Il reddito disponibile reale delle famiglie italiane è diminuito del 13 per cento tra il 2007 e il 2013. E la distribuzione dei consumi si è spostata verso il basso per tutte le classi di spesa. La recessione ha colpito i giovani molto più degli adulti e degli anziani. La crisi e la diseguaglianza.
RICCHEZZA E REDDITI FAMILIARI IN DISCESA
Tra il 2007 e il 2013, il reddito disponibile reale delle famiglie italiane è diminuito del 13 per cento in termini pro capite, tornando ai livelli del 1988, mentre la loro spesa per consumi è scesa del 10 per cento (figura 1). Fino al 2012, la ricchezza reale netta ha registrato un calo del 10 per cento. Un peggioramento dei bilanci familiari così forte per intensità e durata non ha precedenti dal secondo dopoguerra.
Durante la crisi finanziaria globale del 2008-09, il reddito disponibile delle famiglie si è ridotto meno del Pil, grazie anche al sostegno dei trasferimenti netti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Questo sostegno, pur inferiore a quello osservato nella maggior parte dei paesi avanzati nello stesso periodo, è venuto a mancare durante la crisi dei debiti sovrani del 2011-13, segnata dal considerevole consolidamento delle finanze pubbliche. (1)
Oltre al calo dei redditi, le famiglie hanno subito considerevoli perdite in conto capitale sul valore della loro ricchezza, finanziaria e reale. Questo peggioramento delle finanze familiari e, di conseguenza, delle condizioni di vita è stato diffuso o ha colpito alcuni più di altri?
CHI È STATO COLPITO DALLA RECESSIONE
La distribuzione dei consumi si è complessivamente spostata verso il basso, colpendo tutte le classi di spesa. Le indagini dell’Istat sui bilanci familiari indicano che, tra il 2002 e il 2007, la spesa per consumi equivalente (ovvero comparabile in termini di benessere tra famiglie di numerosità diversa) è aumentata in media del 4 per cento, in maniera abbastanza uniforme tra i vari decili (figura 2). (2) Nel quinquennio 2008-12 è invece diminuita assai più agli estremi della distribuzione che nella parte centrale: per un calo medio del 10 per cento, il primo decile è diminuito del 14 per cento e il nono del 12 per cento, mentre il sesto scendeva del 7 per cento. Per effetto di questa sostanziale simmetria, l’indice di Gini, una misura sintetica della disuguaglianza compresa tra 0 e 1, è rimasto stabile intorno al 31 per cento. Si può ipotizzare che tra i più poveri il calo dei consumi abbia riflesso soprattutto l’inadeguatezza della rete di protezione sociale e la debolezza del mercato del lavoro, mentre tra i più ricchi abbia particolarmente risentito della caduta dei rendimenti del patrimonio, effettivi e in conto capitale.
Il peggioramento nella parte alta della distribuzione della spesa per consumi si è manifestato in una riduzione degli indici di agiatezza: la quota di persone con una spesa reale equivalente superiore a quattro volte il valore pro capite è diminuita dall’8 per cento nel 2007 al 7 per cento nel 2012, al 5 per cento se lo standard di riferimento è la spesa reale del 2007. Il peggioramento nella parte bassa della distribuzione si è riflesso in un aumento degli indici di povertà relativa, soprattutto nell’ultimo biennio, quando la quota di persone povere è aumentata dal 14 per cento nel 2011 al 17 per cento nel 2013. Il deterioramento degli indicatori di povertà relativa è però attutito dalla continua riduzione di uno standard di riferimento commisurato alla spesa media. Se si fissa questa soglia di riferimento in termini reali, il peggioramento delle condizioni di vita per i ceti meno abbienti appare in tutta la sua gravità: l’incidenza della povertà assoluta raddoppia dal 4 per cento delle persone residenti nel 2007 all’8 per cento nel 2012. I dati appena diffusi dall’Istat indicano un ulteriore, notevole aumento al 10 per cento nel 2013. (3)
Le statistiche dell’indagine della Banca d’Italia confermano l’intensità dell’aggravamento dei bilanci familiari nel periodo recente, ma suggeriscono come l’aumento dei tradizionali indicatori di disuguaglianza sia stato complessivamente contenuto, se raffrontato alla contrazione dei livelli di reddito. In termini reali, dopo essere aumentato dell’11per cento dal 2000 al 2006, il reddito equivalente è diminuito del 14 per cento dal 2006 al 2012 (figura 3); in questo secondo periodo, la ricchezza netta equivalente è scesa di quasi il 6 per cento. Tanto per i redditi quanto per la ricchezza, la contrazione è stata più sostenuta per le classi più povere che per quelle centrali e più ricche. Ne è derivato un aumento dell’indice di Gini, modesto per il reddito e più forte per la ricchezza. La considerazione congiunta di reddito e ricchezza mostra che si è molto ampliata una fascia di popolazione particolarmente vulnerabile perché non ha risorse patrimoniali sufficienti per far fronte alla modestia delle loro entrate. È cresciuta dall’8 per cento nel 2006 all’11 per cento nel 2012 la quota degli individui per cui sia il reddito sia la ricchezza non raggiungono un livello minimo per permettere una vita decorosa.
