La globalizzazione aumenta l’insicurezza del posto di lavoro e del salario, ma offre anche più incentivi e opportunità. Lo dimostra uno studio sulle industrie manifatturiere nell’India degli anni della liberalizzazione commerciale. Per proteggere i lavoratori dall’incertezza globale, lo Stato dovrebbe perciò pensare a schemi di sostegno al reddito legati a programmi di riqualificazione. Una delle critiche rivolte più sovente alla “globalizzazione”, il processo di rapida integrazione dei mercati dei capitali, del lavoro e dei beni, è quella di accrescere l’insicurezza delle persone, rendendo precario il posto di lavoro ed il salario, e, con essi, consuetudini e modi di vita. La critica si concentra soprattutto sui mercati finanziari e sul mercato del lavoro. Aumenta l’incertezza Nei mercati finanziari, si sostiene, gli umori dei traders si trasmettono istantaneamente tra le Borse di tutto il mondo, causando, specie nell’economie emergenti, fughe di capitali, crisi valutarie, fallimenti a catena di banche e imprese, insolvenza del debito sovrano, arresti improvvisi della produzione, elevati tassi di interesse e prolungate fasi di stagnazione. Solo a partire dagli anni Novanta, nei cosiddetti Paesi emergenti si contano oltre venti episodi di crisi di debito sovrano: Uruguay e Venezuela 1990; Algeria e Tunisia 1991; Sud Africa e Cile 1993; Mexico, Venezuela e Argentina 1995; Tailandia, Indonesia e Corea 1997; Russia, Pakistan, Brasile e Ucraina 1998; Ecuador1999; Turchia 2000; Argentina e Brasile 2001; Indonesia 2002. Forse ancora più dannosi sono gli effetti dell’incertezza globale sul mercato del lavoro. (1) Quando cadono gli ostacoli al commercio e alla mobilità di persone e capitali, la domanda di lavoro delle imprese diviene esposta a shocks più ampi, dovuti per esempio all’andamento dei prezzi delle materie prime e dei beni prodotti o importati. Lo stesso accade per la produttività. E poiché le imprese possono più facilmente sostituire lavoratori esteri a quelli nazionali (outsourcing), e i consumatori possono sostituire beni importati ai prodotti nazionali, la domanda di lavoro diviene più sensibile (più elastica) rispetto a variazioni del salario reale. Ne segue che tali shocks, oltre a essere più ampi e frequenti, hanno ripercussioni ancor maggiori su salari e occupazione. Crescono gli incentivi Una recente ricerca (2) , condotta su dati microeconomici d’impresa per il Centro Luca d’Agliano e la Banca Mondiale, sostiene che la storia sopra descritta è una rappresentazione parziale della relazione tra globalizzazione, incertezza e mercato del lavoro: una sola faccia della medaglia. I lavoratori delle imprese “esposte” alla concorrenza internazionale (3), soffrono sì di maggiore incertezza su occupazione e salari rispetto agli impiegati delle imprese “protette”, ma nello stesso tempo hanno maggiori opportunità per accrescere il proprio capitale umano e avere una carriera più rapida (l’altra faccia della medaglia). L’evidenza empirica Lo studio considera un campione di circa novecento imprese manifatturiere indiane, negli anni 1997-99. Sono questi gli anni in cui l’India è teatro di un importante esperimento di liberalizzazione commerciale e il campione sembra perciò una finestra interessante da cui osservare gli effetti della globalizzazione. Ammortizzatori sociali e riqualificazione La globalizzazione accresce dunque l’insicurezza del posto di lavoro e del salario, ma a lavoratori e imprese offre anche migliori incentivi e opportunità. Sono le due facce della stessa medaglia. Questo risultato suggerisce che, nel pensare agli ammortizzatori sociali necessari a proteggere i lavoratori dall’incertezza globale, lo Stato deve aiutare, e non sostituire, la risposta del settore privato: ad esempio rendendo gli schemi di sostegno ai redditi condizionali all’adozione di programmi di riqualificazione e innovazione. (1) Si veda Dani Rodrik “Has globalisation gone too far?”, 1997 Institute for International Economics, Washington, DC (2) F.Daveri, P.Manasse e D.Serra, “The twin effects of globalisation”. Disponibile all’indirizzo http://www.dse.unibo.it/manasse/Pdf/india_030703.pdf (3) Sono considerate tali le imprese che esportano almeno il 30 per cento del fatturato, o che dichiarano di competere con imprese estere sul mercato interno. Le imprese “protette” sono quelle che non soddisfano nessuna di queste condizioni.
Con il contagio, le diverse economie tendono a muoversi sempre più insieme, cosicché aumentano ampiezza e durata del ciclo economico internazionale. Paradossalmente, però, la coincidenza delle fasi cicliche delle diverse economie riduce le possibilità per i risparmiatori di ridurre i rischi attraverso la diversificazione internazionale del portafoglio.
Insomma, la globalizzazione accresce la domanda di protezione sociale, soprattutto da parte dei lavoratori: solo lo Stato può coprire il rischio di rimanere disoccupati. Nello stesso tempo, tuttavia, la mobilità internazionale dei capitali riduce la possibilità dello Stato di offrire protezione sociale aumentando le imposte. A meno di concentrare il carico fiscale sempre più sul lavoro.
L’idea è semplice. Di fronte all’aumento dell’incertezza, i lavoratori corrono ai ripari: per prima cosa seguono corsi di formazione e così acquisiscono nuove abilità diventando più produttivi. Ottengono così più rapidi avanzamenti di carriera e, dunque, aumenti salariali futuri. Anche le imprese hanno maggior incentivo a investire nei propri dipendenti, per innovare e differenziare i propri prodotti a fronte di una concorrenza internazionale più agguerrita.
L’evidenza empirica sembra confermare l’idea che gli effetti “cattivi” (l’incertezza) e “buoni” (gli incentivi) della globalizzazione costituiscono le due facce della stessa medaglia.
Rispetto alle imprese “protette” dalla concorrenza internazionale, quelle “esposte” presentano sistematicamente una variabilità di gran lunga maggiore di salario, occupazione, vendite e, pur se in misura minore, profitti.
Contemporaneamente, la percentuale degli impiegati che partecipano ad attività d’apprendimento e riqualificazione (training) è molto più elevata tra le imprese “esposte”: ben il 77 per cento nelle imprese con partecipazione estera del capitale, il 31 per cento tra le imprese esportatrici, contro il 19 per cento nelle imprese “protette”.
Infine, secondo le stime della ricerca, i lavoratori delle imprese “esposte” alla concorrenza internazionale hanno una probabilità di ottenere avanzamenti di carriera doppia, rispetto ai loro colleghi “protetti”. Ogni anno, nelle imprese “esposte”, il 4 per cento dei lavoratori è promosso, arrivando a svolgere mansioni più qualificate. Nelle imprese “protette” questa percentuale è solo del 2 per cento.
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