L’Italia è un Paese di immigrazione recente. Per questo sarebbe utile discutere di politiche dell’immigrazione guardando all’esperienza internazionale, a quanto accaduto in Paesi che da decenni vivono questo problema. Ai lettori riproponiamo alcuni articoli pubblicati da lavoce.info, che possono favorire una discussione informata e meno provinciale sul tema.

Immigrazione illegale: leggi italiane e lezioni dagli Stati Uniti, di Tito Boeri e Antonio Spilimbergo (12-09-2002)

Dal 10 settembre è in vigore la nuova legge (Bossi-Fini) sull’immigrazione ed è partita la mega-sanatoria per colf, badanti e lavoratori dipendenti. Due leggi che non serviranno a ridurre l’immigrazione clandestina e che hanno, al contrario, contribuito ad alimentare i forti flussi di immigrazione illegale registrati negli ultimi mesi. Ce lo insegnano decenni di misure volte a contenere l’immigrazione clandestina fra Messico e Stati Uniti, i cui effetti sono stati monitorati molto più attentamente di quanto si faccia dalle nostre parti.

Quattro le strategie perseguite negli Stati Uniti per ridurre l’immigrazione clandestina: (1) l’irrigidimento dei controlli alle frontiere; (2) le sanatorie; (3) le misure volte a favorire gli scambi commerciali con i paesi di provenienza degli immigrati; (4) le sanzioni per chi assume illegalmente manodopera immigrata. Le prime due strategie si sono rivelate inefficaci se non addirittura controproducenti. La terza e la quarta – gli aiuti al Messico e i controlli sul posto di lavoro – hanno invece avuto qualche effetto, ma sono anche le politiche meno appetibili per gli elettori e, dunque, quelle perseguite con minore convinzione dai governi che si sono sin qui succeduti oltreoceano.

Controlli alle frontiere: costosi e inutili

Il controllo alle frontiere è molto costoso e non serve a contenere l’immigrazione clandestina. Il numero delle ore di pattugliamento della polizia di frontiera negli Stati Uniti è aumentato più di 6 volte nel giro di 30 anni (da 80.000 negli anni ‘60 a circa 500.000 alla fine degli anni 90), sono state investite ingenti risorse nell’acquisto di elicotteri e strumenti per i controlli notturni. Di conseguenza sono aumentati gli arresti alla frontiera, ma i flussi dell’immigrazione clandestina sono rimasti invariati. Qualcosa di simile è avvenuto da noi negli ultimi mesi: è aumentato il numero di “stranieri allontanati” nei primi 8 mesi del 2002 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+ 9.000), ma i flussi non sono diminuiti. Al contrario, gli sbarchi sono aumentati di quasi 4.000 unità. I controlli alle frontiere costano molto: si calcola che il governo federale statunitense spenda circa 1.000 dollari per ogni clandestino preso alla frontiera. Perché spendere così tanto in misure palesemente inefficaci? Perché sono interventi molto appariscenti, di cui da ampia eco la stampa. Le operazioni ‘Hold the Line’ a El Paso alla fine del 1993 o “Gatekeeper” a San Diego nel 1995, ad esempio, sono state tra le più inutili e al tempo stesso maggiormente pubblicizzate a mezzo stampa della storia degli Stati Uniti. Effetti sui flussi? Nulli.

Le sanatorie alimentano l’immigrazione clandestina

Per capire cosa probabilmente accadrà da noi nei prossimi anni bisogna tornare più indietro nel tempo. Nel 1986, gli Stati Uniti hanno lanciato una mega-sanatoria per i clandestini già presenti nel paese, accompagnata da pene severe per chi impiegava immigrati non regolarizzati e da un incremento dei controlli alla frontiera. La filosofia dell’operazione era molto simile a quella delle misure adottate dal nostro governo: regolarizzazione di chi è già dentro e lavora onestamente, tolleranza zero per chi d’ora in poi cercherà di entrare senza permesso. Più di due milioni di clandestini sono stati, in questo modo, regolarizzati. Innumerevoli e ben documentati i casi di abuso mentre sorgeva una vera e propria industria in grado di fornire `prove’ di residenza ai clandestini che volevano essere regolarizzati. Diversi studi hanno documentato come la sanatoria abbia finito per far aumentare gli arrivi di clandestini. Perché? Molti hanno deciso di emigrare proprio per approfittare della sanatoria: chi pubblicizza la sanatoria (come fa Bossi in questi giorni) come una misura eccezionale e irrepetibile ottiene i risultati opposti a quelli sperati: da gennaio a Ferragosto 2002 gli sbarchi in Puglia, Calabria e Sicilia sono aumentati di un terzo, con un’inversione di tendenza rispetto alla dinamica degli anni precedenti.