L’aumento della povertà, relativa e assoluta, non si è associato a mutamenti sostanziali della composizione socio-demografica della popolazione povera: il peggioramento è stato generalmente maggiore per le categorie che già mostravano un’incidenza più alta, come per esempio i residenti nel Mezzogiorno e chi vive in un’abitazione in affitto. Con un’eccezione: la recessione ha colpito i giovani assai più degli adulti e, soprattutto, degli anziani. Gli over-65 che vivono soli e le coppie senza figli in cui il capofamiglia ha almeno 65 anni sono le uniche due tipologie familiari a non aver registrato un incremento degli indici di povertà tra il 2007 e il 2012. Nello stesso tempo, si è ulteriormente accentuata la presenza di famiglie giovani (in cui il capofamiglia ha meno di 40 anni) nel quinto più povero della distribuzione del reddito equivalente, a scapito della loro presenza nel quinto più ricco; un’analoga tendenza si osserva per la distribuzione della ricchezza netta equivalente. Ciò non sorprende, dato che gli anziani risentono meno delle condizioni avverse sul mercato del lavoro e sono relativamente meglio protetti da un sistema come quello italiano in cui manca uno strumento di sostegno alle famiglie non anziane in condizioni di povertà.
Il diffuso peggioramento dei bilanci familiari è la conseguenza del duraturo e pronunciato rallentamento dell’economia italiana. L’arretramento delle condizioni di vita dei più poveri riflette la debolezza delle politiche sociali italiane; dipende in larga misura dall’erosione della capacità delle famiglie italiane di generare reddito, più che da un aumento della diseguaglianza durante la crisi. Questa considerazione non deve però farci dimenticare che la disuguaglianza dei redditi è, da tempo, molto più alta in Italia che negli altri paesi dell’Europa continentale e settentrionale, né soprattutto attenua la preoccupazione per le sorti delle famiglie più deboli.
Figura1 – Pil e finanze delle famiglie, 1960-2013 (a prezzi costanti e pro capite)
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.
Figura 2 – Variazioni della spesa per consumi equivalente delle famiglie, per decili (%).
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Indagine sui consumi delle famiglie.
Figura 3 – Variazioni del reddito equivalente delle famiglie, per decili (%).
Fonte: Elaborazioni su dati Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane.
* Questo articolo riassume risultati discussi più estesamente in A. Brandolini, “Il Grande Freddo. I bilanci delle famiglie italiane dopo la Grande Recessione”, in Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 2014, a cura di C. Fusaro e A. Kreppel, Bologna, Il Mulino, 2014. Le opinioni qui espresse sono soltanto quelle dell’autore e, in particolare, non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia.
(1) Cfr. S.P. Jenkins, A. Brandolini, J. Micklewright e B. Nolan, The Great Recession and the Distribution of Household Income, Oxford, Oxford University Press, 2013.
(2) Un decile è un valore di spesa equivalente che separa due successivi decimi della popolazione classificata in ordine crescente per spesa equivalente: il 10% più povero spende in consumi meno del primo decile, mentre il rimanente 90% spende di più, e così per i decili successivi.
(3) Istat, La povertà in Italia. Anno 2013, Statistiche Report, 14 luglio 2014.
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Massimo Gandini
i pensionati sono, con i dipendenti statali ,gli unici in Italia ad avere la certezza del reddito e con tale certezza è difficile peggiorare la propria condizione, anzi nei periodi di crisi paradossalmente tenderà a migliorare. Questa situazione dovrebbere portare a fare qualche riflessione a chi di dovere
Bumblebee
Per i pensionati, oggi quale certezza del reddito, se da quasi ormai un decennio l’importo della pensione non viene rivalutato in relazione all’incremento del costo della vita, ed ogni sei mesi persone apparentemente responsabili – compresi alcuni accademici che scrivono su questo sito – propongono (contro l’art. 53 della Costituzione) di tagliare le pensioni superiori ad un minimo, indicato di importo bassissimo (per es. 2000 euro lordi mensili, pari a circa 1500 netti)?
