L’accordo sulla produttività avrà successo? Incentiva la contrattazione di secondo livello, con importanti risorse a disposizione, ma anche una grande quantità di obiettivi. I dubbi sulle agevolazioni fiscali e l’incognita della mancata adesione della Cgil.

Il recente accordo “sulla produttività” firmato dalle parti sociali e dal Governo s’inserisce in una lunga tradizione di “patti sociali” a cui, nei momenti di particolare crisi, il nostro paese ha fatto ricorso nel tentativo di rilanciare il sistema economico modificando il contesto istituzionale. Sebbene non tutti i “patti sociali” del passato abbiano avuto successo, alcuni hanno significato molto per la modernizzazione del mercato del lavoro e per lo sviluppo economico del paese. È perciò importante che l’accordo attuale, inteso a rivedere le modalità di svolgimento della contrattazione collettiva per favorire lo sviluppo e incrementare la produttività, si aggiunga alla lista dei successi e non a quella dei fallimenti.

RISORSE E OBIETTIVI

Dall’esperienza del passato, si rileva che il successo di un “patto sociale” dipende da una serie di fattori. In primo luogo, dalle risorse messe in gioco dal Governo e dall’efficacia con cui queste intervengono nell’incentivazione delle attività produttive. In secondo luogo, dalla precisione con cui gli obiettivi vengono esplicitati, dai tempi e dalle modalità di implementazione. In termini di risorse, l’impegno di 1,6 miliardi di euro con la possibilità che diventino 2,1 miliardi, tra il 2013 e il 2014, appare uno sforzo promettente, date le attuali difficoltà di bilancio. Quanto alla definizione degli obiettivi, va detto che nell’accordo è stato inserito un po’ di tutto, dalle regole di rappresentanza alla revisione dei livelli di contrattazione, dalle forme di partecipazione dei lavoratori all’azionariato dei dipendenti, e ancora orari, mansioni, formazione, tutela dei lavoratori anziani e persino la riduzione del cuneo fiscale. Non c’è dubbio che ciascuno di questi punti meriti un’incisiva azione di Governo, ma è lecito nutrire qualche dubbio sull’efficacia di una lunga serie di affermazioni alquanto generiche e di auspici per il futuro.

RIFORMA DEI LIVELLI DI CONTRATTAZIONE

L’accordo assegna alla contrattazione collettiva nazionale il compito di salvaguardare il potere d’acquisto dei salari, senza alcun automatismo ma con riferimento alle reali dinamiche economiche, e di garantire l’uniformità (su scala nazionale) degli aspetti normativi. Alla contrattazione di secondo livello, integrativa o di produttività, spetta il compito di allineare le esigenze produttive dell’impresa alle retribuzioni dei lavoratori. In altre parole, si consente agli accordi aziendali, come già avveniva in passato, di definire modalità retributive (retribuzione variabile collegata a elementi di produttività, redditività) e organizzazione del lavoro (orari, mansioni, ecc.) che consentano guadagni di efficienza per favorire la crescita della produttività (nonché delle retribuzioni dei lavoratori). Il tutto supportato, così recita l’accordo, da “idonee politiche fiscali di vantaggio”.
Cosa cambia veramente? In pratica, è previsto un ridimensionamento degli effetti egualitari della contrattazione collettiva nazionale, a favore di un potenziamento degli istituti su cui può incidere la contrattazione di secondo livello: retribuzioni, orari, inquadramenti potranno essere definiti dalla contrattazione aziendale per rispondere meglio alle esigenze produttive dell’impresa.
In particolare, una parte della retribuzione contrattata a livello aziendale potrà essere definita in funzione di indicatori di produttività, redditività, qualità, innovazione, o altri elementi funzionali a incrementare la competitività.
Se l’impianto dell’accordo dovesse essere confermato, cosa è lecito attendersi da questa serie di provvedimenti?

RETRIBUZIONE VARIABILE E PRODUTTIVITÀ

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Non c’è dubbio che l’abolizione degli automatismi salariali e il potenziamento della contrattazione di secondo livello – anche in deroga a quella nazionale – consentiranno maggiore flessibilità retributiva e normativa e una migliore articolazione degli esiti contrattuali sul territorio nazionale, anche tra le stesse imprese all’interno di uno stesso comparto. Questo aspetto risponde a un’esigenza fortemente sentita dalle imprese per ristabilire le reali condizioni di competitività sul territorio nazionale e tra grandi e piccole imprese.
Il secondo tema, alquanto dibattuto fra gli economisti, è l’impatto in termini di crescita della produttività della definizione di parti di retribuzione variabile nella contrattazione di secondo livello. (1)
Gli effetti dipendono dalla quota di retribuzione variabile, dall’indicatore di performance utilizzato e dalle condizioni di contesto in cui opera l’impresa. La figura 1 mostra come i premi retributivi legati alla performance dell’impresa rappresentino, in Europa (7-12 per cento), ancora una quota esigua della retribuzione complessiva rispetto, per esempio, agli Stati Uniti (25-40 per cento).