Gli Stati Uniti hanno cambiato politica

Dopo il fallimento della sanatoria, gli Stati Uniti hanno cambiato radicalmente le politiche sull’immigrazione, rafforzando gli scambi commerciali col Messico. Dapprima “hanno importato più pomodori e meno Messicani”, poi hanno siglato un accordo di libero scambio, il North-American Free Trade Agreement (NAFTA), con Canada e Messico. Nel corso degli anni ‘80 e ‘90 l’industria Maquiladora alla frontiera con gli Stati Uniti ha attratto un crescente numero di lavoratori e il NAFTA ha contribuito a contenere le pressioni migratorie.

Efficaci i controlli sui posti di lavoro

Quando la convergenza economica dei paesi d’origine è troppo lenta e non si riesce ad accelerarla, l’unico modo per contenere l’immigrazione clandestina consiste nell’effettuare controlli capillari sui posti di lavoro. La grande maggioranza degli immigrati si sposta per motivi di lavoro. Un immigrato clandestino passa la frontiera una volta sola, ma si reca al lavoro ogni giorno. Quindi è molto più facile scovarlo lì che alla frontiera. Ma questo tipo di controllo è impopolare. Controlli severi e a tappeto possono mettere in crisi molte piccole imprese. L’opinione pubblica, inoltre, fatica a capire perché si vada in cerca proprio degli immigrati impiegati in attività oneste, lasciando magari in pace chi tra di loro non lavora. Su tutto il territorio degli Stati Uniti nel 1998 sono state comminate solo 9 multe superiori a 20.000 dollari a datori di lavoro che impiegavano clandestini e ci sono solo 300 agenti addetti al controllo sui posti di lavoro in confronto agli 11.000 lungo le frontiere.

E noi?

Morale della favola: la tolleranza zero predicata in questi giorni non è credibile e la sanatoria rischia ora solo di alimentare aspettative di nuove sanatorie in futuro. Dunque probabili nuovi flussi clandestini, se quelli legali non verranno ammessi. Meglio allora stabilire al più presto quote realistiche di flussi regolari, tali da soddisfare la fame di lavoratori delle imprese soprattutto del Nord-est. E chiedere poi agli imprenditori di non osteggiare i controlli o, ancora meglio, di collaborare alla repressione dell’impiego illegale di manodopera straniera.

* Opinioni espresse a titolo personale.

Per saperne di più:

Gorge J. Borjas: “Heaven’s door: the immigration policy and the American economy”, Princeton University Press.

“Immigration Policy and the Welfare System”, Oxford University Press, versione italiana pubblicata da Università Bocconi Editore.

Protezionismo e immigrazione clandestina: due facce della stessa medaglia?, di Riccardo Faini (02-12-2002)

E’ innegabile: il protezionismo alimenta l’immigrazione. Quando si aggiunge a restrizioni nei flussi migratori regolari, il protezionismo genera immigrazione clandestina. L’Europa deve tenerne conto, soprattutto con un allargamento verso i paesi più poveri alle porte. Per contenere i flussi migratori, bisogna avere il coraggio di smantellare le barriere commerciali che tuttora proteggono l’Europa dalla competizione dei paesi d’origine degli immigrati.

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Il dibattito attuale tra le due sponde dell’Atlantico

Gli Stati Uniti si sono appena fatti promotori, nell’ambito dei negoziati commerciali di Doha, di una proposta estremamente ambiziosa, volta ad abolire completamente tutti i dazi doganali sui prodotti manufatti. Con questa iniziativa gli Stati Uniti rilanciano il processo di liberalizzazione degli scambi internazionali e riprendono, dopo molte esitazioni, la leadership del negoziato commerciale. Non è la prima volta che gli USA svolgono un ruolo trainante in tale campo. Furono gli USA a insistere, con un’ostinazione giudicata irritante dagli europei, affinché la precedente tornata di negoziati commerciali includesse una riduzione consistente delle barriere che gravano sugli scambi di prodotti agricoli. Ancora oggi sono gli Stati Uniti che tornano a chiedere che questo tema continui a figurare in maniera prominente nel nuovo negoziato di Doha. Analogamente, anche nel campo degli accordi regionali, è dagli Stati Uniti che è venuto il primo accordo di piena integrazione commerciale con un paese in via di sviluppo, il Messico, nell’ambito del NAFTA.