Trattati così, i pensionati, nell’incertezza del futuro, limitano le spese e contribuiscono, insieme con gli altri contribuenti incerti della futura tassazione, alla stagnazione del paese. L’incertezza sulla tassazione e sui redditi futuri, come già segnalato da Adams Smith, produce depressione dell’economia, come ci ha dimostrato anche di recente la disastrosa esperienza del governo Monti. Anche Renzi, nonostante i proclami, continua ad aumentare la pressione fiscale (vedi aumento della tassazione sugli interessi bancari e sui dividendi in vigore dal 1 luglio 2014.)
Massimo Gandini
Già il fatto che la pensione in Italia si percepisca mediamente per 25 -30 anni, almeno fino ad ora, è qualcosa di assolutamente anomalo. In futuro problemi di rivalutazioni delle pensioni non ci saranno, semplicemente si percepirà assai poco per pochissimi anni. Comunque c’è una bella differenza tra l’incertezza dell’adeguamento di un reddito certo e l’incertezza di rimanere di li a qualche mese senza nessun reddito, questo stato d’animo è ormai assai comune tra i lavoratori attivi.
Bumblebee
E’ “anomalo” il fatto che la legislazione italiana, nata negli anno ’70, in cui i falsificatori di moneta sedevano in Parlamento e alla Banca d’Italia, hanno stabilito che la pensione dovesse coprire l’80% dell’ultima retribuzione (promessa rischiosa e impossibile da mantenere), invece di stabilire un sistema in cui la pensione pubblica coprisse solo un minimo vitale, lasciando alla previdenza individuale il resto.
Fino a che i bilanci pubblici italiani saranno gravati di oneri futuri insopportabili, rimarrà sempre il dubbio che tali promesse vengano onorate.
Non per niente, molti sconsiderati, oggi, gridano che l’Italia dovrebbe tornare alla lira, sottintendendo che con la lira si tornerebbe anche alla politica della stampa di moneta e all’inflazione a 2 cifre.
Comunque, se è anomalo che “si percepisca la pensione per 25-30 anni”, si potrebbe adottare un sistema alla Swift. Per esempio, al pensionato che avesse raggiunto un termine di 15 anni il governo potrebbe consegnare una pillola magica per l’aldilà, risolvendo così brillantemente il problema della copertura del bilancio pubblico.
Massimo Gandini
Evidentemente si andava in pensione troppo presto (35 anni di lavoro per la pensione di anzianità a prescindere dall’età ,era un requisito demenziale , ora è tutto superato). Comunque attualmente avere in casa il nonno con la pensione di anzianità retributiva certissima è molto meglio che avere il co.co.pro. dai redditi modesti e assolutamente incerti, direi aleatori.
Enrico
e si lamentano pure
Piero
Finalmente, qualcuno che ha coscienza della realtà. Tutto ciò grazie alla politica monetaria di Draghi che, volendo affamare gli stati, ha drenato la liquidità all’economia reale e quindi ha messo in difficoltà sia le famiglie che le imprese.
Maurizio Cocucci
Caro Sig.Piero, supponendo che Mario Draghi sia un folle la cui missione sia quella di affamare i popoli, tra cui il suo Paese, egli dovrebbe essere in buona compagnia visto che le decisioni in materia di politica monetaria in seno alla Bce non le prende il presidente ma il Consiglio Direttivo in maggioranza, Consiglio che è costituito dai governatori delle banche centrali nazionali dei Paesi facenti parte dell’euro (18) più i membri del Comitato Esecutivo (6). Considerando che al momento ogni membro ha un voto che vale uno, ne consegue che Draghi riesce quantomeno a convincere almeno altri 12 membri a condividere l’amore per la linea che Lei critica così ampiamente. Ma i fattori ci raccontano che egli va ben oltre visto che quasi sempre le decisioni prese sono state votate all’unanimità. Quelle poche volte che vi è stata una opposizione chi ha votato contro? I rappresentanti tedeschi, soprattutto il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Strano, perché secondo la tesi che Lei ama ripetere spesso Draghi condurrebbe una politica monetaria filo tedesca. Qualcosa non mi quadra.
Maurizio Cocucci
PS. Chiedo scusa per gli errori, purtroppo i correttori da una parte sono utili ma se si scrive velocemente e non si controlla attentamente il testo prima di dare la conferma si corre il rischio di commettere qualche gaffe.
Piero
Non è un folle, solo che risponde alla Merkel, l’euro forte è un dogma tedesco, al quale mai saranno disponibili a rinunciare.
