Inspiegabilmente dimenticata dal Trattato di Maastricht, l’armonizzazione delle legislazioni sull’industria finanziaria procede tra resistenze (soprattutto della City), accelerazioni e difese di interessi nazionali. Ma se l’obiettivo è assicurare una maggiore concorrenza nell’industria finanziaria a beneficio dei consumatori, diventa cruciale trovare un accordo sui requisiti di trasparenza nella formazione dei prezzi. Il mercato unico dei servizi finanziari è un argomento poco sexy: non se ne occupa, comprensibilmente, il grande pubblico; poco se ne occupano gli economisti, se non quando sono chiamati da parti interessate a scrivere pareri pro veritate. Su gentile, anche se non credo popolare, richiesta dei colleghi de lavoce.info
Perché esiste un problema?
Singolarmente, il Trattato non si occupa specificamente di servizi finanziari. Si ritenne probabilmente che bastassero le regole del mercato unico, quasi che non vi fosse differenza con le mele o con le automobili.
Eppure le differenze sono notevoli. Al di là delle alchimie, l’industria finanziaria offre servizi e prodotti per l’investimento del risparmio. È perciò, ovunque e da quasi sempre, fortemente regolata, ben più di quella delle mele o delle automobili: per ottime e ovvie ragioni, condivise in linea di principio dalla più parte degli economisti.
Ma ogni Paese ha le sue leggi, le sue regole, le sue prassi: e ciò pone ostacoli all’offerta transfrontaliera di prodotti e di servizi; anche perché la specificità delle regole serve a volte a proteggere le industrie nazionali. Donde la necessità di intervenire a livello europeo, con legislazione comunitaria. Segue un’altra questione.
Non bastava l’euro a risolvere la questione?
La moneta unica, eliminando la differenziazione fra prodotti provocata dal rischio di cambio, ha fatto molto: lo sviluppo notevole delle euro-obbligazioni e la sostanziale integrazione del mercato dei titoli di Stato ne sono prova. Ma non basta la denominazione in moneta comune a smantellare gli ostacoli regolamentari alla offerta di prodotti o alla provvista di servizi in paesi diversi.
La soluzione semplice non sarebbe quella del mutuo riconoscimento, con l’obbligo di accettazione delle regole del Paese d’origine? È, da sempre, la tesi della City di Londra, contraria (per motivi non solo filosofici) a un’armonizzazione delle regole con legislazione comunitaria: sarà il mercato a scegliere la giurisdizione che offre le regole più acconce. La tesi della City ha qualche buon argomento: una stessa misura può non andar bene a tutti (one size cannot fit all), anche tenendo presenti le differenze di ambiente legale e istituzionale. Tuttavia, un’armonizzazione, sia pure graduale e non spinta all’estremo, pare una premessa indispensabile per il mutuo riconoscimento.
Un problema importante e uno studio da non leggere
Ma il problema è davvero così importante? Lo è, ma non certo per le ragioni spurie usate dalla Commissione europea onde giustificare il suo pur meritorio attivismo. Le ragioni spurie sono contenute in uno studio intitolato “Quantificazione dell’impatto macro-economico dell’integrazione dei mercati finanziari dell’Unione” commissionato a un istituto chiamato London Economics: si consiglia all’economista di non leggerlo; in alternativa, di leggerlo per manifestare salutare indignazione sul merito e sul metodo. Mettendo nel cestino le variazioni a breve termine sul tema Finanza & Sviluppo, ci si fermi alla ragione valida: una maggiore concorrenza nell’industria finanziaria, con auspicabili benefici per i consumatori.
A che punto siamo? Quattro anni fa la Commissione presentò un ambizioso Piano d’azione dei servizi finanziari (Fsap), con una lista delle misure da adottare. Sorprendentemente l’attuazione di quel piano è a buon punto (anche se non sempre lo è il recepimento delle direttive nelle legislazioni nazionali) con un’accelerazione nell’ultimo anno. Delle quarantadue misure elencate, trentaquattro sono già in vigore, anche se quelle mancanti sono le più difficili (v. oltre ). Cito fra le ultime approvate: la direttiva (per noi importantissima) su insider trading e manipolazione; quella sugli organismi di investimento collettivo (fondi comuni, ecc.); il regolamento che impone l’adozione degli stessi schemi contabili internazionali (Ias) per i bilanci consolidati (e, se si vuole, anche per i bilanci d’impresa) delle società quotate in tutti i Paesi membri. Non è poco.
Che cosa resta da fare?
Resta da fare ancora un bel po’, e con tempi incerti, perché le materie in discussione sono terreno di scontri cruenti sia fra interessi nazionali sia fra interessi industriali.
Cominciando dal più facile, la direttiva sui prospetti, doterebbe di un passaporto europeo i prospetti di emissione approvati in qualsiasi Stato membro, consentendo la raccolta di capitali anche negli altri Paesi. Le obiezioni londinesi riguardano i prospetti per le euro-obbligazioni.
