia dell’esplosione della spesa indotta dal Titolo V di cui tanto si parla. Inoltre, in alcune Regioni la qualità della spesa sanitaria (e locale) è di buon livello (come insiste sempre l’Oms), pur nella pluralità dei modelli adottati: non è affatto ovvio che lo Stato centrale avrebbe saputo fare altrettanto bene o meglio.
I CONTROLLI
Che un’esplosione della spesa non ci sia stata è per un certo senso ovvio, visto che, Costituzione o meno, lo Stato centrale non ha mai eliminato, anzi ha rafforzato nel corso del decennio, i controlli sull’evoluzione della spesa locale. Per le Regioni, c’è il patto sulla sanità e proprio per questo otto Regioni sono attualmente o commissariate o sottoposte a piani di rientro sotto il diretto controllo del centro. Per la spesa regionale diversa dalla sanità e per la restante spesa locale ci sono i Patti di stabilità interna, che negli ultimi anni sono diventati semplicemente asfissianti. Inoltre, Costituzione o meno, lo Stato centrale non si è mai preoccupato eccessivamente di intervenire sui tributi locali, bloccandoli tutte le volte che riteneva fosse utile farlo. Il Titolo V, per esempio, non ha certo impedito al Governo, nel 2008, di abolire la principale imposta comunale.
LA RIFORMA
Il Titolo V va lasciato così com’è? No. È evidente che il complesso delle funzioni legislative attribuite alle Regioni sia eccessivo; ben ventiquattro, alcune delle quali decisamente fuori luogo (per esempio, grandi reti di trasporto e navigazione, commercio con l’estero, energia). È anche vero che il rapporto tra legge regionale e statale nelle varie aree di competenza esclusiva e concorrente appare confuso. Bene dunque ridurre le competenze, che del resto nella maggior parte dei casi le Regioni non hanno mai attivato, e chiarire meglio la gerarchia tra le leggi, come propone il Governo, non fosse altro che per ridurre il contenzioso costituzionale. Male, invece, che il Governo non ne abbia approfittato per proporre anche qualche revisione dell’articolo 119, sul finanziamento degli enti locali, la cui assurda interpretazione da parte del legislatore ordinario ha prodotto veri e propri mostri. È discutibile invece la reintroduzione del giudizio di legittimità sugli atti: di fatto, anche quando era previsto, non ha mai impedito comportamenti irresponsabili.

Tuttavia, seppur utile, la proposta di riforma non è probabilmente sufficiente e non affronta il vero problema creato dal Titolo V: la moltiplicazione dei legislatori negli stessi ambiti pubblici, che ha introdotto incertezze, complicato la vita a cittadini e imprese, e dilatato i tempi e i costi delle decisioni. Questo problema si risolve definendo meglio chi decide e su che cosa, non imponendo semplicemente una gerarchia tra le leggi. Su questo occorrerà intervenire.

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