Maurizio Cocucci
I tedeschi non hanno mai sostenuto un dogma del genere, semmai loro sono per un livello stabile dei prezzi e per una moneta il cui tasso di cambio venga definito dal mercato e non influenzato artificiosamente. Se il marco ieri e l’euro oggi hanno un valore alto in relazione ad altre monete dipende prevalentemente dai saldi delle partite correnti, in gran parte condizionati dai saldi commerciali, che influiscono sulla domanda e offerta delle varie monete. Se infatti guarda tali saldi per gli Stati Uniti vedrà che sono sempre stati negativi mentre quelli della Repubblica Federale Tedesca e oggi dell’Eurozona sono viceversa positivi. Da qui la forza relativa dell’euro sul dollaro. Draghi ribadisco non può prendere alcuna decisione se non viene approvata dal Consiglio Direttivo in maggioranza quindi affermare che esegua una politica del governo tedesco è pura fantasia. Chiediamoci semmai se adottare una politica monetaria diversa possa venire incontro alle necessità dell’economia dell’Europa e dell’Italia in particolare. Per quanto mi riguarda assolutamente no e questo perché una manovra ad esempio di Quantitative Easing non avrebbe quelle conseguenze ipotizzate per il fatto che mentre negli Usa e in Gran Bretagna dove è stata attuata c’era e c’è una domanda sana, qui invece è profondamente azzoppata e non per via della politica della Bce ma per le troppe tasse che tolgono il fiato alle imprese e ai cittadini consumatori ai quali è stato ridotto il reddito disponibile.
Piero
La forza dell’euro deriva dalla forte politica monetaria espansiva fatta dalla Fed ma non dalle esportazioni. L’America ha indebolito il dollaro per finanziare il suo debito, tutto qui.
Guest
I fondi Europei non esistono; frase multidimensionale. Non esistono intanto perché li pagano i contribuenti italiani, in toto, anzi in surplus, almeno da quando il Sig. Craxi decise che per dimostrare quanto era spacasi, avrebbe fatto pagare a generazioni di Italiani una cinquantina di miliardi di Sterline alle bisognose casse del governo britannico (vedi http://en.wikipedia.org/wiki/UK_rebate).
Ma non esistono anche come panacea. Il bilancio della UE é meno dell’1% del PIL Europeo. Se si pensa che si possa risollevare con la spesa pubblica una economia come quella italiana, i fondi “europei” spesi nel Bel Paese valgono lo 0.6%-0.7% del PIL italiano, per quanto miliardi di Euro, stiamo parlando di una minuscola parte della spesa pubblica italiana. Se il 50% del PIL di spesa pubblica non basta a far sviluppare con quelle politiche regioni come la Sardegna, la Sicilia, la Campania, la Calabria e via dicendo, cosa otterrá uno 0.6% in piú?
Nel caso italiano, sarebbe opportuno che il governo, un governo qualsiasi, imponesse ai partner europei l’uso esclusivo di tutti i contributi italiani per l’abbattimento del debito publico italiano, almeno finché non si raggiunga il 60% del PIL.
Maurizio Cocucci
Non guardi il cambio euro/dollaro degli ultimi due o tre anni, prenda un orizzonte più ampio e sovrapponga i saldi delle partite correnti, vedrà che arriverà alla medesima conclusione che le ho prospettato.
marcello
Osservo che c’è una rilevante discordanza tra i dati che questo articolo e quanto comunicato dal rapporto sull’indice di Gini e la disuguaglianza sociale nell’UE, dove per l’Italia l’indice di Gini viene dato a 0,34 al pari della gran Bretagna, non 0,31. Inoltre il recente studio dell’Eurostat, confermato dai dati Istat, indica un ben più polarizzata distribuzione del reddito. Il rapporto sulla povertà dell’Istat indica che in un anno il numero di poveri assoluti è cresciuto di oltre un milione di individui e la quota dei giovani si è triplicata e dei meno giovani duplicata, mentre quella degli anziani è rimasta pressoché costante. Infine andrebbe anche considerata la variazione della ricchezza delle famiglie, che avendo quasi il 70% in immobili, scontano la riduzione dei valori in conseguenza della caduta del mercato, fenomeno che al di fuori delle grandi metropoli ha assunto le dimensioni di un vero e proprio crollo. Forse non è un caso che si pensi di introdurre il mutuo liquidità! Infine il rapporto sulla povertà della Caritas indica che le politiche dei Governi, fino al 2012, comprese quelle sull’imposizione hanno peggiorato la condizione delle famiglie in difficoltà.