Vi è poi la direttiva sulle offerte pubbliche, che mena vita grama da almeno quindici anni: il problema (su cui si sono molto esercitati gli economisti, solitamente in ritardo sull’ultima versione) riguarda le tecniche di difesa contro le offerte ostili. Il contenzioso è fra nordici tedeschi e scandinavi e non ci riguarda (anche se qualche norma ci avrebbe fatto comodo), poiché la nostra legislazione è in sostanza allineata con il City Code inglese.
La direttiva sulla trasparenza è ancora nella sua infanzia e dovrà aspettare il prossimo Parlamento europeo.
Il piatto forte è la direttiva sui servizi di investimento, essenziale per consentire la concorrenza transfrontaliera fra intermediari, con l’armonizzazione delle regole di condotta, e la concorrenza fra mercati regolamentati e di questi con i sistemi di scambio alternativi. L’innovazione delle tecnologie e dei prodotti ha reso obsoleta la precedente direttiva: la nuova rappresenterebbe un progresso di grande rilievo, anche se potrebbe innescare processi di ristrutturazione nell’industria. L’ostacolo principale è posto ancora una volta da Londra e riguarda il rifiuto dei grandi intermediari inglesi (si fa per dire: sono tutti americani) di accettare l’obbligo di pre-trade transparency, ovvero di pubblicazione di prezzi e quantità prima della negoziazione, nel caso di transazioni “internalizzate”, in cui la banca è controparte del cliente.
Il problema è di non poco conto. Se si accetta, come si deve accettare, l’abolizione del principio di concentrazione degli scambi su un solo mercato, ammettendo la frammentazione dei luoghi di negoziazione, diviene difficile imporre o accertare la cosiddetta best execution dell’ordine: tanto più importanti divengono dunque i requisiti di trasparenza nella formazione dei prezzi onde offrire adeguati mezzi di difesa ai clienti. Nel migliore dei casi, su questa direttiva si potrà raggiungere un accordo di massima, con una possibile approvazione nella seconda metà del 2004: tempi europei!
Il mercato e le istituzioni
Una legislazione adeguata è condizione necessaria, ma non sufficiente per la costruzione del mercato unico dei servizi finanziari. I costi dell’attuale segmentazione (in Europa una transazione transfrontaliera costa 7-10 volte di più che una transazione sul mercato americano) dipendono anche da classici fallimenti di mercato. Mi riferisco alla frammentazione in monopoli locali dei servizi successivi alla negoziazione, come clearing, settlement e custodia: la questione è stata esaminata a fondo in due ottimi rapporti del gruppo presieduto da Alberto Giovannini.
Vi sono poi le istituzioni. Una prima questione riguarda il lentissimo passo della legislazione comunitaria: si è cercato di affrontarla con la cosiddetta procedura Lamfalussy. Un’altra questione è una sorta di mostro di Loch Ness, che riemerge periodicamente: se sia condizione necessaria per l’integrazione mettere su un regolatore unico europeo (a European Sec, come dicono i proponenti). La mia risposta è che si tratta di un falso problema. I limiti di spazio, già ampiamente superati, non mi consentono di motivare questa perentoria affermazione.
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Cosimo
In merito all’articolo “Servizi finanziari, mancano ancora le regole essenziali” del Prof. Luigi Spaventa vorrei segnalare che tra i pericoli per la trasparenza del mercato, a proposito del “piatto forte” della direttiva sui servizi di investimento, c’è la possibilità per le grandi aziende di non passare più per gli intermediari ma di andare direttamente sul mercato diventandone membri.
In secondo luogo vorrei far notare come uno dei problemi principali che pone questa direttiva e che l’articolo non cita è quello dell’autorizzazione alla quotazione. Oggi è infatti affidata al mercato (Borsa Italiana S.p.A.) ma in un mercato concorrenziale, che la direttiva si propone di creare, dovrà essere affidata per forza ad Authority indipendente (Consob?).
Vorrei sapere una vostra opinione su questi due temi.
Nel ringraziarvi anticipatamente, vi faccio i miei migliori auguri per il primo anno di questo progetto che spero duri a lungo
Cosimo
La redazione
Sul primo punto, se ben ricordo, solo le società di assicurazione e i gestori possono essere “eligible counterparties” sul mercato; non le grandi aziende. Il problema dell’internalizzazione riguarda le investment firms.
Sul secondo punto. Il problema è stato risolto dagli inglesi, che, quando hanno privatizzato il LSE, hanno affidato la ammissione a quotazione a un’autorità indipendente: la UK Listing Authority. Ma il problema si pone a motivo della privatizzazione delle borse, per evitare conflitti d’interesse, non a motivo della concorrenza fra borse. Un titolo può essere ammesso a quotazione su un mercato regolamentato e poi ammesso a negoziazione su altri mercati. Le questioni che si pongono riguardano soprattutto le regole di trasparenza e di informazione sui mercati ove vi è solo negoziazione.
Luigi Spaventa