A Bruxelles si discute l’ennesima riforma della politica agricola comune. Come da copione, l’Italia chiede nuovi sussidi. Ma ancora una volta il dibattito elude il punto cruciale: leccessiva protezione accordata allagricoltura fin dalla istituzione del Mercato Comune. Prezzi dei prodotti alimentari più alti e una struttura produttiva inefficiente sono i risultati. Che finiscono per penalizzare gran parte degli agricoltori italiani. In questi giorni si stanno negoziando a Bruxelles le modalità della ennesima “riforma della politica agricola comunitaria (Pac)” e il nostro ministro sta “difendendo gli interessi italiani” condizionando l’accettazione del negoziato alle sue richieste di maggiori sussidi al grano duro, alla zootecnia da carne e da latte. Sin dall’istituzione della Pac, i nostri operatori politici e la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica hanno sempre confuso gli “interessi italiani” con gli interessi contingenti di alcuni gruppi di agricoltori: vogliamo più protezione, maggiori aiuti a questo o quel comparto produttivo. È quasi sempre mancata una prospettiva veramente “nazionale” o “comunitaria” che tenesse in considerazione gli interessi di tutti i cittadini anche nella loro veste di consumatori e di contribuenti, ed è mancata una prospettiva di lungo termine, che non badasse solo al beneficio immediato degli aiuti ai produttori, ma tenesse conto anche degli effetti sulla struttura produttiva. La politica lattiero casearia comunitaria, caduta da due decenni nella trappola delle quote latte, è uno degli esempi più evidenti di una persistente e miope cura dei sintomi, che non affronta mai le cause vere del male. In queste ultime settimane abbiamo assistito a un lungo dibattito sulle quote latte, nel nostro Parlamento e a Bruxelles. Purtroppo, come accade quasi sempre nelle discussioni di politica agraria, questo dibattito è rimasto circoscritto a questioni contingenti e tecniche: come pagare le multe inflitte ai produttori italiani per aver superato i limiti di produzione, in quanti anni, a che tasso di interesse. I problemi di fondo della giustificazione economica di queste quote di produzione, dei loro costi e benefici per gli allevatori e per la collettività, degli effetti che hanno sullo sviluppo dell’agricoltura e dell’economia più in generale non sono stati affrontati. La radice del problema La vera causa del male è l’eccessiva protezione accordata a questo comparto produttivo fin dalla istituzione della Comunità economica europea e il conseguente ritardo nell’aggiustamento strutturale delle imprese. Nei primi anni Sessanta, invece di realizzare una tariffa doganale comune pari alla media ponderata di quelle vigenti nei quattro Paesi fondatori (Francia, Germania Federale, Italia e Benelux) come previsto dall’articolo 19 del Trattato di Roma, la protezione agricola comune venne fissata a livelli molto più elevati, vicini alle tariffe doganali tedesche e italiane. Per evitare una ristrutturazione delle aziende agricole, si istituì un mercato comune agricolo con prezzi interni molto più alti di quelli correnti sul mercato internazionale, a spese dei consumatori, mantenendo in attività una miriade di piccole imprese inefficienti con elevati costi di produzione e aumentando le rendite fondiarie delle imprese più grandi ed efficienti. Nei quarant’anni successivi questo peccato originale non è mai stato riparato: le organizzazioni dei produttori si sono perennemente battute per mantenere alti i prezzi sul mercato interno. Ancora oggi, l’Ocse stima che il prezzo comunitario del latte sia oltre il 50 per cento più alto del prezzo alla frontiera. Le eccedenze erano già insostenibili alla fine degli anni Sessanta, quando le famose montagne di burro e di latte scremato in polvere, in parte deteriorate per il lungo immagazzinamento, venivano svendute all’Unione Sovietica a prezzi che non pagavano nemmeno i costi di trasporto. Il costo per il bilancio europeo di questo smaltimento delle eccedenze era però abbastanza visibile e non gradito all’opinione pubblica. Si pensò quindi di sussidiare le esportazioni, pagando col denaro dei contribuenti la differenza fra prezzo interno e quello internazionale, nonostante l’opposizione di principio del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) a questa forma sleale di commercio. Anziché ridurre il sostegno del prezzo di mercato, si trovarono altri strumenti per “smaltire le eccedenze”. Per esempio, la sovvenzione delle vendite di latte in polvere sul mercato interno, che però si rivelò un boomerang. Riducendo a spese del contribuente il prezzo del latte in polvere, si indussero gli allevatori a alimentare i vitelli con latte rigenerato, aumentando di conseguenza la quantità munta, l’offerta sul mercato, e le eccedenze. Le reazioni dei partners commerciali, specialmente in sede Gatt, finirono col porre un argine ai sussidi alle esportazioni. Fu allora che, invece di ridurre la protezione alla frontiera, si introdussero le quote di produzione, in una Comunità europea che era