Figura 1 – Retribuzione legata alla performance individuale, collettiva e azionariato dei dipendenti in Europa e Stati Uniti

a) Europa (2000-2005)                                                    b) Stati Uniti (2002-2006)

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Fonte: Boeri, T. Lucifora, C. Murphy, K. Executive and Employees Compensations: Productivity, Profits, and Pay, Oxford University Press, in stampa, 2013

Per quanto riguarda l’Italia, in un recente lavoro mostriamo che, anche dopo l’accordo del 1993, i premi retributivi variabili non superano in media il 5-6 per cento della retribuzione totale. (2)
Anche la struttura del premio risulta cruciale: premi troppo complessi, che dipendono da un numero elevato di indicatori di performance dell’impresa, sono meno efficaci di premi più semplici, soprattutto se basati su un unico indicatore di produttività aziendale. Inoltre, i guadagni di produttività sono di fatto nulli nelle imprese che utilizzano i premi anche per suddividere il rischio con i lavoratori, come succede quando l’erogazione effettiva è condizionata all’esistenza di utili, a prescindere dal numero e tipo di indicatori di performance utilizzati nell’algoritmo del premio.
Infine, l’effetto varia notevolmente con la dimensione d’impresa (è assente nelle imprese con meno di 20 dipendenti), il livello di innovazione (è più elevato nei settori più tecnologici) e il tasso di sindacalizzazione (risultando più consistente nelle imprese meno sindacalizzate).
I risultati suggeriscono che i guadagni di produttività possono essere molto diversi da un settore all’altro – e risultare minori soprattutto nei servizi, in cui è particolarmente difficoltoso misurare la produttività aggregata – e, come nel caso delle politiche pubbliche, possono essere vanificati se le imprese intendono perseguire con un unico strumento (il premio variabile, appunto) più obiettivi, come l’incentivazione dello sforzo e la suddivisione del rischio.

IL CLIMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI

L’accordo ha trovato il consenso di gran parte delle associazioni di categoria e dei sindacati, con l’importante eccezione della Cgil. La divisione all’interno del sindacato non è certo una novità,  segna piuttosto il clima delle relazioni industriali degli ultimi anni, vale tuttavia la pena chiedersi cosa possa comportare per la buona riuscita dell’accordo. Vista la natura negoziale dell’impianto complessivo che delega alla contrattazione collettiva materie importanti e finora regolate (almeno in parte) dalla legge, non c’è dubbio che un clima collaborativo e non conflittuale delle relazioni industriali sia un elemento importante per il buon funzionamento degli istituti previsti dall’accordo e per il raggiungimento degli obiettivi. Il fatto che un sindacato ben radicato nella grande impresa non abbia aderito all’accordo costituisce indubbiamente un elemento di forte incertezza, che potrà incidere, a livello locale, sia sulla diffusione sia sull’efficacia della contrattazione di secondo livello.

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DETASSAZIONE E DECONTRIBUZIONE DELLA RETRIBUZIONE VARIABILE

In ultimo, deve essere valutato se l’impiego di risorse pubbliche per incentivare la contrattazione di secondo livello sia efficiente e se le modalità di implementazione siano efficaci. È forse il punto più controverso dell’intero accordo. Da un lato, non è chiaro se e perché lo Stato debba intervenire, con agevolazioni fiscali, nell’organizzazione (interna) del lavoro delle imprese. Se un’impresa decide di erogare ai propri dipendenti premi retributivi legati ai risultati, perché la scelta organizzativa, diretta a rendere più efficiente e competitiva la produzione, dovrebbe essere sovvenzionata con soldi pubblici? Il rischio, in questo caso, è quello di sovvenzionare decisioni che le imprese (nel loro interesse) avrebbero preso comunque; e anche quando si riuscisse a indurre imprese che altrimenti non l’avrebbero fatto ad adottare schemi retributivi incentivanti, la decontribuzione incondizionata a tutte le aziende sembra un modo molto costoso per raggiungere un obiettivo modesto. L’accordo sulla produttività è inoltre in controtendenza rispetto a quello che succede in altri paesi europei: per esempio in Francia (che vanta una lunga tradizione di partecipazione dei lavoratori ai risultati d’impresa attraverso l’“intéressement”), gli oneri contributivi sono passati nel giro di pochi anni dal 2 per cento all’attuale 20 per cento. (3) D’altro lato, la detassazione della parte retributiva variabile introduce un elemento di forte incertezza nel sistema impositivo e si presta ad abusi generalizzati. Infatti, sia da parte del lavoratore (maggiore retribuzione netta) sia da parte dell’impresa (minor costo del lavoro) vi è un forte incentivo a colludere, dichiarando come “variabili” quote crescenti di retribuzione, anche se variabili non sono. Ed è difficile capire come l’amministrazione fiscale potrà distinguere tra componenti retributive effettivamente variabili e componenti fisse. In un paese in cui l’evasione e l’elusione fiscale raggiungono livelli record, non si sentiva veramente il bisogno di introdurre anche nel lavoro dipendente (finora essenzialmente esente) potenziali forme di abuso fiscale.
Se invece l’obiettivo, non dichiarato, era semplicemente quello di ridurre il cuneo fiscale, meglio sarebbe stato renderlo più trasparente e non limitato alle sole imprese in cui viene svolta la contrattazione di secondo livello, introducendo ovvie distorsioni nelle condizioni di competitività delle imprese.

(1) Per una rassegna del dibattito si veda Boeri, T. Lucifora, C. Murphy, K. Executive and Employees Compensations: Productivity, Profits, and Pay, Oxford University Press, in corso di pubblicazione, 2013
(2) Lucifora, C. e F. Origo, “Performance Related Pay and Firm Productivity: New Evidence from a Quasi-Natural Experiment in Italy”, IZA DP 6483, 2012
(3) François Meunier “L’étrange fiscalité de l’intéressement”, Telos, 28 novembre 2012

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