Pif
Vorrei capire, se il reddito lordo dal 90 è rimasto costante mentre il PIL cresceva vuol dire che qualcuno si è appropriato del prodotto e agli altri è rimasto poco ? La divaricazione tra propensione al risparmio e consumi significa abbiamo continuato a consumare mentre il reddito non cresceva e ci siamo giocati la possibilità di risparmiare ?
Piero
I giornali sono oramai un bollettino di guerra, l’aumento del Pil atteso per il 2014 come avevo già annunciato non vi sarà, al contrario vi sarà una diminuzione, cosa faranno i nostri politici? Il ministro Padoan afferma che non farà nessuna manovra, qui dobbiamo essere chiari, onesti e corretti con i cittadini, come possiamo promettere ciò? Certo se non rispettiamo il fiscal compact, andiamo in collisione con la politica europea, se ciò deve essere il futuro, perché non andare in collisione subito con la Merkel e salvare, magari qualche vita umana italiana e qualche impresa? La scelta a Renzi.
Piero
A livello edilizio siamo ritornati al 1967, i poveri sono raddoppiati, i fallimenti più alti degli ultimi anni, la disoccupazione più elevata degli ultimi 30 anni, dove dobbiamo arrivare per cambiare pagina? Parliamo ancora di corruzione, evasione ecc, si sono mali che vanno estirpati subito ma non sono la soluzione del problema ne sono la causa principale della crisi. Il governo deve aprire gli occhi se è in buona fede, la riforma costituzionale ( che va fatta subito) non risolve il problema delle famiglie e delle imprese, da quel lato vedo solo propaganda. Quando durerà? Io penso che settembre possa essere la svolta a. Livello europeo, qualche stato alzerà la testa e farà saltare tutto il meccanismo perverso introdotto con il Six-pack e il Tsgc, salterà la testa di Draghi se non cambia la politica monetaria (deve essere una vera politica monetaria espansiva, solo il QE può garantire in questo momento l’incremento della liquidità nel sistema economico) e finalmente vi sarà il cambiamento, oppure in alternativa, ogni stato farà la sua strada.
Maurizio Cocucci
L’evasione fiscale ha diverse stime, chi ipotizza 180 miliardi, chi 120 (ISTAT e Agenzia delle Entrate). Prendiamo la seconda e ipotizziamo che sia sovrastimata, diciamo del 100%, quindi dividiamo per 2 il valore ottenendo così 60 miliardi annui. Ipotizziamo di riuscire a recuperare metà di questo importo, 30 miliardi, e di averlo potuto fare da quando siamo nell’eurozona. Rettifichiamo pure i singoli valori annui per le stime corrispondenti visto che in passato l’entità dell’evasione era inferiore e rapportiamo pure al Pil di ciascun anno. In definitiva possiamo ipotizzare che avremmo un importo non inferiore a 300 miliardi a disposizione. Basta per ipotizzare un taglio e ridistribuzione del carico fiscale? Sempre secondo le stime di organi competenti si afferma che l’entità dell’evasione fiscale era di circa 8% negli anni ’80 mentre oggi sarebbe del 18%. Al di la del valore percentuale preciso è indubbio che l’evasione è aumentata considerevolmente e per importi rilevanti, come l’esempio che ho fatto dimostra, il cui ammontare sarebbe sufficiente a permetterci ampi margini di manovra a favore dei cittadini (taglio carico fiscale, welfare, riduzione debito pubblico ecc…). Vogliamo poi fare lo stesso ragionamento per corruzione, frodi legate alla politica quali ad esempio i rimborsi fasulli o ingiustificati che la cronaca ci ha messo al corrente?
Piero
L’evasione fiscale e’ una malattia che va combattuta, però dispiace dirlo, a livello macroeconomico non cambia nulla, con l’evasione vi è una ingiustizia sociale, una classe (i lavoratori dipendenti) paga le tasse al 100%, le rimanenti classi si liquidano le imposte come vogliono. Non voglio difendere tale status, ma se eliminiamo l’evasione si farà una giustizia sociale, si avrà un’aumento delle entrate che comporterà una diminuzione delle aliquote e quindi il gettito totale e’ lo stesso, non si può pensare di volere tassare le classi che possono dichiarare il reddito liberamente con le aliquote attuali, nessuno nel mondo vuole pagare le tassi al livello attuale, vedi le multinazionali, pagano max il 5% sul reddito complessivo ( caso Apple), la classe dei lavoratori dipendenti hanno un reddito medio di 30 mila, la tassazione media e’ del 20% con le detrazioni, i dipendenti che hanno i mega stipendi(manager, dirigenti ecc) trattano, al momento dell’assunzione il compenso netto, per loro il problema delle tasse preoccupa il loro datore di lavoro ma non loro stessi.