nata per favorire la libertà di impresa, l’allargamento dei mercati e la concorrenza. Peggio di un monopolio Porre vincoli quantitativi a ogni produttore per ridurre l’offerta interna e mantenere alti prezzi di mercato non è giustificabile né sul piano economico né su quello etico. Tanto più se si considera che l’aumento dei prezzi di prodotti alimentari di base è una tassa regressiva rispetto al reddito che colpisce maggiormente le famiglie più povere che spendono una larga parte del loro bilancio familiare in prodotti alimentari. I tanto vituperati monopoli fissano solo il prezzo (o la quantità), lasciando ai consumatori la determinazione della quantità da consumare (o del prezzo di mercato, se la quantità è fissa). Nel caso delle quote latte, il Consiglio dei ministri fissa contemporaneamente sia il prezzo di mercato che la quantità da produrre: tutte le inefficienze e i costi relativi si scaricano sui cittadini nella loro veste di consumatori o di contribuenti, come avviene solo nelle ormai poche economie centralizzate rimaste sul pianeta. Con l’introduzione delle quote di produzione si sono ridotti i costi di bilancio “visibili”, che derivavano dalla distruzione delle eccedenze o dai sussidi alle esportazioni, ma non si è certo ridotto il costo economico complessivo per la collettività. Gli imprenditori agricoli sono vincolati nella quantità da produrre e la struttura produttiva deve continuamente adattarsi a decisioni amministrative prese a Bruxelles, con un aumento dei costi medi di produzione e un forte freno all’aggiustamento strutturale delle imprese. Questa situazione finisce col penalizzare molto di più le economie che hanno una struttura produttiva inefficiente. Quanto sono diverse Italia e Olanda Mettiamo a confronto l’attuale struttura produttiva dell’Italia e quella dell’Olanda che, prima dell’istituzione della Comunità europea, si era sviluppata in un mercato non protetto. La produzione di latte italiana è praticamente uguale a quella olandese, di poco superiore alle 10 mila tonnellate, con un numero di unità bestiame simile, due milioni e mezzo di capi. Se passiamo ad analizzare la struttura produttiva, il quadro è invece radicalmente differente. In Italia abbiamo il doppio di imprese (55mila contro 27mila), e quasi il doppio di impiego di lavoro (106mila contro 51mila unità lavoro anno – Ula). Questi indicatori strutturali lasciano già prevedere una bassa produttività per impresa e per unità lavoro. Nei Paesi Bassi il margine lordo standard per unità lavoro è infatti oltre il 40 per cento più alto che in Italia, margine più che doppio se riferito all’azienda media. Differenze di quest’ordine valgono anche per vari altri comparti produttivi, non è per caso che i redditi agricoli in Olanda sono di gran lunga superiori ai redditi non agricoli. Analizzando più in dettaglio la distribuzione delle aziende per classi di dimensione economica, vediamo che le nostre aziende sono concentrate nelle classi di piccole dimensioni, dove la produttività delle risorse è molto bassa per mancanza di economie di scala. Queste economie crescono in modo particolare passando dalle piccole alle imprese di media dimensione, per intenderci ad aziende con un margine lordo superiore ai 40mila euro all’anno. In Italia meno della metà delle aziende supera questa dimensione, mentre in Olanda la supera oltre il 95 per cento delle aziende. Non si può comunque dire che le aziende olandesi siano troppo grandi, perché nella classe di ampiezza superiore ai 250 mila euro di margine lordo, noi abbiamo una percentuale di aziende e di forza lavoro maggiore. Prescindendo dal fatto che per ogni classe di ampiezza la produttività olandese è maggiore di quella italiana, per vari motivi tecnici ed economici, e pur mantenendo la nostra produttività, ma modificando la distribuzione delle nostre aziende per classi di ampiezza, adattandola alla situazione olandese, potremmo aumentare il reddito lordo della nostra forza lavoro di oltre il 50 per cento. È quindi evidente che ritardare l’aggiustamento strutturale del settore lattiero e dell’agricoltura in generale è estremamente dannoso non solo per i cittadini che pagano prezzi più alti per il prodotto e maggiori tasse per finanziare i sussidi diretti, ma anche per gli addetti agricoli che si vedono condannati in media a una bassa produttività, a bassi redditi e a un permanente bisogno di sostegno pubblico. Chissà se il semestre di Presidenza italiana favorirà un cambiamento di fondo dell’attuale impostazione della politica agraria comune, riducendo protezione e sussidi effimeri e favorendo un rapido aggiustamento strutturale, nell’interesse non solo dei cittadini europei, ma anche di una gran parte degli agricoltori italiani.
Fino agli anni Novanta, oltre che della politica di sostegno dei prezzi, abbiamo almeno parlato della politica delle strutture, senza peraltro realizzare qualcosa di consistente: ora non se ne parla nemmeno più.
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anonimo
Buon articolo. Abbastanza chiaro.