Il contrasto con l’Europa è emblematico. Il nostro continente sembra incapace di formulare una proposta di negoziato che superi lo scoglio del protezionismo agricolo. Anche le proposte, piuttosto modeste, formulate dalla Commissione suscitano reazioni di intemperanza fra i ministri agricoli dell’Unione. Impegnata nel processo di allargamento, inceppata dai suoi stessi contorti meccanismi decisionali, timorosa delle possibili ricadute sul mercato del lavoro di una apertura verso i paesi del Terzo Mondo, l’Europa sembra avere rinunciato a svolgere un ruolo di primo piano nei negoziati dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, dimentica del fatto
che, come la storia insegna, il protezionismo non cura ma aggrava i problemi dell’economia.

Il legame tra flussi commerciali e flussi immigratori


I governanti europei sono assai più uniti nel loro proposito di chiudere le proprie frontiere all’immigrazione. Dalle politiche di asilo a quelle di ricongiungimento familiare alla concessione di permessi di lavoro, l’orientamento in Europa delle politiche di immigrazione è sempre più restrittivo. Vi è però un elemento schizofrenico in questo doppio tentativo di imporre, o mantenere, restrizioni sui flussi di commercio e su quelli di immigrazione. Anche in questo caso si trascurano le lezioni di molta storia che ha dimostrato che i due aspetti non sono slegati, ma al contrario che il processo di liberalizzazione degli scambi internazionali ha un impatto di tutto rilievo sull’immigrazione. In primo luogo, l’apertura agli scambi con l’estero è un fattore potente di crescita e di convergenza per i paesi più poveri. Si riduce così l’incentivo all’emigrazione: i lavoratori coreani non emigrano più nei paesi del Golfo. Più fondamentalmente, flussi migratori e scambi di beni rappresentano la manifestazione di uno stesso fenomeno: lo scambio dei servizi dei fattori produttivi. Importando un bene da un altro paese di fatto si importa anche il contributo del lavoro utilizzato per la produzione di quel dato bene. Con l’immigrazione invece si importano direttamente i servizi del lavoratore. Una politica di protezionismo commerciale chiude il primo di questi due canali e rischia così di esasperare la spinta a utilizzare il secondo. La protezione a favore di settori ad alta intensità di mano d’opera relativamente poco qualificata come l’agricoltura e l’abbigliamento penalizza le esportazioni e la domanda di lavoro nei paesi di partenza, rafforzando i fattori di spinta all’emigrazione. Da qualunque punto di vista si affronti il problema è difficile negare che il protezionismo commerciale alimenti la spinta all’immigrazione.

Questo dilemma fra protezionismo commerciale e desiderio di contenere il flusso di immigrati è ben presente ai politici americani. I dibattiti parlamentari su immigrazione e NAFTA misero in luce come la politica dei flussi migratori non dovesse essere definita indipendentemente da altre politiche, in particolare da quella del commercio con l’estero, con un forte impatto sulle migrazioni. Non a caso fu compiuta una scelta a favore di una piena liberalizzazione degli scambi commerciali con il Messico, nella consapevolezza del legame fra protezionismo commerciale e flussi migratori. Fu un presidente messicano, Carlos Salinas, a esprimere con la massima efficacia questo legame quando ricordò che il suo paese voleva esportare beni e non lavoratori.

La politica agricola europea è forse la migliore dimostrazione dell‘incapacità del nostro continente di cogliere il legame fra strategie del commercio con l’estero e politiche dell’immigrazione. Proteggendo le nostre colture (gli agrumi, i pomodori) ad alta intensità di mano d’opera poco qualificata si incoraggiano i lavoratori dei paesi meno ricchi a emigrare in Europa (non a caso la quota di mano d’opera straniera è particolarmente alta proprio in agricoltura). Si rallenta inoltre lo sviluppo dell’agricoltura nei paesi di partenza con conseguenze deleterie su reddito e occupazione.

Si cerca talora di giustificare il protezionismo europeo con la difesa dei diritti dei più deboli. Andrebbe però ricordato che le politiche protezionistiche attuate in Europa tutto fanno eccetto proteggere i diritti dei più deboli. La Banca Mondiale ci ricorda che ogni bovino europeo riceve in media due dollari e mezzo di sussidi al giorno. Quasi tre miliardi di persone vivono oggi nel mondo con un reddito inferiore ai due dollari al giorno. Di quali diritti stiamo parlando ?

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